BOSTON COTLEOE LIBRARY ■ CHESTNUT KiLL, MASS. GIORGIO FANO LA FILOSOFIA DEL CROCE SAGGI dì critica e primi lineamenti di un sistema dialettico dello spirito Prima edizione Proprietà letteraria riservata - Istituto Editoriede Italiano - Milano, Via Piolti de Biancki, 10 Stampato in Italia - Printed in Italy GIORGIO lAW LA FILOSOFIA DEL CROCE SAGGI di critica e primi lineamenti di un sistema dialettico dello spirito 433656 nPR-l 70 BOSTON COLLEOii LffiitA«¥ CHESTNUT HILL, MASS. Alla memoria di Giuseppe Lombardo Radice amico e compagno di lavoro indimenticabile Intendere il predecessore e progredire oltre di lui non sono due stadi distinti, ma uno stadio solo, non due ma un unico processo. Croce (Contributo alla critica di me stesso). AVVERTENZA. — In un libretto intitolato II sistema dialettico dello spirito, pubblicato a Roma nel 1937, a uso dei miei alunni del Magistero, avevo premesso la seguente avvertenza: « Ho dato un primo cenno di questo sistema, limitatamente alla dialet- tica del concetto estetico, fino dal 1911,^ e nel 1928 e ’29 ho pubblicato un abbozzo dei momenti teoretici inferiori al giudizio storico.2 <:< Avrei voluto dare ora, dopo quasi un trentennio di meditazione e di studio, uno svolgimento completo e particolareggiato del mio pensiero, ma la cosa non è stata possibile per ragioni pratiche ed editoriali. « Che in queste paginette si possa trovare (come io m’illudo) lo spunto di una nuova Estetica e Analitica, di una Filosofia della storia e della religione, è invero una pretesa che sembrerà azzardata non solo al lettore disattento ma fors’anche a quel lettore ideale che vivrà dopo di noi, e al quale il filosofo ”cupido di morire” non può pensare senza nostalgia. Ma per questo lontano lettore lascerò qualche miglior documento. » Col presente studio mantengo in parte l’impegno allora preso e mi auguro di poterlo mantenere in seguito più pienamente. G. F. 1) In uno studio sul Croce nella raccolta « V Anima », diretta da G. Amen- dola e G. Papini. 2) In uno studio sullo stesso autore nel « Giornale Critico della Filosofia Italiana ». ‘ INDICE e SOMMARIO Avvertenza pag. 7 PARTE PRIMA I PROBLEMI DELLA LOGICA FILOSOFICA E DELL’ ISTORICA Capitolo Primo LA DIALETTICA DELLE DETERMINAZIONI SPIRITUALI L II punto di partenza della nostra critica .... pag. 23 1. Necessaria sistematicità del pensiero filosofico. - 2. Gli errori del filosofo non sono fortuiti ma costituiscono un errore solo. - 3. L’errore fondamentale del C. consiste nel suo modo di concepire le distinzioni. - 4. Occorre salvare la ricchezza e varietà dei problemi critici e insieme l’assoluta unità del processo spirituale. IL Il nesso dei concetti distinti 5. Linee schematiche della filosofia dello spirito. . pag. 26 III. Mancata universalità dei concetti distinti .... pag. 6. L’intuizione pura contradice all’universalità del predicato logico, e la pura economicità a quella, del predicato morale. 28 IV. Mancata concretezza dei concetti puri . ... . pag. 31 7. I concetti puri del C. non corrispondono alla realtà storica. - 8. Affinché i momenti ideali corrispondano alla realtà oc- corre concepirli dialetticamente. - 9. L’intuizione non è che un aspetto del pensiero concreto, ma ciò non autorizza a con- fondere il predicato estetico con quello logico. V.' Difficoltà e incertezze nel concetto di unità- distinzione pag. 35 10. L’unità e le distinzioni, legittime in un sistema dialettico, restano ingiustificate nella filosofia del C. - 11. In che senso il predicato logico è presente nell’opera di poesia? - 12. E quello pratico nell’opera teorica? - 13. In che senso la prosa è poesia? - 14. Non esiste un’opera d’arte in sé, ma ogni opera diventa artistica se come tale la consideriamo. - 15. Legittime sono le distinzioni dialettiche e non quelle ontologiche. 11 VI I concetti distinti e la teoria dell’errore .... pag. 16. L’errore teoretico non può essere in sé atto economico perché dove il pensiero fallisce, fallisce anche il volere. - 17. Il male morale è sempre anche male economico. - 18. Ciò che chiamiamo male o errore è la disgregazione analitica di una sintesi che vagheggiamo. - 19. Lo spirito non passa da una categoria all’altra ma è sempre tutto presente a sé stesso. VII. L’autonomia dei concetti distinti e la trascendenza dei fatti sui valori pag. 20. Non pluralità di atti ma di valori. - 21. Superstite dua- lismo fra essere e pensiero. - 22. La dialettica dei gradi di- stinti non è vera dialettica. Vili. Concetti distinti e concetti opposti pag. 23. Falsa distinzione fra distinti e opposti. - 24. Genesi della teoria dei gradi. IX. Mancata deduzione delle categorie pag. 25. Soltanto in un sistema dialettico è possibile una dedu- zione delle categorie. - 26. Se il contenuto dell’atto vien con- siderato come precedente cronologico si cade in un regresso infinito. - 27. Arbitraria sistemazione dei concetti distinti. Capitolo Secondo L’ IDENTIFICAZIONE ADIALETTICA DI FILOSOFIA E STORIA E LA MANCATA UNIFICAZIONE DI PENSIERO E AZIONE I. La relazione fra il concetto trascendentale e il giudizio sto- rico, e quella fra teoria e pratica pag. 28. Genesi delle identificazioni adialettiche. - 29. Ragioni che hanno portato alla falsa identificazione di filosofia e storia. - ^ 30. Le stesse ragioni valgono per la identificazione di teoria • e pratica, ma il C. le rifiuta. - 31. L’unità dialettica di pen- siero e azione non significa confusione dei due valori. - 32. L’intuizione concreta e la categoria astratta sono momenti del giudizio storico. II. La storia come momento della filosofia e la filosofia come sintesi di teoria e pratica pag. 33. Superamento dello storicismo. - 34. Pensiero e azione, momenti dialettici dell’autocoscienza. - 35. L’antinomia del giudizio storico. - 36. Astrattezza della teoria pura. - 37. La reciproca implicazione non risolve l’antitesi. Capitolo Terzo LA POLEMICA CONTRO IL «PROBLEMA UNICO» E LA SUPERSTITE TRASCENDENZA NELLA FILOSOFIA DELLO SPIRITO I. I vari motivi deUa polemica pag. 69 38. Negazione della filosofia come problema massimo. - 39. Ne- gazione della storia della civiltà. - 40. Significato equivoco del « Problema generale ». - 41. Negazione storicistica della filosofia. - 42. Lo storicismo conseguente deve negare l’asso- lutezza delle categorie. - 43. La negazione della filosofia nel- l’attualismo. II. Il nesso circolare e il sistema dialettico .... pag. 77 44. Le categorie sono momenti analitici dell’unico concetto. - 45. Il C. riconosce, suo malgrado, che il problema filosofico è unico. - 46. Lo « Spirito » nella concezione del C. è un con- cetto generico e astratto. III. La gerarchia dei valori e la sintesi a priori logica . pag. 84 47. Il primato della sintesi sui suoi momenti. - 48. L’asso- luto primato del pensiero. - 49. Inattualità dei concetti di- stinti. - 50. Ammettendo altre attività accanto al Pensiero si cade nel realismo. - 51. Se il Pensiero non fosse tutto il reale, essere e pensiero non coinciderebbero... - 52. ... e il con- cetto diventerebbe un’accidentale modificazione del reale pre- esistente. - 53. Sistematicità della storiografia filosofica e asistematicità di quella artistica. IV. Il primato della storia etico - politica pag. . 95 54. L’unica storia concreta è quella dell’universale. - 55. Il Ò. riconosce di fatto il primato della storia etico-politica. - 56. La storia etico-politica è la storia dello spirito in tutte . le sue forme. V. Il dilemma fra il progresso infinito e la fine della storia pag. 101 57. Come evitare il dilemma. - 58. Esempio dal sistema dia- lettico. - 59. Il dilemma sorge dalla contaminazione storici- stica dell’Assoluto. - 60. Errori che derivano dalla identifi- cazione adialettica di storia e filosofia. - 61. Il torto e il diritto del panlogismo. - 62. Ricapitolazione della parte prima 13 PARTE SECONDA I PROBLEMI DELL’ ESTETICA LA COSCIENZA SENSIBILE E LA CERTEZZA FILOLOGICA COME MOMENTI DELLA SINTESI ARTISTICA I. Il valore positivo della coscienza sensibile e il suo discono- scimento da parte del Croce pag. 113 63. Le astratte negazioni e identificazioni, caratteristiche del moderno idealismo italiano. - 64. La negazione crociana della coscienza sensibile. - 65. Le stesse ragioni dovrebbero portare alla negazione dell’intuizione. - 66. L’identificazione del sen- tire con l’intuire. - 67. Sensazione e percezione. - 68. La sen- sazione è atto pratico? - 69. L’ignava ratio delle spiegazioni prammatistiche. - 70. L’economicità non è carattere peculiare del sentire. - 71. La sensazione non è il sentimento. II. La contradizione della coscienza sensibile e l’affermazione della memoria pura pag. 126 72. Carattere teoretico della sensazione.' - 73. Definizione del sentire puro. III. L’antitesi della sensazione: la memoria pura . . . pag. 128 74. Deduzione della memoria pura. - 75. La memoria trasfor- ma le sensazioni in immagini. - 76. Anche per Kant la me- moria è un atto trascendentale. - 77. La memoria come cate- goria della filologia pura. - 78. Il carattere scientifico' della filologia. - 79. L’antitesi ha il suo presupposto fuori di sé, la sintesi l’ha in sé. - 80. La contradizione della memoria pura. - 81. Falsa identificazione del giudizio percettivo col giudizio storico. - 82. La teoria prammatistica della cronaca. - 83. Suo carattere realistico. - 84. Sua parziale verità. - 85. Ille- gittima distinzione di attività pure e di attività spurie. - 86. Inconseguente riconoscimento dell’ universale filologico. IV. La cronaca e la mentalità mitologica pag. 146 87. Il mitologismo assume la conoscenza cronicistica come sa- pere assoluto. - 88. E considera perciò il principio d’autorità come ultima istanza dottrinale. - 89. Il misticismo assume la percezione immediata come sapere assoluto. - 90. La di- 14 / retta visione dell’assoluto presupposto della mentalità pre- ellenica. V. Storia e Cronaca ' va.g. 149 91. La documentazione è inessenziale alla storia? - 92. Pri- mato della storia sulla filologia... - 93. ...ma anteriorità della filologia rispetto alla storia. VI. I precedenti dell'iniziativa estetica pag. 153 94. La sensibilità e non l’atto economico. - 95. La conoscenza filologica e non il giudizio storico. VII. Le antinomie della coscienza estetica pag. 158 96. Erudizione senza gusto, e buon gusto senza preparazione • filologica. - 97. Il significato filosofico del classicismo e del romanticismo. - 98. Il classicismo, come difetto, equivale al filologismo. - 99. Il romanticismo, come difetto, equivale al- l’edonismo. Vili. Il carattere lirico e il carattere epico dell’arte . . . pag. 166 100. Il valore lirico si riferisce alla soggettività del sentire, il valore epico all’oggettività della memoria. - 101. Il C. con- fonde la sintesi con uno dei suoi momenti. - 102. Origine di tale errore. IX. Il concetto filologico e il concetto estetico del linguaggio pag. 17L 103. La parola come segno convenzionale. - 104. Il linguaggio madeguato all’espressione. - 105. Linguaggio e scrittura. - 106. Il concetto estetico del linguaggio. - 107. Teorie intorno all’origine del linguaggio. X. Nota sulla critica d’arte . . . ' pag. 180 108. Distinzione fra la perfezione e la genialità. - 109. La critica del De Sanctis e quella del Croce. XI. La contradizione dell’intuizione pura pag. 184 110. L’intuizione è conoscenza individuale. La modificazione posteriore della definizione resta puramente verbale. - 111. L’individualità della sensazione è priva di dimensione, quella dell’intuizione è priva di concetto - 112. L’intuizione individuale è incomunicabile. - 113. L’intuizione pura è inin- tuibile... - 114. ...e postula quella identità che essa nega. - 115. Ricapitolazione della parte seconda. - 116. Negatività della critica attualistica. 15 PARTE TERZA I PROBLEMI DELL’ANALITICA Capitolo Primo LA GNOSEOLOGIA DELLE SCIENZE I. Affermazione del concetto astratto come condizione trascen- dentale di ogni conoscenza pag. 197 117. Il concetto astratto come antitesi dell’intuizione. - 118. L’immediatezza delllntuizione è una supposizione meta- fìsica. 119. Problemi estetici particolari che sorgono dal- l’inopia dell’intuizione pura. - 120. Teoreticità del concetto astratto. - 121. L’intuizione e il principio degli indiscernibili. - 122. La deduzione trascendentale del principio d’identità. II. La sintesi a priori matematica . . . • . . . . pag. 204 123. La definizione matematica. - 124. I giudizi matematici sono analitici. - 125. Ogni giudizio è analitico o sintetico se- condo il punto di vista da cui lo si considera. - 126. L’identità non è data immediatamente ma è posta dal pensiero. - 127. In che senso si possa parlare di una sintesi a priori matematica. - 128. Il concetto matematico presuppone l’intuizione come l’antitesi presuppone la tesi. III. L’intuizione e il concetto astratto cow.e momenti del concetto empirico pag. 208 129. Definizione della legge sperimentale. - 130. Categoricità del concetto empirico. - 131. Le determinazioni concettuali sono contradittorie in sé ma non per sé. - 132. Dall’intuizione e dal concetto astratto si deriva un criterio negativo e un criterio positivo per giudicare la ricerca sperimentale. - 133. Conversione dei momenti opposti costitutivi del concetto empirico. - 134. Falsa antitesi fra concetto astratto e concetto empirico. - 135. Difficoltà dell’analitica kantiana e modo di risolverle. IV. La dottrina dei pseudo-concetti pag. 217 136. L’analitica del Croce. - 137. Parziale motivo di vero: la critica dell’astrattezza intellettuale. - 138. Ogni giudizio sto- rico implica dei concetti empirici. - 139. Secondo la dottrina prammatistica la coerenza logica sarebbe una questione di comodo. - 140. Inettitudine storica della gnoseologia pram- 16 matistica. - 141. Il valore teorico delle scoperte fisiche non consiste nella storicità. - 142. Il C. dovrebbe logicamente negare la fisica e la matematica. V. Delle teorie prammatistiche in generale . . • . . pag. 226 143. Carattere prekantiano del prammatismo. - 144. Signifi- cati diversi della « funzione economica ». - 145. Presupposto realistico del prammatismo. - 146. Prammatismo e terminismo scolastico. - 147. Il carattere economico e la finalità. - 148. Le percezioni impercettibili del Bergson. - 149. Ingenuità acriti- che. - 150. Origine humiana del prammatismo. - 151. Il pre- supposto che la connessione fra i fenomeni debba esser data. - 152. Il pensiero come illegittima modificazione del reale. - 153. Le intuizioni alogiche sono astrazioni più povere dei con- cetti intellettuali. - 154. La supposizione metafisica delle « sensazioni pure ». - 155. Il dogmatismo disilluso dei pram- matisti. VI. Considerazioni storiche pag. 241 156. Corrispondenza fra lo svolgimento storico e quello dia- lettico. - 157. Decisiva infiuenza della matematica sul razio- nalismo greco. - 158. La negazione dell’individualità caratte- ristica del razionalismo. - 159. L’identificazione razionalistica e quella idealistica di essere e pensiero. - 160. L’indistinzione razionalistica fra ragione logica e causa empirica. - 161. Il razionalismo come errore eterno. - 162. La gnoseologia pram- matistica è incapace di valutare storicamente il razionalismo, l’empirismo e il criticismo. - 163. Incertezza kantiana intorno alle intuizioni alogiche. - 164. Il circolo vizioso fra l’univer- salità del principio di causa e quella della scienza. Capitolo Secondo DALL’ANALITICA ALL’ISTORICA I. L’antitesi dell’ esperienza: il concetto trascendentale . pag. 253 165. Disconoscimento del valore autonomo del concetto tra- scendentale. - 166. Il- concetto puro, antitesi del concetto em- pirico. - 167. L’indagine trascendentale, momento necessario di ogni filosofia. - 168. Il concetto puro distinto da quello metafisico. - 169. Il criticismo assume il concetto puro come somma conoscenza. IL II giudizio storico pag. 257 170. La contradizione del concetto puro. - 171. La materia 17 della storia sono i fatti e non le immagini. - 172. Dal concetto puro e dal concetto empirico derivano due pregi e due difetti della ricerca storica. - 173. L’ itinerario della mente. - 174. L’identificazione di storia e filosofia. - 175. Ricapitola- zione della parte terza. PARTE QUARTA I PROBLEMI DELLA PRATICA Capitolo Primo L’ATTIVITÀ PRATICA IN GENERALE I. La deduzione del valore pratico come distinto da quello teoretico pag. 269 176. Mancata deduzione della forma pratica nella filosofia del C. - 177. Il C. si propone di dimostrare la semplice distinzione di teoria e pratica, e ne dimostra invece l’opposizione. - 178. Il vero argomento ontologico è il cogito cartesiano, e la verità del cogito è la dialettica. II. ‘ La relazione dialettica fra volontà e conoscenza . . pag. 274 179. Phaenomena e noumena. - 180. L’opposizione inconci- liata di volontà e conoscenza nello Schopenhauer. - 181. Se la volontà pura viene considerata come l’essere del reale, la conoscenza si configura come non essere, e viceversa. III. Necessità e libertà pag. 276 182. L’antinomia libertà-necessità non costituisce la dialet- tica dell’attività pratica, bensì quella dello spirito assoluto. - 183. Ciò che è confermato dall’antitesi fra misticismo e materialismo, e dalla loro sintesi nel concetto speculativo. - 184. La logica speculativa contiene in sé la filosofia della pra- tica. - 185. Ricapitolazione del capitolo primo. Capitolo Secondo L’ECONOMIA E I SUOI MOMENTI ANALITICI I. L’istinto violento pag. 280 186. I bisogni e gli appetiti come precedenti dell’azione. - 187. Modo tenuto dal C. per negare il valore positivo del- l’istinto. - 188. Definizione dell’istinto. II. L’abito volitivo o il costume pag. 284 18 189. Definizione dell’abito volitivo. - 190. Neii'atteggiamenta magico il desiderio puro si sostituisce all’azione. - 191. L’a- zione economica come sintesi della violenza impulsiva e della finalità costumata. III. La pura economicità e la sua contradizione , . . pag. 288 192. L’azione economica non è autonoma. - 193. L’economicità pura è mezzo senza scopo. - 194. Il mezzo di cui ci serviamo non si può identificare con la situazione di fatto. - 195. L’agire di chi tende al proprio benessere personale supera la pura economicità. - 196. L’oggetto della volontà non è mai pura- mente individuale. - 197. Ricapitolazione del capitolo secondo. Capitolo Terzo L’AZIONE ETICO POLITICA E I SUOI MOMENTI I. Il diritto pag. 294 198. L’antitesi della volontà economica. - 199. La dialettica positiva e la Provvidenza. - 200. Il « patto sociale » sorge necessariamente dalla contradizione del volere economico. - 201. Il conflitto fra la volontà economica e quella giuridica e il significato della coercizione. - 202. Il caràttere coattivo è essenziale alla legge giuridica. II. La dottrina crociana delle pseudo -volizioni . . . pag. 300 203. Legge e volontà giuridica secondo il C. - 204. La contra- dizione dialettica del momento giuridico affermata ma non riconosciuta. - 205. Il diritto ha carattere universale oppure è una formazione contingente? - 206. Il criterio della legge è l’equità e non l’utilità economica. - 207. La volizione giuri- dica è astratta per sé ma non in sé. - 208. La volontà giu- ridica deve prescindere dall’interesse individuale. - 209. Il C. afferma e smentisce l’identità fra economia e diritto. - 210. Conclusioni critiche. - 211. 1 caratteri essenziali del diritto. III. La carità pag. 312 212. La contradizione del concetto giuridico. - 213. La carità come sintesi della volontà individuale e dell’equità giuridica. - 214. I due opposti pregi e difetti della volontà morale. - 215. La negazione adialettica della carità. - 216. La carità è un momento essenziale di ogni volizione. - 217. Corrispon- denza fra la solidarietà delle rappresentazioni nella legge scientifica e la solidarietà degli interessi nella carità. - 218. L’identificazione adialettica di giustizia e carità. IV. Uimperativo ideale pag. 318 219. L’inopia della carità. - 220. Imperativi categorici e im- perativi ipotetici. - 221. La fede nell’ideale. - 222. Identifi- 19 ,cazione astratta del dovere, della virtù e dell’ideale, e abbas- samento di questi principi a classificazioni empiriche. - 223. Il conflitto fra la giustizia e la carità, e quello fra la carità e l’ideale. V. La Politica pag. 224. Inattualità del puro ideale. - 225. Definizione dell’azione politica. - 226. Uomo politico è colui che realizza i fini im- manenti della storia. - 227. L’essenza e l’apparenza della po- litica. - 228. La dottrina politica del C. - 229. Quale è la ragione per cui le azioni politiche si giudicano con diverso criterio da quelle private? - 230. L’azione politica ha la sua morale in sé. - 231. I precetti morali basati su un contenuto determinato sono o tautologici o falsi. - 232. L’inefficienza del diritto internazionale e il malcostume politico. - 233. Esigenza di un diritto internazionale armato.' - 234. La « politica estera » rappresenta il momento economico delia politica. - 235. L’a- zione politica oltrepassa sempre la sfera economica. - 236. Considerando la politica come unità di forza e consenso, il C. ne smentisce il carattere economico. - 237. Il diritto come momento essenziale dell’azione politica. - 238. La teoria egualitaria esprime l’esigenza di un governo basato sulla le- galità e non sull’arbitrio. - 239. L’indifferenza teorica delle ideologie politiche. - 240. L’ingentilimento degli animi può influire da sé sui metodi della politica internazionale? - 241. Impotenza della coscienza morale disarmata. - 242. La coscienza della comune umanità deve diventare una coscienza armata. - 243. Divergenze principali fra la teoria politica del C. e la nostra. - 244. Quella che il C. chiama azione etico- politica non è azione morale, ma politica. - 245. Accordo della nostra definizione della politica con la concezione crociana del liberalismo. - 246. Ricapitolazione del capitolo terzo. Capitolo Quarto L’ ITINERARIO DELLA MENTE E L’ITINERARIO DELLA VOLONTÀ 247. La corrispondenza fra Teoria e Pratica. - 248. Ragione logica di tale corrispondenza. - 249. Discordanze fra teoria e pratica nella filosofia del C. - 250. La religione e la filosofia come superamento pratico e teorico dell’antitesi fra volontà e conoscenza. Capitolo Quinto CONCLUSIONE DEL NOSTRO LAVORO . Indice dei nomi 323 20 pag. 362 pag. 373 PARTE PRIMA I PROBLEMI DELLA LOGICA FILOSOEICA E DELL’ISTORICA LA DIALETTICA DELLE DETERMINAZIONI SPIRITUALI CAPITOLO PRIMO 1. Il punto di partenza della nostra critica. II pensiero d’un Necessaria siste- filosofo non è una serie di opinioni, atteggiamenti e sentenze “Eticità del pen- che SI possano separare runa dalTaltra, ma una concezione organica o, come si dice, sistematica, in cui tutte le parti sono connesse fra loro. Tutta la dottrina d’un filosofo si deve poter esprimere (come, secondo un antico aneddoto, si può per la dottrina religiosa) in una proposizione sola. Questo che a noi sembra un pregio (paragonabile alla divina semplicità dell’arte classica) ad altri sembra un difetto ed una pedanteria. « Vi furono e vi sono filosofie i cui massicci volumi possono ben essere ridotti senza sostanziali mutilazioni ,ad un principio solo » — scrive M. Fraenkel, — e considera come un merito della filosofia crociana, se qui, secondo il suo parere, le cose stanno altrimenti e se quest’ opera può venir definita un’« Accademia delle Scienze ».^ 1) Alexander M. Fraenkel - La filosofia del Croce, articolo delle « Bas- ler Nachrichten », 22 die. 1932, riportato nel voi. L’Opera filosofica sto- rica e letteraria di B. C., (Laterza, 1942). 23 Giustamente il Borchardt ^ nota che il Croce ha dominato con la sua personalità la cultura europea nel secolo XX cosi pro- fondamente come Cicerone nel I. Sec. a. C., Petrarca nel XIV, Erasmo nel XV, ma non è senza significato il fatto che qui il C. non sia visto come elaboratore e sistematore di concetti filo- sofici, ma come uomo rappresentativo di una età e di una cul- tura, che non richiama alla mente del B. figure di filosofi come Spinoza o Kant, ma quelle di grandi eruditi e letterati. Il C. stesso sembra talora giustificare questo punto di vista con la sua polemica contro gli « arrotondati sistemi », e vedremo più in là le ragioni di tale suo atteggiamento. Tuttavia rite- niamo che si farebbe torto al C. se, per le sue benemerenze di uomo di buon gusto e di cultura, si dimenticassero i suoi meriti di filosofo. Il giudicare un’opera filosofica lasciando da parte il valore pro- priamente logico e speculativo dei suoi concetti, come può es- sere lecito in un volume commemorativo quale è quello citato, significa fermarsi ad un aspetto secondario e inessenziale. È proprio ciò che faceva la vecchia critica letteraria quando nel- l’opera d’un poeta si fermava a notare sopratutto lo splendore della lingua, o « le bellezze » di certe immagini, o la magnani- mità di certi sentimenti e l’effetto edificante che se ne poteva aspettare. È ciò che il Croce ha sempre combattuto, ciò che egli ha sempre evitato, sia nella sua critica letteraria che in quella filosofica. Ciò non vuol dire che a un filosofo, che è pur sempre un uomo, non possa riuscir talora meglio accetta una valutazione gene- ricamente apologetica dell’opera sua, che non una discussione critica, se persino un Kant (esempio poco edificante ma tutt’al- tro che isolato) ha difeso i passivi ripetitori della sua dottrina contro colui che ne sviluppava lo spirito. Chi si assume il compito di discutere e vagliare criticamente la 1) Rudolf Borchardt, B. Croce. Riportato nel voi. commemorativo su citato. 24 dottrina d’un maestro, deve adattarsi a fare l’avvocato del dia- volo, insistendo più sugli errori che sulle verità del suo autore. Perché la verità è come la bellezza, quando si sia ammirata e fatta nostra non sembra ci sia altro da dire, mentre gli errori richiedono un faticoso lavoro di dimostrazione e di ricostru- zione. Se è vero che il pensiero filosofico ha carattere sistematico, an- che gli errori d’un filosofo non sono occasionali e posti a caso, ma sono un errore solo, che investe tutto il sistema del suo pen- siero; e se si vuol ben comprendere e valutare l’opera sua, e distinguere ciò che in quella è vivo da ciò che è caduco, con- vien individuare questo errore e mostrare come da esso deri- vino tutte le incongruenze che in quell’opera si incontrano. Questo punto cruciale, che è poi quello da cui parte il pensiero posteriore per la sua nuova sistemazione, è stato ad esempio in Platone la trascendenza delle idee, in Cartesio il dualismo delle sostanze, in Kant il noumeno inconoscibile. Nel Croce l’errore fondamentale, da cui derivano tutte le difficoltà della sua dot- trina, consiste nel modo come egli concepisce la dialettica dei concetti distinti. Gli errori del fi- losofo non sono fortuiti ma costi- tuiscono un er- rore solo. 3 L’ errore fonda- mentale del C. consiste nel suo modo di concepi- re le distinzioni. Il Croce (e in genere il moderno idealismo italiano) ha sempli- ficato e purificato di molte scorie il pensiero hegeliano, ma l’ha anche non poco impoverito, buttando via, come dice il prover- bio inglese, il bambino insieme all’acqua sporca. Questo « mi- glioramento in peggio » consiste, per ciò che riguarda il C., nell’aver considerato l’opposizione soltanto come opposizione astratta nel seno di ogni singolo concetto (bello e brutto, nell’iu- tuizione; vero e falso, nella logica ecc.) e nell’aver sostituito alla dialettica positiva delle determinazioni spirituali, il nesso dei gradi distinti.^ 1) Il concetto della dialettica positiva è stato difeso contro il C. dal punto di vista dell’ortodossia hegeliana (che è assai diverso dal nostro) da L. Ebbinghaus nei Kantsstudien 1911, voi. XVI f. 1, e prima e piu diffu- samente da A. Moni nella Rivista abruzzese, A. XXV f. 1-10. 4 Occorre salvare la ricchezza e va- rietà dei proble- mi critici e in- sieme l’assoluta unità del proces- so spirituale. Ciò che noi propugnamo può quindi sembrare un ritorno a He- gel, ma è un ritorno che non ignora ciò che si è pensato dopo, ed è consapevole che soltanto in una positiva concezione dia- lettica si possono risolvere i problemi critici particolari (che cosa è l’arte? la matematica? l’economia? il diritto? ecc.) come e meglio di quanto avvenga nella Filosofia dello spirito, e in- sieme salvare l’assoluta unità e immanenza del processo spiri- tuale, come nella filosofia dell’Atto puro. Adoperando dei ter- mini ora disusati (e che mi sono cari) dirò che il primo indirizzo ci dà una buona Fenomenologia ma una cattiva Logica, mentre il secondo ci dà una buona Logica ma una Fenomenologia infe- conda, poiché i problemi critici, messi sullo stesso piano e astrat- tamente identificati fra loro, perdono ogni loro significato. Le singole determinazioni, fuori dell’unità spirituale, sono cieche, anzi inafferrabili e contradittorie, ma lo Spirito stesso, senza le determinazioni necessarie nelle quali si attua, è vuoto. 5 Liuee schemati- 2. Il nesso dei concetti distinti. Per quanto il C. abbia poca fia^deUo^sp^Htr simpatia per le pedanterie sistematiche, la struttura generale del suo sistema gli è sempre presente, e dobbiamo tenerla pre- sente anche noi. Quello che importa è la persona viva, ma se 10 scheletro è difettoso la persona non può incedere diritta. La struttura della Filosofia dello spirito è, in breve, questa: 11 C. accetta il punto di partenza dell’idealismo post-kantiano, la assoluta immanenza del reale; non esiste una materia, o una energia o una cosa in sé, in senso ontologico: tutta la realtà è realtà spirituale. Due sono le manifestazioni essenziali dello spi- rito: il pensiero e l’azione, teoria e pratica. Fra l’una e l’altra c’è reciproca implicazione: la teoria presuppone la pratica e vi- ceversa; non si può agire se non si è conosciuta la situazione di fatto da cui si parte e non si può conoscere una situazione sto- rica, che in quanto è stata prodotta dall’azione. La Teoria ha due gradi: l’intuizione e il concetto, che danno luogo a due predicati di ogni realtà: il bello e il vero. Il primo grado è autonomo rispetto al secondo, il secondo invece implica 26 il primo: vi può essere una intuizione alogica, ma non v’è con- cetto senza espressione. Ugualmente nella Pratica: il prim.o grado è l’azione economica (rutile), il secondo l’azione morale (il Giusto): vi può essere azione economica priva di preoccu- pazioni morali, ma non v’è moralità senza energia fattiva. L’ordine in cui si dispongono i concetti filosofici è necessario e non casuale ed è un ordine circolare: il primo offre la materia che viene elaborata dal secondo, il secondo quella che viene elaborata dal terzo, e l’ultimo, a sua volta, diventa il contenuto del primo. L’intuizione o espressione viene studiata nell’Este- tica e ci dà il criterio per giudicare le opere d’arte; il concetto viene studiato dalla Logica e ci dà il criterio per giudicare le opere di scienza; l’utilità è studiata nelV Economia che ci dà il criterio per giudicare gli atti economico-politici, e la moralità è studiata dall’Etica, che ci dà il criterio per giudicare le azioni giuste e quelle ingiuste. In tal modo le quattro scienze filosofiche elaborano i concetti direttivi per la storia dell’arte, della scienza, della politica e della morale, e però la filosofia si può considerare come meto- dologia della storia. A rigor di termini filosofia e storia s’identificano, perché come è impossibile pronunciare un giudizio storico senza un criterio filosofico (non si può per es. giudicare che un’opera d’arte è bella se non si sa che cosa sia il Bello), nemmeno è possibile de- finire una categoria filosofica in astratto, senza un più o meno esplicito riferimento ad una realtà storica (non si può definire che cosa sia l’arte, se non si ha in mente qualche concreta espres- sione artistica). Ogni conoscenza scientifica è conoscenza storica, ma la vera sto- ria non è cronaca di un morto passato, bensì meditazione di un problema vivo neH’animo nostro, storia contemporanea e auto- biografica. Il Vero, il Bello, l’Utile e il Giusto, sono « concetti puri », pre- dicati necessari di ogni realtà, che si riferiscono ad atti costi- tutivi dello spirito. Ci può essere un^ uomo senza braccia, ma 27 non ci può essere uomo senza volontà e conoscenza. I quattro concetti puri esauriscono tutta la realtà: quintum non datur. Lo spirito intuisce, pensa, tende al suo interesse o al suo ideale: non esiste una attività spirituale in generale, né un super-con- cetto che si sovrapponga a quelle determinazioni concrete. Non esiste un problema filosofico privilegiato (il problema teologico 0 metafisico), come non esiste una « storia generale » che si so- vrapponga alle particolari storie dell’arte, della scienza, della politica e della morale. 1 concetti puri sono universali concreti. Universali, cioè neces- sari e non contingenti; concreti, cioè tali da poter essere effet- tivamente riscontrati nella realtà. Invece i pseudo-concetti, che risultano da una manipolazione pratica della conoscenza sto- rica, sono o concreti ma privi di universalità, come quelli natu- ralistici; o universali, ma privi di concretezza, come quelli ma- tematici. Tutto ciò che il pensiero effettivamente pensa è vero. L’errore è il non essere del pensiero, ma poiché un non essere assoluto è inconcepibile, ciò che chiamiamo errore è, nella sua positi- vità, atto pratico. Queste le linee schematiche della Filosofia dello spirito. Esa- miniamo ora di proposito le difficoltà che si incontrano nella teoria dei concetti distinti. 3. Mancata universalità dei concetti distinti. Il concetto filo- sofico si distingue dai concetti empirici per il suo carattere di assoluta universalità. Ed è naturale: se i concetti puri sono determinazioni costitutive del soggetto spirituale, non vi può essere alcuna manifestazione del reale che sfugga a quei pre- dicati, perché il soggetto è presente in ogni realtà. Dice il Croce: « Un concetto, che venga provato non universale, è perciò stesso confutato come concetto; e a questo modo pro- cedono effettivamente le nostre confutazioni filosofiche ».^ 1) Logicai p. 28. 28 Se per es. qualcuno dicesse che la religione è un concetto filo- sofico, basterebbe dimostrare che è concepibile un uomo o un atto umano assolutamente privo di religiosità, per negare di- gnità filosofica a quel concetto. Ora la prima cosa che salta agli occhi a chiunque ripensi alle definizioni crociane, è che i suoi quattro concetti puri non sono e non possono essere universali. Se è vero, come afferma il nostro autore, che la forma estetica è affatto indipendente dall’intellettiva, se l’arte è intuizione pura, cioè scevra di ogni 'riferimento concettuale, è chiaro che la logi- cità non è predicato universale. Se è vero che la poesia nasce prima della filosofia e senza di lei, se può esserci una « liricità pura », cioè una realtà spirituale in cui il problema logico ed esistenziale non è ancora posto, non sem*bra che si possa poi dire che il predicato logico abbraccia tutta la realtà.^ L’intuizione pura contradice all’u- niversalità del predicato logico, e la pura econo- micità a quella, del predicato mo- rale. 1) Nel C. v’è tanto raffermazione dell’autonomia delle forme distinte che esclude l’unità, quanto quella dell’unità dello spirito che tende a cancellare le distinzioni. Citeremo alcuni passi tanto per la tesi che per l’antitesi. Dobbiamo però avvertire che mal si comprenderebbe il nostro pensiero se si ritenesse che, mettendo in rilievo quelle affermazioni contradittorie, si intenda dimostrarle false. Secondo noi invece esse sono ambedue vere, e quello che si richiede è la loro conciliazione dialettica. Ecco alcuni passi in cui è affermata con particolare evidenza l’alogicità dell’arte: « Se è indubitabile che in molte intuizioni si possono trovare mescolati concetti, in altre non è traccia di simile miscuglio; il che prova che esso non è necessario ». (Est^., p. 4). « La forma estetica è affatto indipendente dalla intellettiva, e si regge da sé senza alcun appoggio estraneo. » (Ibid., p. 26). «Il primo grado è l’espressione, il secondo il concetto: l’uno può stare senza l’altro, ma il secondo non può stare senza il primo. » (Ihid., p. 31). « L’intuizione fuori della sfera logica, ha la propria e peculiare auto- nomia, e non ha alcun carattere logico. » (Log., p. 157). « L’arte sta di qua dalla distinzione di reale e di irreale. È una sfera di pure qualità senza il predicato di esistenza. » (Poesia, p. 12). « La coscienza poetica non è autocosciente e logicamente distintiva, quale è invece la coscienza critica del filosofo. » (Ibid., p. 13). « L’arte è intuizione pura, intuizione affatto scevra di concetto e di giu- dizio. » (Nuovi Saggi di Estetica, p. 120). 29 La stessa osservazione si deve fare per la filosofìa della Pratica. Anche qui il secondo grado presuppone il primo, ma il primo può stare senza il secondo e gode di piena autonomia. Ma, se esiste una economicità pura, se è concepibile un’attività eco- nomico-politica amorale, è evidente che il concetto della mora- lità non comprende la realtà tutta, ed è dunque l’opposto di un predicato universale. Sembrerebbe da ciò che le due più importanti determinazioni dello spirito, la logicità e l’eticità, debbano, contro ogni inten- zione del Croce, perdere la loro dignità filosofica e diventare dei pseudo-concetti. Come i concetti empirici di mammifero, di cavallo o di dinosauro, non sono universali, non hanno carat- tere necessario, ma indicano una parte circoscritta della realtà, per cui si può benissimo concepire un mondo senza dinosauri o senza mammiferi, cosi anche la logica e la morale dovrebbero avere carattere circoscritto e contingente. Il superstite gusto herbartiano delle distinzioni adialettiche mi- naccia qui di distruggere non solo l’universalità dei concetti, ma anche, come è stato più volte notato, l’unità dello spirito. Dice il C.: « L’uomo che pensa un pensiero falso, se compie qualcosa di reale, non pensa il pensiero falso, anzi non pensa punto, ma invece vive e provvede al proprio comodo ».^ « Fuori della sintesi logica, il soggetto non esiste come soggetto e il predicato non esiste in niun modo. » (Log^ p. 150). « L’arte è, appunto, soggetto senza predicato. » « È l’intuizione senza ri- ferimenti intellettuali. » (Saggio su Hegel ecc., p. 82). Il Saggio è del 1906. Io cito dalla ristampa del 1927. Però è da notare che il pensiero del C. in questo punto si è modificato come egli avverte in Conv. Crii. Serie III p, 52. Prima egli definiva l’arte come conoscenza dell’individuale, ora come « indistinzione » di individuale e universale. Ora egli non direbbe più che l’arte è « soggetto senza predicato », ma che in essa manca la distinzione fra soggetto e predicato. La difficoltà è presentita, ma non risolta. Ho moltiplicato le citazioni forse più di quanto occorresse, perché, con- frontando le prime edizioni dell’Estetica con le successive, m’era parso di notare qualche attenuazione, mentre poi ho trovato ribadito il con- cetto dell’alogicità anche negli scritti più recenti. 1) Log’’., p. 65. 30 Dove sembrerebbe che si possa provvedere al proprio comodo senza pensare affatto. E altrove: « Non si possono compiere due atti nello stesso tem- po: se si pensa, si sospende la deliberazione e si allontana la fan- tasia; se si poeteggia, si sospendono logica e volontà; se si opera praticamente, il pensiero non è più pensiero perché si è solidi- ficato in presupposto ossia in fede; e cosi via ».^ Di fronte al rilievo dato qui alle distinzioni intese ontologica- mente (come se potesse esistere in sé un atto di puro pensiero, o di pura volontà o di pura 'fantasia), non poteva non farsi sen- tire nel C. stesso l’esigenza opposta. 4. Mancata concretezza dei concetti puri. L’unità dello spi- rito é affermata dal C. in modo altrettanto esplicito e costante come l’autonomia dei concetti distinti. « Sarebbe erroneo concepire — egli dice — che in qualsiasi più piccolo frammento della realtà, in qualsiasi più fuggevole istante di essa, si trovi uno dei gradi senza l’altro, il primo senza il se-‘ condo, o il primo e il secondo senza il terzo ».’ È falso ritenere « che l’uomo pratico esista realmente accanto all’uomo teorico, o il poeta accanto al filosofo, o l’opera d’arte stia da sola, separata dal lavoro di ri- flessione; e via discorrendo ».^ Tutto è in tutto; i concetti distinti sono onnipresenti, non c’è concetto privo di intuizione, ma nemmeno intuizione priva di concetto. Non c’è atto economico privo di moralità, né azione senza pensiero.^ 1) La storia come pensiero e come azione, p. 273. 2) Log^., p. 54. 3) Ihid., La spaziatura è mia. 4) « Azioni moralmente indifferenti non esistono, l’attività morale per- vade e deve pervadere ogni minimo movimento volitivo dell’uomo. » (Est, p. 67). Se la forma teoretica è distinta da quella pratica « non è meno vero, per la legge dell’unità dello spirito, che il pensare è insieme atto di volere ». (Log^. p. 32). 31 I concetti puri del C. non corri- spondono alla realtà storica. Come si accorda ciò con l’asserita autonomia dei concetti di- stinti, con l’alogicità deH’intuizione pura e con l’amoralità della pura economia? Si accorda — risponde il C. — considerando che la realtà storica e le distinzioni concettuali sono cose diverse. « Bisogna guardarsi dallo spingere troppo oltre il paragone con la storia, introducendo nella storia divisioni altrettanto rigorose quanto nel concetto ». « Un fatto non si può porre, rispetto al- l’altro fatto, in quel rapporto in cui si pone un grado del con- cetto rispetto all’altro ».^ E ancora: « le distinzioni sono ” di categorie e non di fatti ” ». Nella concreta realtà storica « il momento morale c’è in ogni fatto e in ogni individuo e degli esempi che si sogliono portare della mera politicità s’intende fare uso come di approssima- zioni o di prevalenze e, in effetto, come di simboli di una ideale categoria, non pensabile davvero, filosoficamente, se non pur- gata di ogni scoria rappresentativa ».^ Dunque: i concetti puri non corrispondono mai alla realtà sto- rica. L’intuizione alogica è un concetto foggiato dal filosofo, un simbolo astratto a cui non corrisponde nulla di effettivo, l’eco- nomicità pura è una finzione concettuale, che nulla ha a che vedere con gli uomini vivi che lottando realizzano i loro inte- ressi materiali e insieme ideali. Da una parte sta la realtà della storia e dall’altra stanno le categorie ideali della filosofia. « Giudizio, intuizione, morale, sono sempre anche atti economici, perchè chi pensa, immagina ecc. fa sempre qualcosa, tende a un suo fine. » (Ultimi Saggi, p. 109). > Il concetto « in relazione con l’attività pratica, non è, in quanto con- cetto, nè utile nè morale, ma, in quanto atto concreto dello spirito, deve altresi dirsi utile e morale ». (Log^., p. 33). 1) Log^., p. 55. 2) Conv. crit. IV pp. 102-103. E in Carattere d. fil. mod., p. 288: « la di- stinzione fra economia e morale non si deve intendere come distinzione empirica o separazione, quasi si possano sceverare individui e fatti che appartengano esclusivamente all’una o all’altra sfera, il che sarebbe contro l’unità e concretezza dello spirito », Lo stesso concetto è ripetuto varie volte, p. es. in Poesia pp. 32, 331; Caratt. d. fil. mod., p. 42. Ultimi saggi, p. 24 ecc. 32 Non è questo che il filosofo ci aveva promesso! Nella Logica egli ci aveva insegnato che i concetti filosofici, al contrario di quelli matematici, corrispondono pienamente alla vita dello spirito, per cui provare di un concetto che esso è inapplicabile al reale, ossia che manca di concretezza, equivale a confutarlo: un pensiero che non abbia per oggetto niente di reale, non è pensiero.^ L’affermazione che le distinzioni concettuali non corrispondono alla realtà storica, non dovrebbe logicamente soddisfare un au- tore che ha identificato la filosofia con la storia. Abbiamo visto sopra le distinzioni affermate in modo da com- promettere l’unità e qui vediamo affermata l’unità in modo da compromettere la concretezza. Possibile che non si possa in- tendere il concetto filosofico universale- concreto se non facen- dogli perdere l’uno o l’altro dei suoi attributi essenziali? Per uscire dal dilemma bisogna concepire le determinazioni spi- rituali non come concetti distinti autonomi in sé, bensì come momenti dialettici dell’unico Concetto. Mi piace qui ricordare quello che scrivevo a questo proposito trent’anni or sono nel mio primo studio sul Croce: « I fatti della realtà non sono mai puramente artistici o pura- mente matem.atici né pure azioni economiche, né astratti im- perativi categorici, ma riuniscono in sé tutte le determinazioni opposte. Dice il C. nel libro su Vico (a pag. 41): il momento della forza non è quello della giustizia, ma il tipo empirico della so- cietà barbarica fondata sulla forza — si riferisce a uno stato di cose concreto — e non contiene solamente forza — sì anche giustizia; e quando quel momento ideale e quel tipo sono scam- biati tra loro e presi come identici — il concetto filosofico della forza s’intorbida di quello di giustizia e facendosi ibrido e con- tradittorio e incoerente si annulla. Ma se é vero che quel momento ideale è impossibile ritrovarlo puro non solo in un tipo empirico di società, ma in nessun fatto 8 Affinchè i mo- menti ideali cor- rispondano alla realtà occorre concepirli dialet- ticamente. 1) Logl, pp. 18 e 29. 33 9 L’intuizione non è che un aspetto del pensiero con- creto, ma ciò non autorizza a con- fondere il predi- cato estetico con quello logico. storico, se quel concetto ideale non è mai puramente se stesso nella realtà, si potrà poi dire che è un concetto concreto — come deve essere il concetto filosofico, o non sarà, concepito in quel modo, un’astrazione dell’intelletto? E per rendere quel concetto veramente adeguato alla realtà, non bisognerà dunque attri- buirgli quell’intorbidirsi, e contradirsi, e annullarsi che trovia- mo nel fatto concreto? Altrimenti una cosa sarebbe il pensiero e un’altra il fatto, e il nostro pensare sarebbe invano. Quello chQ c’è di vero nella teoria del carattere alogico dell’ar- te, come del carattere amorale del fatto economico, è che la tesi si può naturalmente considerare come privazione della sin- tesi, e la sintesi come implicante la tesi. Cosi per esempio nella geometria si può considerare il concetto di corpo, come un con- cetto posteriore che implica il concetto di superficie; e la super- ficie come un concetto anteriore che non iniplica il concetto di corpo e si può dire che ogni corpo deve avere delle superfici, mentre le superfici e le linee sono prive di volume. Noi però sappiamo che in realtà non ci sono superfici incorporee ma che solo nei corpi vi sono le superfici, le linee e i punti. In realtà non ci sono intuizioni pure, ma solo il Concetto, e solo nel Con- cetto le intuizioni. Per questo possiamo dire: pulchrum ipsum verum; la bellezza non è altro che la verità stessa, in quanto intuibile. Quello che non è pensato, come non ha realtà, cosi non può avere bellezza; e solo il vero è bello ».^ Qui è necessaria un’avvertenza. C’è un modo di identificare astrattamente l’arte e il pensiero, che porta a confondere il va- lore estetico col valore logico, ed è modo che denota insieme scarsa sensibilità artistica e confusione di concetti. Coloro che lo seguono possono richiamarsi non all’idealismo hegeliano, ma alla vecchia estetica didascalica e al dogmatismo intellettuali- stico. È ben vero che la bellezza non è altro che il momento intuitivo 1) L’estetica nel sistema di B. Croce, in « Anima », Firenze; a. I, n. 12 1912. 34 della verità, ma il criterio di vero e di falso si riferisce al pen- siero in sé stesso e non a un suo momento. Per servirci dell’e- sempio che abbiamo adoperato sopra: è ben vero che le super- fici non esistono se non nei corpi, ma non per questo si può parlare del volume e del peso di una superficie. 5. Difficoltà e incertezze nel concetto di unità- distinzione. La teoria dei concetti distinti manca di quella semplicità che è si- gillo del vero e che ammiriamo in altre teorie del C., che hanno approfondito la nostra concezione dell’arte e della storia. In un sistema dialettico di concetti positivi è chiarissimo che si debba parlare di unità e distinzione; di unità, poiché .non si tratta di tre concetti autonomi, ma di uno solo, e tesi ed antitesi non hanno realtà fuori della sintesi; di distinzione, perché la tesi e l’antitesi indicano ciascuna un valore necessario e positivo, senza il quale la sintesi non è concepibile. Nella teoria dei concetti distinti, invece, non si comprende il vero e preciso significato, né dell’unità, né delle distinzioni. Se ci chiediamo: in che senso i concetti puri sono distinti e auto- nomi, per cui si possa a ragion veduta parlare di un’intuizione alogica o di una volontà amorale; e in che senso invece le de- terminazioni tutte sono onnipresenti, si da formare un atto e un concetto solo, non riceviamo una risposta univoca.^ In alcuni casi l’accento cade sull’autonomia delle distinzioni, e allora sembra compromessa l’unità; in altri è dato maggior ri- lievo all’unità (per es. fra teoria e pratica) e allora non si com- prende perché mai quei concetti si possano chiamare distinti, 10 L’unità e le di- stinzioni, legitti- me in un sistema dialettico, resta- no ingiustificate nella filosofia del C. 1) Per comodità sinottica possiamo schematizzare i diversi problemi del- Tunità-distinzione, chiedendo: A. In che senso ogni opera d’arte è: 1. riflessione concettuale; 2. atto eco- nomico; 3. atto morale. B. In che senso ogni opera di pensiero è: 1. intuizione; 2. atto economico; 3. atto morale. C. In che senso ogni atto economico è: 1. intuizione; 2. concetto; 3. atto morale. D. In che senso ogni atto morale è: 1. intuizione; 2. concetto; 3. atto economico. 35 Il In che senso il predicato logico è presente nel- l’opera di poesia? 12 E quello pratico nell’opera teo- rica? mentre non si può indicare alcun carattere che ci sia nell’uno e manchi nell’altro. Per esempio alla domanda in che senso l’intuizione sia sempre anche pensiero (e a quella analoga sul carattere morale del- l’atto economico) la risposta è alquanto oscura. Alle volte ci si dice che si tratta di una esigenza che richiede a gran voce di venir soddisfatta e lo sarà in un atto ulteriore, risposta poco plausibile nel sistema del C. dove si tratta di con- cetti distinti e autonomi; ma che contiene una grande verità, perché nella tesi si può sempre rilevare l’esigenza della sintesi. Altre volte si risponde che l’intuizione presuppone il pensiero poiché ha come suo contenuto il sentimento pratico, e questo presuppone la conoscenza concettuale. Dove si dimentica che quello che é diventato materia, non c’é veramente più nella nuova forma. ^ La teoria della circolarità rappresenta l’esi- genza della dialettica, ma non la soddisfa. Alla domanda, invece, in che senso l’opera di pensiero e quella d’arte siano sempre insieme atti pratici, la risposta sembra più chiara: il pensare non è un far niente, ma un’attività che tende a realizzare il suo scopo, il lavoro teorico richiede appunto quello sforzo di volontà che si chiama attenzione. A voler essere conseguenti si dovrebbe quindi negare che vi siano opere teoriche da una parte e opere pratiche dall’altra, e affermare che ogni opera può .essere giudicata in uno o altro modo secondo il punto di vista da cui ci poniamo.^ Ma non pare che il C. voglia giungere a questa conclusione. Egli dirà invece che nelle opere poetiche e scientifiche la vo- lontà pratica é soltanto « concomitante ». Ricordando e appro- vando un esempio dell’Albeggiani, egli dice: « per il Gentile 1) « I concetti che si trovano misti e fusi nelle intuizioni, in quanto vi sono davvero misti e fusi, non sono più concetti, avendo perduto ogni indipendenza e autonomia. Furono già concetti, ma sono diventati, ora, semplici elementi d’intuizione » (Est^., p. 4). 2) Cfr. appresso parte II il paragr. sulla filosofìa come sintesi di teoria e pratica. 36 non v’è alcuna differenza tra chi compone un sonetto o un poe- ma e chi ordisce le file di una congiura che conduca a uno scopo soggettivamente concepito: poeta l’uno e l’altro, non importa che questo secondo corra qualche rischio che il primo non corre ».^ Il C. ha ragione di scandalizzarsi quando il valore estetico sia confuso (come spesso accade nell’attualismo) col valore econo- mico; ma non meno ragione aveva il Gentile di scandalizzarsi che si possa postulare un atto estetico privo di valore econo- mico, e un atto economico privo di valore estetico. All’osserva- zione del C. il Gentile avrebbe potuto giustamente obiettare che il « rischio » c’è tanto in chi ordisce la congiura, quanto in chi compone il sonetto, ed è, nell’un caso come nell’altro, di non raggiungere il proprio scopo e fallire l’impresa. Il dire poi che rinabile congiurato può rimetterci la pelle mentre l’inabile poeta (ahimè!) rischia assai meno, è un portare la questione fuori strada; infatti anche comperare un sigaro è un atto eco- nomico, per quanto il rischio sia di poche lire e non della vita. Il torto dell’attualismo non consiste nel dire: « ogni atto con- creto è logico, estetico, economico, ecc. », bensì nel ritenere 'che il criterio con cui si giudica la bellezza sia lo stesso di quello con cui si giudica la forza. Se esaminiamo la domanda in che senso, secondo il C., ogni opera di pensiero sia insieme intuizione, la risposta pare abba- stanza chiara: non è concepibile un pensiero che non rappresenti e non esprima nulla. Un libro di filosofia, di storia, di scienza deve essere dunque non solo vero, ma anche bello, e può esser giudicato non solo secondo logica ma anche secondo estetica.^ i3 D’altra parte il C. dirà che solo a una considerazione superfi- In che senso la ciale può sembrare che la prosa d’un filosofo sia poesia,^ poiché P'®®® ® poesia? la poesia è intuizione pura, mentre la prosa filosofica è intui- zione concettualizzata. Da buon intenditore d’arte egli dirà che 1) Conv. crii. Ili p. 5. 2) Ultimi saggi p. 24. 3) p. es. in Poesia p. 225. 37 / il non compreso, il mistero, una delle più sicure note dalle quali si riconosce la vera poesia: è l’aria bète che è stata avver- tita con meraviglia nei capolavori. Cangiate queU’aria sublime- mente ottusa in aria intelligente e la poesia non ci sarà più.^ Secondo noi ogni opera concreta deve avere, in un certo suo aspetto, codesto carattere di immediatezza, di spontaneità e, se si vuole, di non-riflessione. Anche quella del filosofo e del ma- tematico. Il pensatore potrà sforzarsi di essere, per quanto gli è possibile, loico e critico nelle sue dimostrazioni, ma al lettore che subi- sce il suo pathos e gusta il suo stile, quell’opera appare giusta- mente come immediata e spontanea. E si noti: quando si parla dello stile o della poesia di un’opera di scienza, si parla di tutta l’opera, considerata però da un particolare punto di vista. Il C. ebbe a dire altrove che i pensatori possono entrare nella storia della letteratura soltanto per rispetto alla loro forma let- teraria. Giudicando, ad esempio, l’opera di Kant dal punto di vista estetico, non si dovrebbe considerare se non la disposi- zione psichica, per cui i libri di questo filosofo « presero una forma involuta e prolissa insieme, trascinantesi penosamente ma acuta precisa e scrupolosa ecc. »} Qui veramente la valuta- zione formale sta per diventare formalistica, e noi riteniamo che nel giudizio estetico non si possa mai prescindere in tal modo dal contenuto. Nel giudicare esteticamente l’opera di Kant non dobbiamo fermarci a considerare in maniera estrinseca la lingua e nemmeno lo stile (che considerati m tal modo non sa- rebbero più il suo vero stile e la sua vera lingua), ma dobbiamo comprendere tutto l’uomo, coi problemi spirituali che costi- tuiscono il sentimento della sua opera: il senso morale austero e solenne, non immune da certo rigorismo pretesco, come di chi visse lontano dall’umanità della famiglia; la fede senza pace che tormenta le prove dell’esistenza di Dio dai primi scritti fino 1) Conv. crii. I p. 59. 2) Problemi estetici p. 127. 38 alle opere maggiori; la logica testarda e dura che affronta, senza veder via d’uscita, la tragedia delle antinomie, sono tutti ele- menti lirici per una comprensione estetica di questo autore, come il desio d’amore e i dolci sospiri lo sono per un altro. (Ricordo le parole iniziali della prefazione alla Critica del 1781: « la ragione umana ha, in un campo delle sue cognizioni, questo singoiar destino: che viene tormentata da domande di cui non può liberarsi, poiché le sono imposte dalla sua natura stessa; ma alle quali non può dare risposta poiché oltrepassano ogni suo potere ». E mi par di ascoltare i primi accordi in cui il musico annuncia il motivo dominante della sua sinfonia). Come sarà chiaro ormai, tutti quegli indovinelli che abbiamo enumerati nel nostro quadro sinottico non hanno, per noi, ra- gion d’essere, perché neghiamo che esista in sé ontologicamente un’opera d’arte, o di pensiero o d’altro; ma riteniamo che ogni opera concreta sia manifestazione dello spirito tutto spiegato, e possa poi esser detta opera artistica, economica ecc. solo in quanto come tale sia posta dal giudizio nostro. Il Fedone per es. o il Principe non sono in sé opere puramente concettuali, ma diventano tali quando le discutiamo concettual- mente, cioè quando cerchiamo in esse una risposta a un nostro problema. Quando invece ci disinteressiamo del loro contenuto concettuale e ci lasciamo prendere dalla loro poesia, esse diven- tano opere d’arte, né più né meno di un quadro o di un dramma. Ugualm.ente le opere che di solito si dicono poetiche o scienti- fiche non sono più opere di contemplazione, bensì atti pratici, se ci fermiamo a considerare le energie di volontà e di fede che hanno richiesto e che spesso hanno reso macri i loro autori. Non c’è nessuna ragione che vieti di considerare una di quelle che tradizionalmente si chiamano opere d’arte, da un altro punto di Vista. Nulla lo vieta, purché non si faccia confusione, come invece si fa quando si cercano le ragioni della bellezza nella logica, invocando fuor di proposito' l’unità dello spirito. È merito del C. di aver tenacemente sostenuto, contro l’unità indifferenziata di certi attualisti, le distinzioni necessarie ai no- , 14 Non esiste una opera d’arte in sé, ma ogni opera diventa artistica se come tale la consideriamo. 39 15 Legittime sono le distinzioni dia- lettiche e non quelle ontolo- giche. stri giudizi critici; ma il suo torto consiste nell’ipostatizzare tal- volta codesti punti di vista del nostro giudizio, come se fossero caratteristiche oggettive di non so quali opere esistenti in sé. Tale ipostasi sta in contraddizione stridente con la teoria cro- ciana (che è in ottimo senso attualistica) della contemporaneità e autobiograficità della storia: è evidente che, se i fatti storici non esistono ontologicamente in un morto passato ma vivono soltanto nel nostro presente problema, non può aver alcun si- gnificato il parlare di « opere » che siano in sé politiche o arti- stiche o scientifiche. 16 L’errore teoreti- co non può esse- re in sé atto eco- nomico perché dove il pensiero fallisce, fallisce anche il volere. 6. I concetti distinti e la teoria delVerrore. La teoria dell’er- rore del C. ha delle pagine magistrali che ricordano i libri ana- litici e gli elenchi sofistici di Aristotile, ma il modo con cui il nostro filosofo concepisce le distinzioni concettuali fa sorgere anche qui qualche incertezza e oscurità. Dice il Croce: l’errore è il non essere del pensiero, ma il pen- siero che chiamiamo falso ha pure qualche cosa di positivo ed è un prodotto dello spirito. Se è privo di verità non può essere un prodotto dello spirito teoretico, ma sarà invece un prodotto dello spirito pratico. Quello che si dice errore teoretico è, con- siderato in sé, semplice atto economico.^ Ma è evidente che un atto economico, affatto privo di coscienza teoretica, non può sussistere e non è concepibile. Si dice si, co- munemente: « tu dovevi servire la verità e invece hai servito le tue passioni »j « tu dovevi pensare e invece hai fantasticato » ma — a rigor di termini — ciò che il pensiero non pensa, non può essere né voluto né rappresentato. Dove il pensiero falli- sce, fallisce anche il volere. Non è concepibile un atto che sia razionale in quanto atto economico e irrazionale come atto teo- retico. Ugualmente è inconcepibile un atto che sia razionale esteticamente e privo di ogni razionalità logica.^ 1) Log.3 p. 268. 2) Anche il C. riconosce che chi ragiona male, parla e scrive male e che quello che è illogico è anche inestetico. Estetica^, p. 51; v. pure Probi. Est. p. 172. 40 A rigor di termini si dovrebbe dire: la sintesi logica che io da te mi attendevo (e che tu stesso ti proponevi) non è stata com- piuta, il tuo pensiero in ciò è fallito ed è insieme fallita la tua azione; ma in quanto hai pronunciato o scritto quelle parole a qualche cosa hai pur pensato, hai compiuto degli altri atti, di- versi da quello che da te mi attendevo. Questi altri atti, che hanno per me e per te un valore logico insignificante, hanno avuto invece per te un valore economico o espressivo impor- tante, e per questo li hai compiuti. Appunto perché ogni atto teoretico è sempre insieme anche atto pratico, si può e si deve parlare (come è stato profondamente affermato dal Fichte) di una responsabilità morale del pensiero, ed è questo che c’è di vero nella teoria crociana dell’origine pratica dell’errore. In questa teoria convien però distinguere due significati diversi e quasi opposti: 1. - L’errore ha origine pratica perché dove manca la contemplazione teorica essa è sostituita dall’attività pratica. 2. - Ha origine pratica perché quando si viola la coe- renza logica (o estetica) si viola insieme la coerenza morale.^ ^ I due significati confluiscono in uno in quanto secondo il C. tanto l’errore che l’immoralità derivano da prevalenza della passionalità utilitaria sul dovere. i? È facile invece dimostrare che dove si viola il dovere morale. Il male morale é si viola necessàriamente insieme anche l’interesse economico. ® male economico. II C. stesso lo riconosce quando osserva che il perutile sed mi- nime honestum di Aristide è una contradizione in termini, per- ché — egli dice — ciò che è sentito come disonesto non può, nell’atto stesso, essere sentito come giovevole e utile, ossia è, nell’atto stesso, minime utile} Se qui il C. riconosce che il disonesto non può, a rigore, essere 1) Per questo significato si veda per es. Conv. Crit. Ili p. 331 e Nuovi Saggi di Est^. p. 127. 2) Conv. crit. IV pp. 99-100. 41 utile, non per questo egli giunge, come avrebbe dovuto, alla negazione di un’utilità amorale, cioè di un momento economico in cui il problema morale non sarebbe ancora posto. Difficoltà analoghe si riscontrano nel concetto della circolarità. Secondo il C. lo spirito passa dal sentimento aU’immagine, dal- l’immagine al concetto, dal concetto alla volizione e quindi al sentimento, cioè passa in un determinato ordine, da una cate- goria all’altra. Non si può avere un’intuizione se prima non si sono avute delle impressioni, non si può formare un concetto se non si sono avute delle rappresentazioni ecc. L’errore appare quindi come incapacità di superare l’attività inferiore per giungere alla sintesi superiore: questa poesia non è riuscita perché le impressioni sensibili non sono diventate im- magini, quest’opera scientifica è sbagliata perché si ferma a delle rappresentazioni fantastiche e manca il concetto logico ecc. Ma anche qui si presenta l’obiezione: come mai quelle impres- sioni sensibili possono essere prive di ogni espressione? Come mai quelle rappresentazioni possono essere prive di concetto? E se cosi fosse, come avviene che ne possiamo parlare? Invece dunque di dire che l’opera d’arte sbagliata si ferma alle impressioni sensibili e non giunge all’immagine espressiva, si dovrà dire più correttamente: che in quell’opera v’è una mol- teplicità di impressioni, le quali sono certamente anche im- magini, ma quello che manca è das geistige Band, cioè l’unità poetica che doveva dominare quella molteplicità. Invece di dire al falso poeta: mi hai dato delle impressioni e non delle immagini; si dovrebbe dire: l’opera che mi hai dato non è quella che credi tu, poiché essa manca di unità spirituale e resta inafferrabile. Me ne hai date invece delle altre, fram- mentarie e discontinue fra loro, in cui prevale l’elemento sen- sibile. L’unità sintetica che l’autore pretendeva di offrire, e che io da lui m’attendevo, è venuta meno. Invece di un’immagine egli me ne ha date molte, e le molte bellezze sono nemiche della bel- lezza, come 1 molti amori sono contrari all’amore. J Con un esame particolareggiato si potrebbe mostrare che ciò che, in tutti. i campi, chiamiamo male o errore, è sempre una disgregazione analitica di una vagheggiata unità.^ C’è un passo del C. in cui egli si avvicina a questo punto di vi- sta. Il male, egli aveva detto, inteso come positività, è sempre un bene edonistico, cioè utilitario. Ma gli è stato obiettato che nella stessa forma utilitaria si distingue un male dal bene, l’utile dal disutile. A ciò egli risponde: che la ricaduta in un grado inferiore ha luogo altresì tra atto e atto dello stesso grado, cioè che il disutile o il dannoso è pur sem- pre un’utilità (un piacere) più povera e rudimentale.^ Quello che il C. ammette qui come un caso particolare e quasi d’eccezione, è invece, secondo noi, la regola: il falso logico è pur sempre una verità (o un accozzo di tante verità), e il falso este- tico è un insieme disarmonico di tante intuizioni, più povere e rudimentali. Concludendo: lo spirito non passa mai da una categoria ad un’al- tra, dalla sensazione all’immagine o daH’immagine al concetto, ma è sempre tutto presente a sé stesso. Tuttavia passando da un atto meno complesso a uno più complesso, suole avvenire che nel primo prevalga la categoria inferiore (e da essa venga qualificato), e nel secondo prevalga la categoria superiore. Le proposizioni: la sensazione può stare senza l’immagine, ma non l’immagine senza la sensazione; l’intuizione sta senza il con- cetto, ma non viceversa, hanno però questo di vero: che la sen- sazione è un momento analitico deH’immagine, e l’immagine del concetto. Da ciò segue che giudicando il concetto, si giudica ne- cessariamente insieme l’immagine, ma che giudicando il va- lore espressivo dell’immagine si può prescindere dal suo va- lore concettuale: la sintesi implica la tesi, ma la considerazione della tesi fa astrazione dalla sintesi. 18 Ciò che chiamia- mo male o errore è la disgregazione analitica di una sintesi che va- gheggiamo. 19 Lo spirito non passa da una categoria all’altra ma è sempre tut- to presente a se stesso. 1) La teoria dell’errore a cui qui si accenna mi è stata suggerita dalla teoria del medico napoletano Salvatore Tommasi, in cui la malattia è considerata come analisi disgregatrice della sintesi organica. 2) Ultimi Saggi, p. 343. 43 7. L’autonomia dei concetti distinti e la trascendenza dei fatti sui valori. Il problema logico che ci siamo proposto è questo: come si possono salvare insieme le determinazioni critiche (per cui si distingue la teoria dalla pratica, l’arte dalla scienza, l’eco- nomia dalla morale ecc.), e l’assoluta unità dello spirito (per cui si nega che vi possa mai essere un atto teoretico che non sia anche pratico, un’opera d’arte che non sia anche opera di pensiero ecc.)? Il solo modo di risolverlo è, secondo noi, di negare una plura- lità di attività spirituali concrete e autonome, e affermare dun- que un solo Concetto filosofico universale-concreto, quello ap- punto che ci è sempre presente, il concetto della nostra attività consapevole, il nostro pensiero attivo (il « Problema unico »!); 20 ma affermare insieme che i singoli concetti puri altro non sono Non pluralità di che momenti dialettici costitutivi di questa unica realtà. Sicché atti ma di valori, ^ possibile pensare questa attività consapevole, se non di- stinguendo un valore pratico (poiché essa è attività) e un valore teoretico (poiché è consapevolezza); e in seno al valore pratico un momento individuale (economicità) e uno universale (mora- lità) e via discorrendo;^ restando bene inteso che codeste par- ticolari determinazioni non sono che momenti analitici del- l’unico Concetto. Non esiste atto teoretico che non sia insieme pratico né viceversa, ma quando parliamo di « teoria pura » prescindiamo dal suo aspetto pratico, e quando parliamo di « arte pura », prescindiamo dal suo valore concettuale. L’intui- zione pura è certamente priva di logicità, ma soltanto perché, nel definirla come intuizione, l’abbiamo privata del suo valore logico. Quando si dimentichi ciò, sorgono le difficoltà che abbiamo ri- li Accennando qui in via d’esempio alle singole determinazioni del Concetto, mi attengo per quanto possibile aderente allo schema del Cro- ce. In realtà le determinazioni categoriche sono più complesse e più corrispondenti agli aspetti fondamentali dell’attività umana, come ho procurato di dimostrare nel mio Sistema dialettico dello spirito (Roma 1937). 44 levate, e che non pare sieno state prese dal C. in seria conside- razione, tanto è vero che quando egli tratta di proposito il pro- blema deirunità-distinzione, non solo non le risolve, ma se mai vi aggiunge una difficoltà più grave, cioè quella di postulare una realtà che trascende il pensiero. La teoria dell’unità-distinzione afferma giustamente che non si può pensare per es. il concetto dell’intuizione senza con- trapporlo al concetto del pensiero scientifico, poiché è appunto da tale distinzione che esso acquista il suo significato, e che non si può poi definire il concetto di pensiero, senza distinguerlo da quello di volontà; per cui pensando completamente uno dei concetti distinti, si pensano necessariamente insieme tutti gli altri. 21 Ma, come abbiamo visto, il C. afferma poi che altro è pensare Superstite duali- • T T • j • • ' j " •' 1 *1 smo fra essere e il concetto di intuizione, e altro intuire, cioè poetare; e che il pensiero poetare è una attività autonoma, indipendente dal pensiero lo- gico. Ed ecco che la difficoltà risorge insoluta: come è che può esistere un fatto senza il concetto del fatto? L’Estetica, dice benissim_o il Nostro, è tutta la filosofia sebbene lumeggiata più insistentemente nel lato che riguarda l’arte.^ Ma se non è concepibile un’Estetica, che non sia insieme e Lo- gica e Pratica, come mai sarà possibile un atto estetico che non sia insieme logico e pratico? Si può distaccare la realtà dal pen- samento della realtà? Non si ricade cosi in quel dualismo fra essere e pensiero, il quale presuppone una cosa in sé, impene- trabile al pensiero? Se non si può pensare il predicato estetico senza pensare in- sieme quello logico, e se d’altra parte si ammette un fatto este- tico privo di riferimenti logici, si ammette evidentemente una trascendenza dei fatti sui valori. Tale è la ten- denza, non sempre esplicita e non sempre coerente, del pensiero crociano. Talora sembra che il C. sia li li per affermare una concezione 1) Ultimi saggi, pp. 13-14. 45 La dialettica dei gradi distinti non è vera dialettica. dialettica: « La definizione dell’unità concreta comò distinzione — egli dice — esclude affatto il pensamento della distinzione come di una molteplicità i cui termini siano uno fuori dell’al- tro, reciprocamente trascendenti. E l’esclude appunto perché ciascun termine di essa, ciascuna forma dello Spirito è insieme, per cosi dire, la condizione e il condizionato delle altre; ciascun elemento è insieme risultante, onde le forme spirituali si rap- presentano nello schema del circolo ».^ E altrove: « La poesia presuppone le altre forme dell’attività spirituale e ne è, a sua volta, presupposta. Le presuppone per- ché non v’è arte senza sentimento, e fondamento di ogni poesia é la personalità umana che si compie nella coscienza morale; ed è presupposta perché senza immagini non sorgerebbe il pen- siero ecc. ».^ Qui, dunque, pensiero e realtà sembrano coincidere perfetta- mente: come il concetto dell’intuizione implica tutti gli altri concetti puri, cosi ugualmente’ l’opera di poesia presuppone tutte le altre attività spirituali. Ma, come sarà chiaro ormai, l’unità dialettica che qui si afferma è imperfetta: 1. In quanto la coscienza logica non è presente nella sua attualità nell’opera d’arte e nell’azione pratica, ma ne costituisce soltanto il contenuto, ormai superato. (La differenza riescirà evidente quando si pensi all’unità di intuizione e con- cetto nell’opera di pensiero, dove non soltanto l’intuizione è presupposta dal pensiero, ma è presente come espressione attuale del pensiero). 2. Perché quell’unità contraddice alla plu- ralità dei concetti filosofici, e non si accorda con l’autonomia attribuita alle singole determinazioni, per cui il C. parla di una intuizione pura, di un’economicità pura ecc. Se ogni concreto fatto estetico è condizionato da un fatto pra- tico e logico, il « fatto puramente estetico » sarà evidentemente un’astrazione, e la vera realtà sarà invece quel fatto in- 1) Nuovi Saggi di Est. p. 354. 2) Ultimi Saggi p. 11. 46 sieme alle sue condizioni (senza le quali esso è in- concepibile), e poiché tali condizioni non sono dei precedenti cronologici ma logici e dunque onnipresenti, si dovrà dire che la realtà concreta è lo spirito tutto spiegato, cioè l’atto autoco- sciente, e che l’espressione estetica non è che un suo momento astratto. Ancora: poiché la storia si fa di ciò che è reale e non delle astrazioni, si dovrà pur dire che non è possibile una sto- ria della pura poesia, ma sempre e soltanto una storia della civiltà tutta, sia pure lumeggiata di più nel suo aspetto estetico. Finché si ammetta un’arte alogica, un’economia amorale e uno spirito pratico che non sia un momento del pensiero pensante, finché si ammetta una molteplicità di concetti filosofici auto- nomi, in luogo dell’unico Concetto, con le sue determinazioni onnipresenti, la trascendenza dei fatti sui valori resta inelimi- nabile. 8. Concetti distinti e concetti opposti. Secondo il C. altro è il nesso dei gradi distinti e altro la dialettica degli opposti, e il torto di Hegel consisterebbe nell’aver confuso fra loro i due rapporti. Essere e non essere, bello e brutto, bene e male sono determinazioni opposte; intuizione e concetto, economia e mo- rale, pensiero e azione sarebbero invece concetti distinti. 23 Egli dice: se dal rapporto dei gradi distinti A e B (per es. intui- Falsa distinzione zione e concetto) passiamo al rapporto degli opposti nella sin- ® tesi a - p - 7 (essere - non essere - divenire), potremo scorgere la differenza logica tra i due rapporti. A e B sono due concetti, il secondo dei quali sarebbe arbitrario e astratto senza il primo, ma che, nel suo nesso col primo, è reale e concreto quanto quello. Invece a e P, fuori di 7, non sono due concetti, ma 'due astrazioni: il solo concetto concreto è 7, il divenire.^ Noi invece affermiamo che si tratta sempre dello stesso rap- porto ma occorre tener presente che ogni concetto dialettico ha sempre insieme un aspetto positivo (la distinzione) e un aspetto negativo (l’opposizione). I concetti distinti del Cro- 1) Saggio su Hegel, p. 60. 47 ce altro non sono che gli opposti, conside- rati nel loro aspetto positivo e i suoi opposti sono gli stessi distinti, considerati nella loro mera opposizione. Dice il Croce: il vero si afferma contro il falso, il bello contro il brutto ecc., ma questa lotta non ha luogo per un grado rispetto all’altro. Come no? Non dice il C. che il pensiero deve lottare contro la fantasticheria, la poesia contro la sentimentalità, la morale contro l’interesse? E che cosa significa la teoria deH’ori- gine pratica deH’errore se non un riconoscimento della rela- zione dialettica fra teoria e pratica? In tale teoria infatti si af- ferma che l’errore, cioè il non essere del pensiero, è, nel suo aspetto positivo, manifestazione di volontà. Esaminiamo il rapporto fra questi tre concetti: a) intuizione (tesi); b) astratta categoria logica (antitesi); c) giudizio storico (sintesi).^ Il C. ha ben visto che la categoria logica o il concetto puro altro non è che un momento della storia, momento che non è reale fuori della sintesi. È strano ch’egli non abbia visto come la stessa cosa si debba dire dell’intuizione, e che lui, filo- sofo, abbia attribuito una maggiore autonomia all’intuizione pura che alla pura logica. Noi riteniamo di aver dimostrato a sufficienza che un’intuizione alogica non esiste e non è conce- pibile.^ Anche qui dunque i due valori distinti non hanno realtà se non nella loro sintesi. Nel nesso degli opposti — diceva il C. — a e P sono entrambi soppressi e conservati, ma solo metaforicamente, perché non esistono mai come a e p autonomi. Che è appunto ciò che noi diciamo deH’intuizione pura e del concetto puro rispetto al giudizio storico. Non esistono mai co- me autonomi in sé, m.a tuttavia appaiono autonomi all’intelletto astratto. La stessa cosa vale, come vedremo meglio a suo luogo, per la triade: interesse economico (tesi) — ideale astratto (an- titesi) — attività autocosciente (sintesi). 1) Vedi lo schema a pag. 78. 2) V. il cap. « La contradizione deU’intuizione » nel mio studio La filoso- fia di B. Croce in « Giornale Critico » f. I 1929 pp. 35 segg. Cfr. in que- sto volume Parte II Cap. I § 2. 48 Il C., come già il Vico, ha la tendenza di affermare il momento concreto della tesi e negare quello astratto dell’antitesi: cosi egli affermerà l’intuizione e negherà il pensiero astratto, affer- merà l’interesse e negherà l’astratto ideale. Uno dei momenti analitici si viene in tal modo a trovare isolato e — poiché ne viene rilevato soltanto l’aspetto positivo e gli vien tolta la ne- gazione che è nel suo opposto — esso appare autonomo di fronte alla sintesi. In questo modo nasce l’idea dei gradi dello spi- 24 rito.^ La tesi appare come un grado idealmente inferiore, in cui Genesi della non è ancora posta l’esigenza di quello superiore, e la sintesi gradi, come un grado ulteriore che implica quello precedente. Allora si dice: vi possono essere espressioni prive di concetti, ma non vi sono concetti privi di espressione; vi possono essere interessi privi di finalità morale, ma non vi sono azioni morali senza interesse. Il C. fa rimprovero a Hegel di aver disconosciuta !’« autono- mia » dei concetti distinti. Ora se per autonomia s’intende il valore positivo delle singole determinazioni, valore che viene conservato nella sintesi superiore, si deve certamente affer- marla, per quanto il termine includa il pericolo di un equivoco; se invece per autonomia s’intende la concretezza che basta a sé stessa, la effettiva pensabilità di una determinazione non come aspetto o momento di un concetto superiore, ma come concetto indipendente, si deve recisamente negarla; autonoma, in questo senso, è soltanto la sintesi a priori dello spirito tutto spiegato. 9. Mancata deduzione delle categorie. I concetti distinti sono dunque, secondo noi, momenti dialettici e non concetti auto- nomi, e quando sieno considerati come autonomi rivelano la contradizione insita in ciascuno, per cui il pensiero è costretto a passare dall’uno all’altro e a risalire a delle sintesi sempre più comprensive, finché la contradizione non sia risolta. 1) Per questa genesi della teoria dei gradi, cfr. Parte II, pagg. 169 segg. 49 4 25 Soltanto in un sistema dialettico è possibile una deduzione delle categorie. In tal modo lo spirito è concepito come un sistema organico di concetti e non come « un sacco di categorie.», e si evita quella enumerazione arbitraria e « rapsodica » che già Kant rimpro- verava ad Aristotile e che Fichte poteva rimproverare a Kant. Una deduzione logica delle categorie è possibile soltanto se, affermata una qualunque di esse, si può dimostrare che con- tradice al suo stesso concetto se non viene integrata con tutte le altre. Il sensista, il quale àfferma che la conoscenza è sensa- zione, non potrebbe esser mai più confutato, se non si potesse dimostrargli che il concetto di sensazione è in sé contradittorio, e passa di necessità nel suo opposto per trovare la sua realtà nella sintesi dell’intuizione. La categoria dell’intuizione diventa con ciò un’assoluta esigenza logica per chi abbia affermata la sensazione, e l’intuizione a sua volta risulterà contradittoria e rivelerà la assoluta esigenza del concetto.^ Avendo il C. negata la relazione dialettica fra i concetti distinti, egli si è reso impossibile una deduzione delle categorie: e in verità le sue dimostrazioni sono piuttosto intuitive che discor- sive e ricordano quelle della matematica indiana, in cui il no- stro quod erat demonstrandum è sostituito dal simbolo di una mano con l’indice teso, che significa: « come si vede dalla figu- ra ». Si rileggano le prime pagine dell’Estetica e quelle della Pratica in cui è affermata la necessità della categoria economica e poi di quella morale, e risulterà ad evidenza che il C. mostra, ma non dimostra} Alla domanda perché la bellezza sia un pre- dicato necessario, la Filosofia dello spirito può rispondere: per- ché non v’è popolo al mondo che non abbia un’arte, e non pos- siamo comprendere e narrare la storia dell’arte, se non sappiamo che cosa sia il bello. E altri potrebbe dire: la medicina o l’isti- tuto familiare sono categorie necessarie, perché non possiamo comprendere la storia della medicina o quella della famiglia, se non sappiamo che cosa sieno. 1) Cfr. Parte IL « La contradizione della coscienza sensibile » e « la con- tradizione dell’intuizione pura. » 2) Per la deduzione della « Forma pratica dello Spirito » cfr. in questo libro il § 1. della Parte IV. 50 Considerando le categorie soltanto come predicati necessari di un determinato giudizio storico, non si dimostra la loro univer- salità. Dicendo: nessun popolo o nessun uomo è senza religione o senza poesia, ci si ferma a una constatazione di fatto, si giunge al certo ma non si raggiunge il vero. Non si tratta di dimostrare che di volta in volta, in dieci o in mille esempi riscontriamo quel predicato, bensì occorre dimostrare che esso è concettuale mente necessario. Se ci fosse anche una sola opera d’arte puramente poetica, e se dunque l’attività intuitiva fosse concepibile in sé senza contra- dizione, perché non si potrebbe concepire tutto un mondo di esseri puramente poetici? Se non ci fosse contradizione nel con- cetto stesso di forza, disgiunto da giustizia, perché non si po- trebbe concepire tutto un mondo di biondissime e purissime belve? Si potrebbe rispondere: un mondo di esseri puramente poetici non può esistere, per la semplice ragione che essi nulla avreb- bero da poetare. L’espressione poetica presuppone tutto un mondo di impressioni, sentimenti e affetti e chi nulla ha sen- 26 tito, nulla potrebbe esprimere. Ma si dimenticherebbe in que- Se il contenuto sta risposta che la sintesi estetica è sintesi a priori, cioè che il considerato Jome contenuto non esiste fuori della forma, ma è posto dalla forma, precedente cro- che la materia della poesia non esiste fuori della poesia e non ^ ^ in un regresso è distinguibile dall’opera poetica, se non per astrazione. Ché infinito, se invece il sentimento fosse considerato, come talora potrebbe sembrare dalle parole del C., un necessario precedente crono- logico dell’intuizione, si cadrebbe inevitabilmente in un re- gressus in infinitum: ogni intuizione presuppone sentimenti e volizioni, che presuppongono concetti, i quali a lor volta pre- suppongono altre intuizioni ecc. e non si potrebbe uscirne che postulando nello sfondo la cosa in sé inconoscibile o l’atto crea- tivo del Signor Iddio. ^ 1) Con un accuratissimo esame analitico uno studioso triestino, assai 51 27 Arbitraria siste- mazione dei con- cetti distinti. ^ c- Anche Tordine in cui si dispongono le categorie crociane: bello, vero, utile, giusto, è mostrato e non dimostrato. Secondo noi si può dimostrare logicamente che l’intuizione è un momento ana- litico del pensiero, ed è naturale che essa appaia, in questo senso, come un concetto inferiore e precedente al pensiero. Ma nel C. non si vede il perché dall’intuizione si debba passare direttamente al concetto. Non basta mostrare che l’intuizione precede necessariamente il pensare, perché essa precede anche l’agire. E quale è il precedente immediato dell’intuizione stessa? L’attività pratica? E perché? E, dato che il C. distingue l’atto economico da quello morale,- quale dei due? C’è insomma in tutta questa sistemazione dei concetti distinti qualche cosa di arbitrario e di logicamente non giustificato. Il C. polemizza in una bella pagina della Logica contro il modo esteriore di inten- dere la dimostrazione, e dobbiamo riconoscere che nei filosofi tedeschi, e non ultimi negli hegeliani, troppo spesso una mac- chinosa deduzione esteriore si sostituisce all’intima universalità del pensiero; ma non è giusto rinunciare a ogni deduzione logica per paura delle deduzioni artificiose. Il pensiero non deve assu- mere un tono né ispirato né autoritario, ma deve essere dimo- strativo, cioè deve offrire al discente o al supposto avversario una necessità logica che lo induca a passare da un concetto a un altro, ed è di ciò che si sente spesso la mancanza nella siste- mazione crociana. Esaminando varie obiezioni mosse alla sua correzione dell’he- gelismo, il C. stesso si chiede: come mai le forme dello spirito passano dall’una all’altra? perché quando lo spirito si trova nel momento della fantasia o in quello dell’opera pratica non vi si appaga e non vi resta in perpetuo? quale è la contradizione, intrinseca a ciascuna di quelle forme particolari, che spinge alla forma superiore?^ legato alla religione positiva, ha creduto appunto di poter dimostrare che per questa ragione il C. dovrebbe accettare la trascendenza divina. V. Ferruccio Pardo, La Filosofia teoretica di B. C. 1) Nell’appendice I al Saggio su Hegel, pp. 162-163. 52 Ma la sua risposta non dà molta soddisfazione. Ciascuna forma particolare — egli dice — è particolare e lo spirito non vi si può arrestare. Lo spirito non vi si arresta, anzi non è mai tutto in nessuna delle sue particolarizzazioni, ma il suo vero essere consiste nella totalità delle sue determinazioni. Come abbiamo detto sopra: se in nessuno dei concetti distinti si trova mai il vero essere dello spirito, ciò significa che quei con- cetti non sono universali-concreti, non sono autonomi, ma che anzi, ove sieno considerati autonomi, rivelano una intrinseca contradizione. 53 28 Genesi delle identificazioni adialettiche. L’IDENTIFICAZIONE ADIALETTI- CA DI FILOSOFIA E STORIA E LA MANCATA UNIEICAZIONE DI PENSIERO E AZIONE CAPITOLO SECONDO 1. La relazione fra il concetto trascendentale e il giudizio sto- rico, e quella fra teoria e pratica. Degli errori che derivano dal disconoscimento della relazione dialettica fra i concetti posi- tivi, uno dei più caratteristici è Tastratta identificazione di de- terminazioni diverse. Nella tesi si può logicamente dimostrare Tesigenza delTantztesi, e nell’antitesi Tesigenza della tesi, per cui Tintelletto conclude affrettatamente che le due determina- zioni opposte si equivalgono (per questa via il C. identificherà ad es. la volontà economica, che è individuale e priva di univer- salità, con la volontà giuridica, che è universale e priva di indi- vidualità). Ugualmente quando si riconosce che i momenti ana- litici non trovano la loro realtà che nel concetto superiore, si ritiene di poter identificare la tesi con la sintesi (per es. la storia con la filosofia). Seguendo questo procedimento un geo- metra filosofista potrebbe ragionar cosi: non c’è, in concreto, alcuna superficie priva di volume; non c’è alcun volume privo di superficie; dunque la superficie e il volume sono la stessa cosa. Questi errori si uniscono spesso tra loro per cui si confondono concetti opposti e concetti subordinati e s’identificano alla rin- 54 fusa sentimento, arte, economia, diritto, morale, scienza, storia e filosofia, giungendo a quel monologismo adialettico che ha aduggiato la filosofia italiana degli ultimi decenni. Nell’attualismo c’è tuttavia una maggiore conseguenza (per quanto l’errore possa essere conseguente) poiché la tendenza è unica, cioè rivolta alla soppressione di tutte le distinzioni; nella Filosofia dello spirito, invece, si rimane perplessi per il modo arbitrario con cui concetti, che stanno fra loro nella stessa rela- zione dialettica, alle volte vengono identificati fra loro, mentre altre volte vengono dichiarati distinti, senza che ci sia data alcuna ragione di questo diverso trattamento. Vediamo ad es. per quali ragioni il C. ha creduto di dover iden- tificare la filosofia e la storia. ^9 Ogni giudizio storico — egli dice — presuppone dei concetti Ragioni che filosofici e non avrebbe senso il dire ad es.: « l’uccisione del Duca d’Enghien è stato un atto poco morale e poco politico » ficazione di filo- se non si avesse in mente una definizione concettuale della mo- sofia e storia, rale e della politica; ma ugualmente ogni definizione filosofica implica sempre qualche riferimento storico, e^non potremmo ad esempio dire: « la virtù è abito di azioni morali » se non aves- simo alcuna esperienza di concrete azioni virtuose. Si può di- stinguere empiricamente l’opera di storia, in cui l’accento cade sull’individualità dei giudizi, dall’opera filosofica, in cui l’ac- cento cade sulle definizioni concettuali, ma in realtà la storia è sempre filosofica, e la filosofia è sempre storica, e i due concetti formano una inscindibile unità, per cui, quando l’un elemento si separi dall’altro, si foggiano due mostri: un concetto non individuato e perciò inesistente in modo concreto; e un giu- dizio non pensato e perciò inesistente come giudizio. Da ciò il nostro autore conclude che filosofia e storia sono la stessa cosa." Nello stesso modo egli riconosce pure che l’atto pratico pre- suppone il giudizio teorico, e l’atto teorico presuppone l’azione 1) Log3. p. 143, V. pure Parte I, Sez. Ili, 1; p. 11, 4 passim. 55 30 Le stesse ragioni valgono per la identificazione di teoria e prati- ca, ma il C. le rifiuta. pratica. Non si può concepire una volontà e azione cieca, priva di pensiero; né una contemplazione pura, priva di volontà e azione. Un atto di pensiero è sempre un atto morale, una lotta attiva contro l’errore; e d’altra parte ogni azione morale è azio- ne consapevole, che implica un giudizio sulla situazione di fatto e sulla mèta verso cui si tende. ^ Sembrerebbe da ciò che si dovesse anche qui concludere: si può si distinguere empiricamente l’opera pratica, in cui l’accento cade sull’energia fattiva, dall’opera teorica, in cui prevale il pensiero, ma in realtà i due momenti sono inscindibili. Non vi sono due attività diverse rem gerere e res gestas agnoscere\ ma un atto solo: l’attività autocosciente (verum ipsum factum). Questa attività è relazione di soggetto ed oggetto e quando l’un elemento si separi dall’altro, si foggiano due concezioni mo- struose: il conoscere, come apparenza soggettiva priva di og- gettività, e il volere come cieco impulso inesprimibile (il mondo di dolore e d’illusione dello Schopenhauer). Ma il C. si rifiuta di trarre queste conseguenze, anzi ribadisce la rigorosa distinzione fra teoria e pratica e chiama sofistica l’identificazione dei due concetti. « L’argomentazione con cui si suole dimostrare tale identifica- zione — egli dice — si riconduce al fonte di ogni sofisma, che è nel prendere uno stesso termine in due accezioni diverse, e dimostrata l’una delle due accezioni, far passare per dimostrata l’altra e diversa ».^ È vero che pratica e teoria non si distinguono in ciò che l’una sia attiva e l’altra no, l’una cosciente e l’altra no, perché attive e consapevoli sono tutte e due, ma — egli osserva — non basta mostrare che non si distinguono in questo, bisogna anche dimo- strare che non si distinguono in altro. Qui ognuno si aspetterebbe che egli ci dicesse in che cosa dun- que si distinguono; ma questo non ci vien detto. 1) Saggio su Hegel ecc., p. 409. Ultimi Saggi, p. 229. 2) La storia come pensiero e come azione, pp. 27 segg. 56 Siamo perciò costretti a fare delle congetture. Si potrebbe forse dire che la teoria ha il compito di conoscere la realtà quale è, e la pratica invece quello di creare il bene, modificando la realtà esistente. Ma la distinzione si riduce a quella già esami- nata, e non vale, perché conoscere la realtà devono tanto il teorico che il pratico, e tutti e due la modificano e ne creano una nuova: Galileo Galilei ed Emanuele Kant hanno modificato il nostro mondo quanto Cavour e Bismarck. Oppure si potrebbe dire: per l’unó la conoscenza è un punto di partenza, per l’altro è un punto d’arrivo, ma in verità il cono- scere (e COSI l’agire) è, per tutti e due, tanto punto di partenza che punto d’arrivo, perché lo spirito non passa da un astratto conoscere a un astratto volere, ma da un concreto conoscere- agire a un altro. Oppure si dirà: che la realtà nuova che il pensatore crea è una realtà teorica, e quella che crea l’uomo d’azione è una realtà pratica; ma sarebbe una petizione di principio.^ Non pare veramente che si possano distinguere filosoficamente due specie diverse di atti, un fare con intenti teoretici e un fare con intenti pratici, l’uno che sarebbe propriamente pensiero, e in cui la volontà sarebbe soltanto concomitante, e l’altro che sarebbe azione e in cui il pensiero non avrebbe che una fun- 1) Così nei Nuovi Saggi (p. 153) il C., pur riconoscendo l’importanza del nuovo concetto del pensiero come costruzione del proprio oggetto, della verità come fare, vorrebbe distinguere un « fare per intenti pratici » da un « fare per intenti teoretici », e afferma che « il conoscere come fare non è l’identità del conoscere col fare, del pensiero con la volontà, ma è il conoscere concepito come fare teoretico ». Dove non si comprende come mai si possa dire che il pensare sia privo di finalità pratica, se esso è atto morale che impegna la nostra responsabilità, nè come si pos- sano chiamare atti diversi il fare pratico e il fare teoretico, mentre è impossibile indicare un qualsiasi carattere che ci sia nell’uno e manchi nell’altro. Se invece si dicesse che la teoreticità e la praticità sono punti di vista diversi da cui noi possiamo giudicare lo stesso atto, la cosa cam- bierebbe di aspetto. Per la coincidenza di pensiero e azione si confronti pure quello che è detto in Carattere d. fil. mod. (p. 197): «è impossibile pensare un’anima rischiarata da una nuova conoscenza che non compia o non abbozzi nell’atto stesso un moto operativo ». 57 zione sussidiaria; ma si deve affermare un solo atto, teorico e pratico insieme, in cui potrà, secondo i casi, avere per noi mag- ai giore importanza l’uno o l’altro aspetto. L’unità dialettica Avranno perciò ragione quegli scrittori che identificano son- di pensiero e a- 2’altro il valore teoretico col valore pratico? Non è stato un zione non signiti* iix-,.. . ca confusione Hierito del Cristianesimo di reagire contro lintellettualismo dei due valori, della morale greca? Ha avuto torto Emanuele Kant di accogliere la suggestione del Rousseau e di distinguere il valore morale da quello teorico? No, certamente. L’identificazione dialettica di pensiero e azione non deve signi- ficare un semplice ritorno alla confusione indistinta dei due valori. Questo è il motivo legittimo della distinzione crociana. Se ammiriamo i tesori di energia e di sacrificio profusi da una povera donna per tenere insieme la sua famiglia e se qualcuno ci viene a dire che ciò che ammiriam.o è l’intelligenza di quella donna, abbiamo bene il diritto di dirgli che non se ne intende. L’atto è unico, la distinzione fra atti teoretici e atti pratici è empirica e quantitativa, come quella fra uomini di pensiero e uomini d’azione, ma la distinzione dialettica del criterio di- verso con cui si giudica la praticità da quello con cui si giudica la verità è una distinzione filosofica e qualitativa. I due valori non sono soltanto diversi ma veramente opposti, e la loro unità è un esempio classico di quella dialettica posi- tiva di determinazioni opposte che il C. si è proposto di negare contro l’Hegel ma che poi spesso il suo senso del reale gli fa riconoscere in effetto. Nel passo seguente la dialettica positiva è riconosciuta nel modo più esplicito: « Si può concepire una volontà e azione cieca, priva di pensiero? e che cosa farebbe? si può concepire un’intelligenza pura priva di volontà e azione? e che cosa pen- serebbe? non sembra ci sia altro modo d’intendere i due ter- mini se non come distinti e uniti insieme e, perciò stesso, come opposti e, reciprocamente, a volta a volta, positivi e negativi. L’azione nega il pensiero, e il pensiero nega l’azione, onde l’uno non è senza l’altro né l’altro senza l’uno e la loro dualità non è 58 dualismo, ma dialettica ».^ Questa precisamente è la nostra tesi. Cionostante il C. continuerà (non sappiamo perché) a conside- rare teoria e pratica come concetti distinti, da contrapporre a quelli opposti, e negherà che vi sia un’opposizione dialettica fra le determinazioni positive. Hitorniamo ora a considerare la relazione fra filosofia e storia e vediamo se non si tratti anche qui di una relazione della stessa specie. Per impostare rettamente il problema è necessario distinguere due modi di intendere il termine filosofia che può significare o l’astratta dottrina delle categorie, cioè la definizione dei con- cetti puri, oppure invece il Pensiero concreto, cioè l’autoco- scienza tutta spiegata. Prendendo ora il termine nella prima accezione, si deve dire che la relazione fra filosofia e storia è quella dell’antitesi con la sintesi immediatamente superiore.^ Il concetto concreto, la sin- tesi, è, in questo caso, il giudizio storico, e in esso possiamo distinguere per analisi i due momenti costitutivi: da una parte il contenuto intuitivo (individuale senza oggettività) e dall’altro il predicato logico (universale senza individuazione). Affermare la semplice equivalenza della filosofia con la storia è quindi una indebita identificazione del momento astratto con la sintesi concreta. È ben vero che il giudizio definitorio non è che il momento metodologico del giudizio storico, ma la finalità dei due giudizi è diversa, e quindi diverso è il criterio con cui noi li giudichiamo. Se confrontiamo un’opera filosofica come la Critica della Ragion pura con una narrazione storica come la Storia Romana del Mommsen, vediamo che i due criteri di valu- tazione non sono fra loro meno diversi di quelli coi quali di- stinguiamo il valore scientifico dal valore estetico. All’indagine trascendentale chiediamo che i suoi concetti sieno • 32 L’intuizione con- creta e la catego- ria astratta sono momenti del giu- dizio storico. 1) Saggio su Hegel ecc., pag. 409. 2) Si veda lo schema a pag. 78 tenendo presente la riserva accennata nella nota a pag. 79. 59 rigorosamente universali, che sieno cioè condizioni a priori di tutto il pensabile; all’opera di storia invece chiediamo che ci faccia sapere come certi fatti si sono effettivamente svolti nella realtà. Siamo d’accordo che non si può narrare senza giudi- care e che nel giudizio storico sono impliciti dei concetti di valore e però abbiamo accettata la innovatrice definizione che il C. ha dato della filosofia (noi diremmo: della dottrina delle categorie) come metodologia della storia. Ma non per questo è lecito identificare le due discipline; nella storia infatti sono implicite anche le intuizioni, e tuttavia nessuno direbbe oggi che la storia è poesia. .Nessuno lo direbbe oggi, perché, in gran parte per merito del nostro autore, il carattere concettuale del giudizio storico è ge- neralmente riconosciuto, ma 50 anni fa il C. stesso pensava che la storia si potesse ridurre sotto 'il concetto generale dell’arte. Noi invece riteniamo che Arte, Filosofia e Storia sono disci- pline diverse, che considerano il reale da prospettive diverse e che vanno giudicate ognuna secondo i suoi propri principi. Questo risultato ci sembra più conforme a verità come è più conforme al buon senso. Ogni atto spiritualè è sempre insieme artistico, filosofico e sto- rico, ma i tre valori non sono sullo stesso piano. Vi può essere una grande opera di poesia, concettualmente insignificante, vi può essere una profonda indagine concettuale, relativamente povera di senso storico (come le Meditazioni di Cartesio, VEtica di Spinoza e la Critica di Kant); ma non vi può essere una grande opera storica senza evidenza di rappresentazione né senza una ben meditata elaborazione di concetti. I momenti inferiori possono indicare anche qui, come sempre in casi analoghi, due pregi o due difetti della sintesi; due pregi quando vengono considerati nella loro positività, e due difetti quando sieno considerati nella loro astratta opposizione. L’evi- denza rappresentativa e la conformità del criterio valutativo sono i due pregi; i difetti corrispondenti sono: la storia fanta- stica, in cui l’intuizione usurpa i diritti del concetto, e la storia 60 aprioristica, in cui la deduzione concettuale usurpa i diritti del- la rappresentazione concreta. Anche questa ci sembra una ri- prova che il giudizio storico implica tanto l’intuizione quanto il concetto critico, ma che non lo si può senz’altro identificare né con l’arte né con l’indagine trascendentale.^ 2. La storia come momento della filosofia e la filosofia come sintesi di teoria e pratica. La relazione concettuale che abbia- mo cercato d’illustrare vale soltanto se per filosofia s’intende l’astratta definizione dei concetti puri, ma è merito della filo- sofia postkantiana e in particolare di quella di Hegel, di aver elaborato un più alto concetto della filosofia, come pensiero as- soluto, che non è un momento del giudizio storico, ma lo con- tiene in sé, e si può definire, in questo senso, come supera- mento della storia. Se prendiamo il termine filosofia in questo più alto significato, la relazione fra coscienza storica e coscienza filosofica si pre- senta in tutt’altro modo. La storia è il sommo concetto teore- tico (tesi), ad essa si contrappone l’azione etico-politica, come sommo concetto pratico (antitesi) e la filosofia, come autoco- scienza e consapevolezza del proprio fare, come unità dialettica di necessità e libertà, cioè di teoria e pratica, è la sintesi a priori assoluta. In questo caso non si può né identificare senz’altro filosofia e storia, né tanto meno considerare la filosofia come un momento del giudizio storico, ma anzi dobbiamo riconoscere nella co- scienza storica un momento astratto della filosofia. Dimostreremo più avanti la necessità logica di concepire la filo- sofia in questo modo,^ ora ci limiteremo a mostrare che c’è nel C. stesso l’esigenza di superare lo storicismo nel senso da noi indicato. 33 Tale superamento implica le seguenti affermazioni: I. Filosofia Superamento dello storicismo. 1) Cfr. in questo volume Parte III, cap. IL 2) Vedi appresso il cap. sul « Problema unico ». 61 e storia sono concetti distinti, al modo stesso come storia e arte, e non si possono senz’altro identificare fra loro. IL Teoria e pratica non sono concetti semplicemente distinti, ma sono op- posti e distinti insieme, come lo sono sempre i termini d’una positiva antitesi dialettica. III. Il concetto di storia non è un concetto concreto* e autonomo in sé, ma é, come tutti i concetti puri, un momento astratto del Concetto. IV. Il concetto etico- politico non è neppur esso un concetto distinto e autonomo, ma è, come il suo opposto, un concetto della sintesi concreta. V. La filosofìa, come autocoscienza, è la sintesi a priori assoluta in cui trovano la loro realtà il giudizio storico e l’azione civile. La filosofìa, dice il C., è storicismo assoluto, che è una defini- zione appropriata appunto perché l’aggettivo, se non contra- dice, supera di certo il sostantivo. Ma in che senso la filosofia supera la storia? In questo: che il giudizio storico dovrebbe essere secondo la sua definizione teoria pura, mentre la filo- sofia è unità di teoria e pratica. La storia presuppone l’azione, è teoria che ha l’azione fuori di sé (come, per ri- chiamare alla memoria una relazione analoga della ragion pra- tica, il diritto ha la forza esecutiva fuori di sé e la presuppone), invece l’autocoscienza filosofica, che è consapevolezza del pro- prio (e non dell’altrui) operare, ha l’azione in sé. Abbiamo visto sopra che il C. ha riconosciuto, quasi suo mal- grado, l’unità e opposizione fra teoria e pratica. La realtà stessa gli impone di riconoscere queste due opposte verità: che non si può agire senza pensare, né pensare senza agire; e insieme: che l’azione nega il pensiero (per cui si può parlare di un’origine pratica dell’errore) e che il pensiero nega l’azione (per cui si potrebbe parlare di una origine teorica del male). Da una parte egli vede che le passioni pratiche nuocciono al pensiero, e che la contemplazione teorica nuoce all’azione, per cui i sapienti sarebbero pessimi reggitori delle repubbliche come i politici sono pessimi testimoni di verità; dall’altra egli accetta la sen- tenza vichiana secondo cui noi conosciamo veramente e non esteriormente solo ciò che facciamo, per cui dunque soltanto 62 l’uomo politico che fa la storia dovrebbe essere capace d’inten- derla.^ Parlando di coloro che screditano il pensiero come inef- ficace nella pratica, egh dice che la divisione e reciproca indif- ferenza e inefficacia di pensiero e azione, non regge, ma che « nella viva e concreta realtà spirituale si ha la perfetta unità dei due termini, e nell’atto di pensiero tutt’insieme un atto di volontà »} Nessuno crederà che enumeriamo qui codeste opposte sentenze per il gusto di cogliere il nostro autore in contradizione, men- tre il nostro scopo è di mostrare come sia presente nel suo stesso pensiero l’esigenza di una dialettica positiva. 34 ^ Quelle opposte sentenze sono tutt’e due vere perché sono aspet- Pensiero e azio- ti unilaterali di una verità più complessa, perché teoria e pra- f^euicr^Te^Pautr- tica non sono due realtà esistenti in sé, ma momenti opposti e coscienza, complementari di quell’unica realtà che è l’autocoscienza, e però anche qui denotano, come abbiamo osservato, due pregi e due difetti del concetto superiore. La teoreticità è un difetto nell’azione, non per il suo valore positivo, ma in quanto con quel termine ^s’intende significare una deficienza di decisione pratica; e la passionalità è un difetto nel giudizio scientifico non per la sua energia volitiva, ma in quanto indichi deficienza di meditazione. All’uomo indeciso si dice: « Tu ci hai pensato troppo » mentre si dovrebbe dire « hai voluto troppo poco ». Però: quanto più forte è il pensiero altret- tanto più forte dev’essere la volontà per non venirne impedita. Un più profondo riconoscimento dell’unità dialettica di pen- siero e azione si ha nella teoria crociana della Contempora- neità della storia. Il C. dice che ogni storia è storia contemporanea e autobiografica 1) La Storia come pensiero e come azione, p. 171. 2) Carattere della Filosofia moderna, pp. 107-108. Nel passo citato la « perfetta unità dei due termini » viene però attenuata e resa imperfetta dalla motivazione che segue: « non nascendo da altro il pensiero che da uno stimolo morale — cioè da un bisogno pratico — ». Dove può sem- brare che il pensiero non sia in sé azione ma presupponga l’azione. 63 e lo dimostra con buone ragioni. Tuttavia il termine « Storia contemporanea » include una contradizione: infatti la storia si scrive quando l’impresa è compiuta; la historia rerum gestarum presuppone le res gestae, e finanche quando uno si facesse sto- rico delle sue proprie gesta, e se le andasse pur narrando mentre le compie, l’azione, nell’atto in cui diventa oggetto di giudizio storico, viene posta con ciò stesso come passata. Il termine « contemporaneità della storia » definisce esatta- mente la crisi del concetto storico e indica quella feconda con- tradizione, insita nel concetto, per cui la storia non può mai 'essere in sé, quella pura contemplazione che essa è per sé (cioè che la sua definizione richiede). Parlare di una storia contem- poranea equivale a parlare di una « fantasia veridica ». Il C. direbbe: se è veridica, non è più fantasia, ma giudizio. Eppure ogni poesia deve essere veridica, perché nessuna opera d’arte può essere in sé quella intuizione alogica che il suo puro con- cetto richiederebbe. Lo storico — disse il C. — deve essere imparziale. Deve cono- scere e giudicare la realtà e non esprimere i suoi desideri di modificarla, poiché il passato non si modifica. Tuttavia il concreto giudizio storico non può essere del tutto privo di espressioni di valore: « Perché questo fosse possibile, si dovrebbe avere innanzi un passato totalmente passato, affatto disgiunto dal presente — ma un passato a questo modo non esiste ». « Ciò posto, lo storico, in quanto mentalità storica è, di certo, quella intelligenza pura di cui si parlava nell’ipotesi fatta dal Lotze — ma nella sua concretezza è uomo intero e, innanzi al passato che è un presente, reagisce da uomo intero, sentimentalmente e volitivamente ».^ Qui mi pare sia chiaramente detto che la storia, in quanto tale, è teoria pura, mentre lo storico, nel suo effettivo pensiero, non può essere mai puro teorico. In altre parole: la storia è un mo- 1) Saggio su Hegel eco., p. 402. La stessa cosa è detta spesso altrove, per es. in Storiografia, p. 76. 64 mento o aspetto del Pensiero concreto, e non può essere sempli- cemente identificata con esso, cioè con la filosofia. La « contem- poraneità » indica 1^ contradizione della storia, come teoria pura, ed esprime l’esigenza di passare dalla considerazione sto- rica a quella autocoscienza filosofica, in cui il non-io si rivela come posto dall’Io. Nel passo succitato il C. accenna a una difficoltà, che egli svol- ge più ampiamente altrove,^ e che si potrebbe, secondo noi, chiamare Vantinomia del giudizio storico. 35 L’antinomia è questa: il giudizio storico è essenzialmente giu- L’antinomia del . , . , giudizio storico. dizio critico, esso implica cioè necessariamente un giudizio di valore. Non si può fare una storia dell’arte senza distinguere la poesia dalla non-poesia, cioè il bello dal brutto, né una sto- ria della scienza senza distinguere le dottrine vere da quelle false, né una storia civile senza distinguere le azioni buone e utili da quelle cattive e dannose. Infatti gli storici che pretendono di dare una storia oggettiva e di esporre i fatti astenendosi dal giudicarli, o cadono nella pura cronaca, oppure insinuano i loro giudizi surretiziamente, vale a dire che o non fanno della storia, o ne fanno una poco sincera. Ma d’altra parte il reale ha sempre una sua razionalità, e com- pito dello storico è di comprendere imparzialmente il reale e non di assidersi alla destra di Dio per pronunciare assoluzioni e condanne. Coloro che fanno il processo ai fatti e applicano il « dover essere » al passato, (come fece in modo caratteristico il Manzoni nel frammento sulla Rivoluzione Francese) man- cano di senso storico. In quei giudizi — dice il C. — si sente l’incongruità e vanità « quasi come se si vedesse prendere a pugni una statua, che non però si muove e cangia volto ». « Quei giudizi sono vuoti di senso per noi, che ci siamo posti 1) Specialmente nelle stupende pagine su « La Grazia e il Libero Arbi- trio » in Ultimi Saggi, pp. 290 segg. 65 sul piano storiografico, dove l’individuo non appare più come l’individuo che debba scegliere l’opera sua ».^ In breve: compito dello storico è di enunciare dei giudizi cri- tici sui fatti, distinguendo il vero dal falso e il bene dal male; ma, quando ci si pone sul piano storiografico, vero e falso, e bene e male, perdono ogni significato, perché il giudizio: « il tuo proposito è malvagio » implica l’espressione della mia vo- lontà: «io non voglio che tu agisca a quel modo»: volontà assurda perché nemmeno un Dio potrebbe fare che il factum sia infectum. Dunque il compito dello storico è in sé contra- dittorio. L’antinomia non é nel C. cosi recisa come qui l’abbiamo espo- sta, perché egli ritiene di poter distinguere fra il giudizio cri- tico e il cosiddetto giudizio di valore. Se abbiamo bene inteso il suo pensiero, egli ritiene che il giudizio critico sia puramente logico, e diventi giudizio di valore solo in quanto sia congiunto con l’espressione d’un sentimento o di una volontà. I giudizi: « Tizio è buono, Caio è cattivo, questo è bene e questo è male » significano: Io amo, io odio, io voglio o non voglio questo e que- sto: non sono giudizi logici bensì espressioni affettive.^ Il giudizio puramente logico si limita a giudicare: questo è arte, questo è atto utilitario, questo è atto morale ecc., senza impar- tire lodi né biasimi. E quando pur si presenti in forma negativa: « questi versi non sono poesia », « questa azione non è morale » non implica alcuna valutazione affettiva, ma si limita alla con- statazione che quei versi se non sono poesia, saranno un’altra cosa ugualmente legittima al cospetto di Dio, saranno per es. uno sfogo sentimentale o una costruzione intellettualistica, e che quella azione se non è morale sarà invece un atto utilitario. In tal modo lo « storico puro » potrebbe contemplare la realtà nec ridens nec fleens e pronunciare dei giudizi critici, distinguendo le intuizioni dai concetti e le volizioni utilitarie da quelle morali. 1) La storia come pensiero ecc., p. 34. 2) Saggio su Hegel ecc., p. 401. 66 senza pronunciare giudizi di valore, cioè senza far intervenire il suo sentimento. 36 Secondo noi tutto ciò è impossibile, impossibile non solo in senso Astrattezza della psicologico, ma concettuale. Perché, come abbiamo mostrato più sopra, il giudizio: « questi versi non sono poesia, ma sono invece atto pratico o concettuale » è un giudizio che non ha sen- so. Le categorie sono tutte onnipresenti, e quei versi, se fossero davvero un atto concettuale o un atto pratico, sarebbero neces- sariamente anche un atto intuitivo. A rigore non si può dire: « questa dimostrazione non è opera di pensiero, ma d’immagina- zione » perché ciò che non è pensabile non è in alcun modo immaginabile. Quando adoperiamo quei modi di dire (e li ado- periamo spesso) intendiamo affermare che quell’opera non è quale noi la desideriamo, non è quell’opera di poesia unitaria, armoniosa, vasta che ci aspettavamo, ma è invece un insieme, che giudichiamo disarmonico, di tanti atti, i quali, considerati ognuno per sé, non possono non essere atti di intuizione, di pen- siero e di volontà insieme. Se le categorie non sono dei circoscritti concetti empirici, ma dei predicati universali che investono tutto il reale, il giudizio: « questo è fantasia e non pensiero » non può corrispondere ad alcuna realtà. Il giudizio storico, se non fosse congiunto al giu- dizio di valore, dovrebbe limitarsi a ripeter continuamente: « questo è un atto, questo altro è un atto e questo terzo è un atto », come sanno fare con tanta buona grazia certi scolaretti che conosciamo. Ma il giudizio critico è sempre anche giudizio di valore, affermativo di una data realtà che vogliamo, e nega- tivo di un’altra che non vogliamo, espressione di pensiero e in- sieme di volontà. Un giudizio puramente teorico non esiste. L’antitesi fra contemplazione teorica e volizione pratica è pro- spettata dal C. nelle belle pagine del saggio « La grazia e il libero arbitrio ».^ Dal punto di vista della pura contemplazione — egli dice — anche l’errore, anche il male appare come necessa- 1) Ultimi Saggi, pp. 290 segg. 67 rio, e quindi come bene. Ma dal punto di vista della vita attiva e pratica ognuno di noi si sente fornito di libero arbitrio e re- sponsabile delle sue azioni. Questa doppia vicenda non è altro che « l’alterno » operare del pensiero e dell’azione. Nel pensare la storia, ci poniamo dal punto di vista della grazia e della Prov- videnza e della giustificazione per la fede; nel farla, in quello del libero arbitrio e della responsabilità e della giustificazione 37 per le opere. La reciproca Qui l’antinomia è ben vista ma non risolta, e il dualismo non implicazione non sembra Superabile finché si ammetta l’alterno avvicendarsi risolve 1 antitesi. ^ i . t di un pensiero teorico che neghi la liberta, e di un agire pratico che contrapponga la volontà sua a quella della Provvidenza. La reciproca implicazione di teoria e pratica non risolve il proble- ma perché non afferma la sintesi, ma indica soltanto l’irrequie- tezza dei due momenti antitetici; e però il processo totale dello Spirito in cui quei due momenti non si fondono insieme, ma rimangono reciprocamente trascendenti, risulta un che di in- nafferrabile, di non individuato e di non unitario. Eppure il C. non aveva da andar lontano a cercare la sintesi di quei due momenti, perché poteva trovarla, come abbiamo detto, nella sua teoria della contemporaneità della storia. La filosofia infatti altro non è che storia contemporanea, cioè sto- ria ideale eterna, in cui l’oggetto non è più un passato, irrigi- dito nella necessità del fatto, e nemmeno uno scopo futuro ir- reale nel suo dover essere, ma è l’attività del Soggetto, eterna- mente presente. In questo senso la Critica di Kant e finanche VEtica di Spinoza sono più veracemente opere di storia che non quelle del Mommsen. 68 / LA POLEMICA CONTRO IL “PROBLEMA UNICO,, E LA SU- PERSTITE TRASCENDENZA NEL- EA FILOSOEIA DELLO SPIRITO CAPITOLO TERZO 1. I vari motivi della polemica. La filosofia, abbiamo detto, è la sintesi a priori assoluta, il Pensiero concreto in cui solo tro- vano la loro realtà i singoli concetti puri. A questa concezione il C. si è sempre opposto movendole le due opposte accuse di es- sere panlogistica e teologizzante. Riportiamo i motivi principali della sua polemica, attenendoci per quanto possibile alle sue stesse parole. Egli si compiace d’aver dato il colpo di grazia alla vecchia fi- Negazione gura del « filosofo », intento a risolvere il gran problema del- l’Essere. QuelTunico o supremo problema è insolubile perché è mo. insussistente, e a ben considerarlo vi si scopre la confusa tota- lità degli infiniti problemi particolari, ciascuno solubile ed esau- ribile per sé.^ L’illusione del problema unico nasce dal problema religioso che, per contingenze storiche, è sembrato fondamentale. Secondo i tempi prende le prime parti ora il problema reli- gioso, ora quello morale o politico, o scientifico, e questo di- 1) Ultimi Saggi, 386-7. 38 della come massi- 69 venta allora il problema fondamentale, ma non mai s’incontra un problema generale per sé stante.^ Ammettendo un problema fondamentale seguirebbe che gli al- tri problemi o sarebbero da considerarsi tutti come dipendenti dal primo e perciò risoluti col primo, o problemi non più filo- sofici ma empirici. 'NelVEstetica il C. aveva creduto di dover fare una distinzione fra storia dell’arte e storia della filosofia, ritenendo allora che nella filosofia il soggetto fosse un unico problema, mentre nella storia dell’arte i problemi variano secondo le singole opere e i singoli autori. Ora egli è giunto alla conclusione che i proble- mi variano per la filosofia come per l’arte. Non è vero che i filosofi si siano travagliati sopra un unico problema, le cui solu- zioni successive, sempre meno inadeguate, formerebbero una unica linea di progresso.^ Come le opere di poesia non s’ingenerano l’una dall’altra (ché altrimenti formerebbero un unico processo e non ci sarebbe che un’unica opera d’arte), cosi non v’è un processo unico nem- meno nella storia della filosofia.^ Non è a dire che ogni problema filosofico si congiunga con tutti gli altri e sia sempre problema di filosofia totale, diversamente da quel che accade per la poesia, poiché in certo senso, anche in ogni singola poesia è immanehte l’universo intero.'^ È consigliabile perciò dare alle storie della poesia struttura sem- pre più monografica, libera da tirannie unitarie, e avvicinare poi anche la storia della filosofia a quelle storie.^ Non è vero che l’arte generi arte, la filosofia filosofia e l’azione una nuova azione. Anzi v’è un circolo delle attività spirituali, per cui ognuna ha, come suo necessario precedente, un’altra 1) La storia 'come pensiero, ecc., pp. 139-140. 2) Storiografia, p. 127. 3) La Poesia, pp. 130-131. 4) Storiografia, p. 129. 5) Storiografia, p. 129. 70 forma ben determinata. L’arte sorge dal sentimento, l’azione dalla conoscenza, il pensiero dalla vita pratica.^ La storia della filosofìa non consiste in una serie di sistemi, cia- scuno retto da un proprio principio, bensì è storia di singoli problemi solo a un di presso sistemati da ciascun pensatore.^ Solo nelle pseudo-storie si passa, per una sorta di deduzione concettuale, da Dante a Petrarca, da Petrarca a Boccaccio, ecc. e ugualmente dal pensiero di Cartesio a quello di Locke e di Hume, e da questo a quello di Kant e Schelling e Hegel. Ma la singola opera di poesia o di pintura, di filosofìa o di politica o di morale, è chiusa in sé, è la conclusione di un processo, e per sé presa non genera processo di nuova bellezza, di nuova verità 0 di nuova azione. Perché ciò accada nuovi bisogni e nuovi sen- timenti debbono prorompere a sollecitare la fantasia del poeta, nuovi problemi critici devono presentarsi alla mente del fi- losofo.^ 1 raggruppamenti, le divisioni, e le unificazioni della storia della filosofìa hanno un loro uso mnemonico, ma non rispondono alla realtà che è l’individualità e l’incomparabilità delle verità fi- losofiche concretamente intese, al modo stesso che incompara- bili sono le opere d’arte.^ La filosofia s’identifica con la storia e in senso stretto ne rap- presenta il momento metodologico. Il valore d’una dottrina fi- losofica viene quindi saggiato dai giudizi critici ch’essa rende possibili, cioè dai problemi storici ch’essa illumina. Ma il Pro- blema Unico non ha mai chiarito niente, il progresso filosofico non s’è mai avuto dalla filosofia « generale » ma sempre da sco- perte effettuate nelle scienze filosofiche speciali: Logica, Eti- ca, ecc.5 39 Come non v’è un problema generale, anche la storiografia non Negazione della storia della ci- viltà. 1) La Poesia, pp. 130-131. 2) Conversazioni critiche, IV, p. 50. 3) Carattere della filosofia moderna, p. 213. 4) Carattere della filosofia moderna, pp. 81-82. 5) Nuovi saggi, p. 356; Logica, p. 187. 71 si costruisce mai dello Spirito in generale, ma sempre dello spi- rito specificato in una delle sue forme o categorie (storia della politica, della scienza, ecc.). Non v’è una storia della Civiltà in generale che abbia sotto di sé la storia politica, scientifica, ecc. Se cosi fosse quella generale o quelle particolari sarebbero vuo- te. O la storia generale, alla quale nulla resta da fare dopo che le storie particolari hanno fatto tutto; o le storie particolari che troverebbero esaurito il compito da quella generale.^ Che non sia possibile una storiografia dello spirito in generale risulta anche dal fatto che il problema storiografico nasce sem- pre da un bisogno del fare; e poiché questo bisogno è sempre specificato come bisogno di un fare economico, poetico, ecc. an- che l’indagine correlativa procede secondo una di queste ‘ca- tegorie.^ La forma letteraria per monografia è quindi il segno della ge- nuina storia della filosofia come di ogni altra storia, mentre la form.a « enciclopedica » .è propria delle compilazioni che a sco- po mnemonico compendiano i risultati ottenuti dalle varie in- dagini monografiche.^ Non esiste uno spirito in generale senza specificazione, ma non esiste nemmeno il particolare senza riferimento alfiuniversale. Pensare un aspetto è pensare insieme tutti gli altri, e non si può ad es. intendere la filosofia d’un filosofo senza riferirsi alla sua personalità e alle sue azioni. In questo senso una storia della filosofia è tutta la storia (e parimenti una storia della lettera- tura o di altro qualsiasi aspetto dello spirito) non perché an- nulli in sé le altre, ma perché tutte sono presenti in quella.’ Vediamo ora di esaminare i vari motivi di questa polemica. Anzitutto il C. vi esprime il suo bisogno di concretezza e la sua antipatia contro le astratte generalità. Quando si esce dalla 1) storiografìa, p. 105. 2) Carattere della filosofia moderna, p. 212. 3) Carattere della filosofia moderna, p. 65. 4) Storiografia, p. 106. 5) Ihid., p. 108, 72 concretezza e particolarità determinata — egli dice — sorgono codesti problemi falsi, che, quanto meno hanno costrutto, tanto più sembrano grandiosi e sublimi. Ad essi corrispondono le grandi questioni pratiche campate in aria, come la « questione sociale », la « pace perpetua » e simili, che, avulse dalla con- cretezza di determinate circostanze, son prive d’ogni significato.^ In questo ogni uomo di buon senso può essere d’accordo col no- stro autore, con la riserva, (accettata dal C.), che quei problemi, pur essendo espressi verbalmente in forma generica, possono talora sottintendere un ben preciso riferimento storico. 40 Qui però ci sembra necessaria una distinzione: altro’ è dire che Significato equi- non esiste un problema filosofico generale, ma soltanto il prò- «Pro- . • 1 li. blema generale». blema estetico, logico, economico ed etico; e altro che 1 pro- blemi filosofici sono infiniti e incomparabili fra loro,^ come infi- nite sono le opere d’arte. Abbiamo l’impressione che talora nel C. le due proposizioni tendano a confondersi in una. Egli dirà ad esempio che la fallace idea del cosidetto « problema filosofico fondamentale » prende origine dallo scambio fra il problema particolare e un « ordine di problemi ». « Un proble- ma particolare si risolve quando è posto bene, ma un ordine di problemi ùion è dato risolverlo, cioè esaurirlo, perché corrisponde . ad una categoria spirituale, a una delle eterne forze spirituali che reggono la storia e pongono e risolvono i problemi parti- colari. L’affermazione che si devono affrontare solo problemi partico- lari e non mai « ordini di problemi » equivale, secondo noi, alla negazione storicistica della filosofia. Da ciò seguirebbe che non è lecito chiedersi, come ha fatto il C. nella sua Estetica: che cosa è l’arte? (che evidentemente implica un « ordine di pro- blemi ») ma che occorre limitare il problema alle opere d’arte che si sono presentate in una determinata situazione storica. 1) Nuovi saggi, p. 344; Log., p. 187. 2) Carattere d. filosofia mod., p. 116. L’infinità dei problemi filosofici è spesso affermata altrove. Cfr. specialmente Storiografia, p. 139. 73 41 Negazione stori- cistica della filo- sofia. Qui infatti non si dice più che ogni problema universale include sempre qualche particolare riferimento storico, ma si nega ve- ramente l’elemento universale. Siamo d’accordo anche noi che il concetto filosofico è sempre insieme assolutamente universale e assolutamente individuale (questo è il significato dell’espres- sione universale -concreto), e non si può ad esempio definire la bellezza se non si ha in qualche modo presente una determinata opera bella; ma questo riferimento non è tale da limitare a quei casi particolari il valore della teoria filosofica, sicché, sorgendo una nuova opera d’arte, la teoria debba venire abbandonata per adeguarsi al nuovo fatto storico. Il C. si proponeva certamente di negare soltanto il problema metafisico nella sua astratta universalità, ma la logica della ne- gazione, implicita nella identificazione della filosofia con la sto- ria, lo ha portato qui assai vicino a un nominalismo storicistico che svolto conseguentemente toglierebbe ogni universalità alle distinzioni categoriche che egli difende. La stessa cosa è da dire per il problema storiografico. La sugge- stione dell’Estetica ha indotto il C. a sostenere che la forma propria di ogni trattazione storica è quella monografica. Ora un giudizio estetico si può dare logicamente di una singola ope- ra, considerata nella sua individualità e non di un gruppo di opere. Da ciò il C. è portato a concludere che lo storico debba considerare le singole opere monadisticamente « chiuse in sé ». La suggestione estetica, se fosse stata portata, come per fortuna non avvenne, alle sue logiche conseguenze, avrebbe dovuto in- durre il C. a limitare la storia delle dottrine filosofiche a una serie di uggiose analisi particolari di singoli autori, anzi di sin- goli giudizi, vietandogli di darci, come ci ha dato, quelle storie dei problemi filosofici, in cui, come avviene in ogni storia cri- tica, le varie dottrine si dispongono come soluzioni sempre meno inadeguate di uno stesso problema, e si delinea un pro- gressus ad quem, cioè al pensiero proprio dello storico. Se, accogliendo in pieno la suggestione dell’Estetica, il C. avesse non solo affermato che i problemi della storiografia sono infi- 74 niti, ma avesse poi anche accordata la sua sistemazione specu- lativa con tale teoria storiografica, avrebbe dovuto giungere alla conclusione (cara agli attualisti) che le categorie o attività dello Spirito non sono solo quelle da lui contemplate, ma infinite, cioè tutte quelle che lo spirito afferma, di volta in volta, con ogni suo atto, e che se noi chiamiamo con uno stesso nome certi gruppi di concetti, si tratta di sémplici classificazioni empiriche. Il concetto di virtù non è infatti lo stesso nei veggenti indiani che la considerano come un fluido magico e in coloro che la definiscono come osservanza rituale o come subordinazione al costume patrio; in chi la identifica con la sapienza o col pia- cere, con la forza o con la carità, con l’utile o col dovere. In realtà — egli avrebbe dovuto dire — si tratta di tanti concetti diversi, sorti in condizioni storiche diverse, che non hanno altro in comune che il nome. È interessante osservare che a tale storicismo nominalistico sono giunti certi attualisti, per aver dato rilievo all’unità a scapito delle distinzioni (per l’attualismo l’affermazione della categoria unica e la negazione dei concetti distinti equivale all’afferma- zione di infinite distinzioni, poste sullo stesso piano); e il C. ri- sica di giungervi per aver dato rilievo alle distinzioni a scapito dell’unità; che è un caso tipico di conversione degli opposti. Ho esaminato altrove in uno studio particolareggiato la dialet- tica concettuale per cui l’attualismo giunge necessariamente alla negazione della filosofia.^ Mi sia lecito riferirne alcuni passi da cui risulta che la concezione che io criticavo (e sulla quale pro- babilmente il pensiero del C. ha fatto sentire la sua influenza) è insieme simile e opposta al pensiero del nostro autore. Ecco, in riassunto, la dottrina dello scrittore attualista: — « Credettero gli antichi di poter affermare una coscienza as- soluta, ideale eterna, di fronte ad una realtà contingente e ca- duca; ma considerando la filosofia come scienza dell’assoluto, Lo storicismo conseguente de- ve negare l’asso- lutezza delle categorie. 43 La negazione della filosofia neU’attualismo. 1) « La Negazione della filosofia nell’idealismo attuale » in Archivio di Filosofia, 1932, fase. II. mentre hanno creduto di elevarla, l’hanno campata in aria: da una parte è rimasto il filosofo con le sue idee, dall’altra la vita nella sua pienezza. - « Da questa concezione antiquata deriva la distinzione fra i concetti particolari o empirici e certe idee privilegiate, univer- sali e supreme, che sarebbero le cosidette categorie. « L’autore non nega all’uomo il diritto di- chiedersi quale sia il significato e lo scopo della vita, ma anzi queste domande de- vono esser sempre presenti in ogni nostro pensiero e atto. « Il filosofo di vecchio stampo aveva la smania di definire e cir- coscrivere la filosofia e la realtà. Egli escogitava certi schemi: del Vero, del Bello, del Buono ecc. e li battezzava per univer- sali. Ma universali essi non sono, anzi riguardano soltanto i problemi particolarissimi che quel dato filosofo si è proposti. Le pretese categorie non sono altro che concetti astratti e geneia- lissimi, ma per quanto si faccia non si può mai vuotarle del tut- to, ché in tal caso non significherebbero più nulla, e però esse designano sempre un contenuto storicamente determinato e contingente come gli altri concetti. « Il filosofo tradizionale appare all’A. come una figura anacro- nistica e un po’ ridicola che vive fuori del mondo e infastidisce con i suoi consigli coloro che vivono sul serio. Egli insegna allo scienziato che cosa sia la scienza, all’aftista che cosa sia l’arte, allo storico che cosa sia la storia; e, dimentico che verum est factum quatenus fit, continua a parlare di ciò che non ha mai sperimentato ».^ Si confronti questo modo di vedere con quello manifestato dal C. per es. in Teoria e Storia della Storiografia (p. 145): «Un forte avanzamento della cultura filosofica dovrebbe tendere a questo effetto: che tutti gli studiosi delle cose umane, giuristi, economisti, moralisti, letterati, ossia tutti gli studiosi di cose storiche, diventino consapevoli e disciplinati filosofi; e il filo- 1) Op. cit. § 2. Cfr. U. Spirito, Scienza e filosofia in « Giornale Critico " 1929 pp. 434 segg. Id. Il nuovo concetto di filosofia ibid. 1930 pp. 315 segg. 76 - sofo in generale, il purus philosophus, non trovi più luogo tra le specificazioni professionali del sapere. Con la sparizione del filosofo « in generale » sparirebbe l’ultimo vestigio sociale del teologo o metafisico e del Buddho o risvegliato ».^ Si noti che l’abolizione qui auspicata dello specifico insegna- mento filosofico si potrebbe, per le stesse ragioni, estendere al- l’insegnamento artistico e letterario: ogni insegnante dovrebbe essere in grado di educare gli alunni a esprimersi correttamente e a gustare la poesia delle opere che fanno parte della sua trat- tazione. La stessissima cosa si potrebbe poi rigorosamente esten- dere a tutte le materie, economiche, giuridiche, morali, ecc., sicché tutte si confonderebbero in una sola: la « storia genera- le ». Dove si vede che affermare una indistinta infinità di pro- blemi particolari, o affermare un solo problema astrattamente generale, sono affermazioni equivalenti. Comunque la teoria che meglio s’accorda con la logica del si- stema crociano non è quella che afferma un’indistinta infinità di problemi filosofici e quindi una storia della filosofia per sin- goli autori o, peggio, per singole opere monadisticamente in- tese, come seguirebbe dalla malesuaàa storiografia dell’arte, bensì quella che nega il « problema unico », ma afferma deter- minati problemi fondamentali, e richiede una storiografia filo- sofica sistematica dell’Estetica, della Logica, dell’Economia e dell’Etica. 2. Il nesso circolare e il sistema dialettico. Il C. non ammette una gerarchia di valori e chiama panlogistiche quelle filosofie 1) Se nel passo citato il C. si augura Teliminazione deH’insegnamento specifico della filosofia, altrove egli va più in là, e sembra considerare indegno d’un uomo serio l’occuparsi di pura filosofia, la quale - egli dice - dovrebbe essere precipuamente cosa del giovine, ossia di chi si pre- para alla vita operosa, perchè essa nasce da un bisogno di orientamento (Conv. Crii. IV. p. 255). Parole che ricordano quelle di Callide nel Gor- gia platonico: « La filosofia^ o Socrate, è una bella cosa, se la si pratica con moderazione all’età. giusta... ma se uno che è già innanzi negli anni si dà ancora a filosofare la diventa una cosa ben ridicola ». (Gorgia 484, 485). 77 che considerano tutte le determinazioni spirituali come mo- menti deH’unico Concetto. È qui che abbiamo la massima divergenza logica fra il pen- siero nostro e il suo. Per noi, come per Hegel, la Dialettica è tutta la Logica, la Logica è tutta la Filosofìa, e la Filosofìa, cioè il Pensiero concreto, comprende in sé tutta la realtà. Per il C. invece la Dialettica non è che una parte della Logica (quella che tratta dell’opposizione nel seno di ciascun concetto distin- to), la Logica è una parte della Filosofìa (quella che tratta del concetto, e si distingue per es. dall’Estetica che tratta dell’in- tuizione) e la Filosofìa, cioè il pensiero, è una delle attività spi- rituali, accanto all’attività artistica e a quella economica ed etica. Per amor di chiarezza possiamo rappresentare lo schema delle due diverse sistemazioni servendoci dei seguenti simboli grafìe!: Pensiero concreto Lo schema del C. è rappresentato dal simbolo circolare in cui si passa dall’intuizione al concetto, e dall’azione economica a quella morale, e in cui teoria e pratica si presuppongono a vi- cenda. Nello schema nostro ^ non abbiamo quattro concetti fìlosofìci uni- versali, concreti e autonomi in sé, ma uno solo, il Pensiero con- 78 creto o assoluto, rattività autocosciente, sintesi di soggetto e Oggetto, unità dialettica di teoria e pratica. La contemporaneità della storia resterebbe invero una frase vuota se non signifi- casse che il pensiero filosofico non trova di fronte a sé un altro da sé, non è teoria che presupponga un’azione altrui, ma è coscienza del proprio fare. Le singole categorie particolari non sono dunque concetti auto- 44 sufficienti ma momenti analitici essenziali, costitutivi del Pen- Le categorie sono siero concreto. Ciò significa che non si pensa veramente il Con- cetto se non si pensano le sue determinazioni; esso resta un con- concetto, cetto vuoto se non lo si pensa come sintesi di azione e pensiero, e se non si distingue quindi il predicato della teoreticità da quello della praticità. Noi diciamo che teoria e pratica non sono atti diversi, ma predicati o valori diversi di uno stesso atto. Non si può concepire il soggetto senza l’oggetto né viceversa, come non si può concepire il vincitore senza il vinto, ma non per que- sto vincitore e vinto sono lo stesso. Possiamo poi analizzare ulteriormente il concetto della cono- scenza storica nei suoi momenti costitutivi: l’intuizione concreta’ e la categoria astratta. Ma non per questo si può immaginare una vuota categoria, priva di riferimenti concreti (nel qual caso non significherebbe nulla); né un atto puramente intuitivo, af- fatto privo di coscienza storica (nel qual caso esso sarebbe per definizione inafferrabile dal nostro pensiero, e non ne potremmo parlare). I due momenti antitetici s’implicano a vicenda, ma i due predicati non si identificano fra loro e anzi sarebbe uno sproposito il dire che la bellezza e la logicità sono la stessa cosa. Non esistono mai nella realtà concreta intuizioni alogiche, né concetti astratti, come non esistono azioni puramente economi- 1) Questo schema non corrisponde perfettamente al sistema delle cate- gorie che sarà esposto più in là; qui lo abbiamo alquanto semplificato per renderlo più corrispondente alla sistemazione crociana. 79 che né astratti imperativi morali; ciò che solo esiste concreta- mente è la piena realtà dell’auto-coscienza con tutte le sue de- terminazioni. E però quando uno dei momenti sia dichiarato autonomo fuori della sintesi (come spesso fa il C.), si può facil- mente notare in quel concetto un’inopia, una insufficienza e una vera e propria contradizione. L’intelletto astratto, quando scopre una contradizione, conclude affrettatamente: la determinazione contraditto ria non è nulla di reale. Per questa ragione i razionalisti negano il valore della certezza sensibile, e i nominalisti quello dei concetti; gli uti- litaristi negano l’imperativo morale e i rigoristi il sentimento. Per questa ragione il C. ha negato il valore teoretico della ma- tematica e delle scienze sperimentali, e per la stessa ragione, infine, gli attualisti tendono a negare tutte le distinzioni con- cettuali. In verità ogni concetto distinto si presta a una considerazione dialettica e a una considerazione speculativa. Nella prima il con- cetto rivela la sua insufficienza e contradizione per cui si con- verte nel suo opposto; nella seconda esso rivela il suo valore positivo di momento o aspetto necessario della sintesi superiore. La sintesi è a priori rispetto ai suoi momenti; ma non si tratta evidentemente di una priorità cronologica, ché anzi, se mai, alla considerazione temporale la sintesi appare posteriore, come ciò che è più complesso appare come risultato e svolgimento di ciò che è più semplice. La priorità logica del concetto superiore significa precisamente questo: che la sintesi è la vera realtà, la concretezza; e i suoi momenti si ottengono per analisi e astra- zione, considerando uno dei suoi aspetti. In questo senso si po- trebbe parlare della priorità logica del concetto di volume ri- spetto a quello di superficie; in questo senso noi diciamo' che l’azione etico-politica è a priori rispetto agli interessi economici e agli ideali astratti, e intendiamo dire che non esistono mai interessi puramente economici, nè ideali campati nell’iperura- nio, ma soltanto azioni concrete in cui si realizzano interessi e 80 ideali e in cui però si devono distinguere i valori economici da quelli morali. Abbiamo premesso queste osservazioni per contrapporre chia- ramente la concezione nostra a quella del C. e per spiegare in che senso il Concetto è unico: il problema filosofico è unico per- ché il Pensiero è sintesi a priori. Non c*è filosofo moderno che possa disconoscere questa assoluta apriorità del Concetto, e il C. stesso, malgrado il suo battaglia- re, talvolta la riconosce esplicitamente: « Dalla identità della filosofia col concetto puro, si deduce an- che la necessità del suo carattere sistematico. « Pensare un determinato concetto puro significa pensarlo nella sua relazione di unità e distinzione con gli altri tutti; sicché quel che si pensa in realtà non è mai un concetto singolo, ma il sistema dei concetti, il Concetto ».^ Quello che qui è chiamato il Concetto è ciò che noi chiamiamo Pensiero concreto, e a ragione, ci pare, se anche il C. riconosce che esso è ciò che in realtà si pensa sempre, mentre i singoli concetti puri (i momenti analitici del Concetto) non si pensano mai nella loro purezza, cioè nella loro particolare singolarità. Già al principio della sua Logica il C. aveva affermato che « L’esigenza del concetto richiede — che quella molteplicità (dei concetti particolari) sia negata, e si affermi in cambio che uno è il reale perché uno è il concetto col quale lo conosciamo »} Egli riconosce il carattere essenzialmente sistematico del pen- siero: « Il vero filosofo, nel recare anche la più piccola modi- ficazione a un concetto, ha sempre l’occhio all’intero sistema; perché sa che quella modificazione piccola e circoscritta che sembri, modifica in qualche modo il tutto ».^ 4S 11 C. riconosce, suo malgrado, che il problema filosofico è unico 1) Log. p. 181. 2) Log. p. 51. 3) Log. p. 182. - Questo è il Croce con cui andiamo d’accordo, mentre non possiamo andare d’accordo con quello che ha scritto parole come queste: « Le particolari filosofie non sono altro che un certo nu- mero di proposizioni di verità, in maggiore o minore misura connesse 81 6 \ 46 Lo «Spirito» nella concezione del C. è un con- cetto generico e astratto. Il C. dunque sembra affermare come noi che il problema filo- sofico è unico, e la sua polemica contro la « smania unitaria » dovrebbe essere diretta soltanto contro coloro che, come gli attualisti, affermano Tunità a scapito delle distinzioni, e ren- dono vana la sintesi negando i suoi momenti costitutivi. Ammesse le distinzioni dialettiche entro l’unità, la differenza si ridurrebbe a una questione di parole, chiamando noi Pen- siero concreto quello che il C. chiama lo Spirito concreto nel- Tunità delle sue forme. ^ Ma la questione è di sostanza e non di parole e c’è una opposi- zione inconciliata fra l’affermazione crociana dell’unità del Con- cetto e la sua polemica anti-unitaria. In verità quello che il C. chiama lo Spirito concreto cade fuori del suo sistema. Leggendo le sue pagine sembra che ci si possa trovare di fronte a un’opera d’arte e dire: questo è un fatto estetico; o di fronte a un atto pratico e dire: questo è un atto economico o morale; ma non sembra che si possa mai dire: que- sto è lo spirito concreto. È una strana concretezza che non si incontra mai, e assomiglia al concetto generico di « frutta » che non cade sotto i denti, del noto esempio hegeliano. Lo spirito concreto non si incontra mai, tanto è vero che esso, come tale, non può diventare oggetto di storia, e però il C. nega che vi sia una storiografia dello Spirito in generale, cioè della Civiltà, cioè di ciò che è l’unica vera realtà. ' fra loro ossia sistemate » (Conv. crii. IV p. 59). Lo spigolare nella con- cezione d’un filosofo delle singole verità è, secondo noi, un procedere altrettanto incomprensivo come quello dei letterati che scavizzolano in un poema delle singole bellurie, rimanendo . sordi al motivo lirico che tutto lo domina^ Certo, anche nelle parole citate c’è qualche .cosa di vero, poiché vi possono essere in un sistema filosofico come in un poema certe parti strutturali (come .le ha chiamate il nostro autore), che hanno la funzione di tenere approssimativamente insieme le parti vive, ma non per questo si può dimenticare che ciò che vi è di vivo in un pen- siero filosofico ha sempre necessariamente carattere sistematico e, se la parola non fosse brutta, diremmo totalitario. 1) Cfr. Conv. Crit. Ili p. 121 dove, a proposito dello studio di Fazio Allmayer Contributo alla teoria della storia dell’arte (La Nuova Critica, Palermo I 1922) il C. accenna a tale ipotesi. 82 Secondo il C. una dottrina filosofica ha valore solo in quanto illumina certi problemi storici e rende possibili dei giudizi cri- tici. Per questo i problemi particolari sono reali, mentre il pro- blema speculativo e metafisico sarebbe insussistente e non avrebbe mai chiarito nulla. È pur significativo questo fatto che il problema se l’allegoria sia atto teorico o atto pratico, sembri al C. più degno di medita- zione che il problema se l’essenza del reale sia materiale o spi- rituale. Se è vero che la storia non produce nulla invano, come mai i maggiori pensatori di tutti i tempi si sarebbero trava- gliati proprio su quel problema illecito e insussistente? ^ L’essere di Parmenide, gli atomi di Democrito, l’idea di Pla- 1) Dice il C. col suo solito garbo: «L’idea comune della storia della filosofia come il travaglio di tutte le menti nei secoli sopra un unico problema, dà al filosofare l’aspetto di una fatica di Sisifo piuttosto co- mica che tragica, e comicamente si colora nella figurazione di un fa- moso epigramma dello Heine, in cui si vedono insieme accolte teste di orientali e di greci, di maomettani e di cristiani, che gridano tutti la stessa domanda, resi folli dall’attesa della risposta che non viene mai ». ’ Convien però ricordare che il C. chiama talora « insussistente » un problema quando egli lo ritenga già risolto in un determinato senso. Cosi ad es. egli dice nei Nuovi Saggi di Estetica (p. 348) « un caso in- signe di problema insussistente è quello sulla conoscibilità del reale, sul rapporto tra ” pensiero ” ed ” essere se cioè il pensiero apprenda o no l’essere e in qual modo e misura ». Dalle quali parole si potrebbe dedurre che al nostro autore tutto quello che s’è detto e pensato su questo argomento dal suggestivo frammento di Parmenide alla razio- nalità del reale di Hegel, sembri un non senso, ed egli voglia sbeffeg- giare gli sforzi di quei grandi che su quel problema si sono' travagliati, e commiserare noi che sulle loro pagine perdiamo il nostro tempo. Ma poi si scopre che le sue parole non sono che uno sfogo d’impazienza contro coloro che ignorano le premesse acquisite della cultura moderna e impostano ancora oggi quel problema nella forma inadeguata della vecchia scolastica; ma che il problema c’è anche per lui, e va risolto, proprio come pensiamo noi, nel senso dell’unità fra gnoseologia e me- tafisica. , Seguendo questo modo, che non è senza arbitrio, qualcuno potrebbe chiamare insussistenti tre quarti dei problemi dibattuti nell’Estetica del C. poiché le soluzioni che il nostro autore ci ha date si possono ormai considerare acquisite alla nostra cultura. 83 47 Il primato sintesi sui momenti. tone, il sinolo di Aristotile, la natura sive deus di Spinoza, le monadi di Leibniz, via via fino allo Spirito assoluto dei post- kantiani non sono essenzialmente concetti che rispondano a particolari problemi estetici, economici ecc. e non dovrebbero quindi avere né valore né interesse filosofico. Le domande che più stavano a cuore a quei pensatori (e a noi tutti, compreso il Croce) non sono quelle lecite: che cosa é Larte? la scienza? l’economia? la morale? bensì quelle illecite: che cosa è la realtà? quale è l’essenza, il significato e la ra- gion d’essere della vita? e i problemi critici acquistano un senso più universale e appassionante solo in quanto si rivelano come particolari aspetti di quell’unica domanda. Il problema specu- lativo, o logico-metafisico, non si propone di chiarire alcun de- terminato problema critico, appunto perché li illumina tutti. . Essendo il problema unico, è naturale che ogni progresso di un concetto particolare si ripercuota in qualche modo su tutti gli altri; ma ben altra è l’influenza che ha, su tutto il sistema, un progresso nel concetto logico-speculativo, come tale. O meglio, la scoperta particolare influisce sugli altri problemi non per ciò che ha di particolare, ma in quanto il Concetto logico-specu- lativo è immanente in ciascuno dei concetti « distinti ». Quando ad es. Aristotile vide che l’essenza o forma del reale non può essere separata dall’ente reale (che è la sua scoperta specula- tiva), ciò mise in nuova luce tutti i problemi della sua filosofia, quando invece egli vide che l’arte non irrobustisce le passioni nella loro materialità, ma le purifica (che è la sua particolare scoperta estetica), ciò non influì sostanzialmente nell’imposta- zione dei suoi problemi non estetici. della 3. La gerarchia dei valori e la sintesi a priori logica. Secondo SUOI Q primato d’un concetto sull’altro, né della Logica sull’Estetica, né della Morale sulla Economia; ogni concetto di- stinto si può dire primo o ultimo, come risulta dal simbolo cir- colare. Secondo noi invece si deve parlare di concetti superiori 84 e inferiori nel senso che la sintesi è superiore ai suoi momenti analitici. La relazione fra i tre momenti è notoriamente que- sta: fra tesi e antitesi c’è reciproca implicazione; cioè ognuno dei due momenti tende a completarsi riunendosi al suo opposto, che è ciò che vien detto conversione dei contrari. Fra la sintesi e i suoi momenti c’è implicazione, cioè il momento superiore contiene in sé i concetti inferiori. Ciò è stato riconosciuto rebus ipsis dictantihus, dal C. per il giudizio storico, il quale implica, come suoi momenti, la rappresentazione concreta da una parte e la categoria astratta dall’altra. In questo senso noi parliamo di un’apriorità o di un primato della conoscenza storica rispetto all’intuizione e alla categoria.^ La relazione dialettica non è stata qui pienamente riconosciuta dal C. (che pur vi era tanto vicino) per il pregiudizio che l’in- tuizione possa stare da sé, e che vi sia una differenza qualita- tiva essenziale fra l’intuizione pura di un artista e l’intuizione concettualizzata della rappresentazione storica.^ Nel campo pratico il C. è anche più lontano dal considerare l’azione etico-politica come sintesi dei suoi momenti, perché non ha riconosciuto agli astratti ideali universalistici nemmeno quella funzione schematica di metodologia dell’azione che cor- risponderebbe alla funzione teorica delle categorie. La relazione fra i momenti e la loro sintesi si può caratteriz- 1) Dice il C. che la sua teoria « non asservisce la verità all’eticità, nep- pure nella forma di un primato dell’etica, perché ha superato affatto la teoria dei primati dell’una o dell’altra forma spirituale, le quale •- es- sendo tutte necessarie - non tollerano primato di una sulle altre e sono tutte reciprocamente prime ». (Carattere d. fil- mod. p. -174). Questa negazione deriva dalla sua concezione adiaìettica dei gradi di- stinti, tuttavia egli parla di un « primato della coscienza storica » ri- spetto ai documenti (Ibid. p. 148); che altro non è se non l’apriorità della sintesi sulla tesi. In questo stesso senso noi parliamo di un pri- mato dell’eticità concreta sul momento economico e del pensiero con- creto su tutte le determinazioni. 2) La differenza qualitativa c’è, come sarà ormai chiaro, fra il valore artistico e il valore storico, differenza che dipende dalla prospettiva del giudizio nostro. 85 r I zare dicendo che nel momento inferiore c’è Vesigenza di quello ^ superiore, nell’intuizione e nella categoria astratta c’è l’esi- ^ • genza della conoscenza storica; nell’interesse economico e nel- r l’astratto ideale c’è l’esigenza dell’azione civile. Con più ener- gica espressione il C. ha detto ih qualche luogo che l’un con- cetto precipita nell’altro, ciò significa, secondo la nostra inter- pretazione, che il concetto inferiore non trova la sua vera realtà che in seno a quello superiore. Similmente il dire che pratica e teoria, cioè azione storica e conoscenza storica, si pre- suppongono a vicenda, significa che i due concetti stanno fra loro in relazione di tesi e antitesi e trovano la loro realtà nel Pensiero concreto, cioè in quella Storia contemporanea che è insieme pensiero e azione, nell’autocoscienza, in cui il vero si converte col fatto. La Logica concreta non è, come il C. teme, un principio messo al disopra del processo reale,^ ma è lo stesso processo reale, in quanto acquista coscienza di sé e dei suoi ì ' momenti. « Ammettendo un problema fondamentale — dice il C. — se- guirebbe che gli altri problemi o sarebbero da considerare tutti come dipendenze del primo e perciò risoluti col primo; o come problemi non più filosofici, ma empirici ».^ Accettiamo la prima parte del dilemma, con questa avvertenza: che come i problemi , particolari non hanno significato fuori del problema speculativo, cosi anche questo non significherebbe nulla se venisse vuotato 48 dei problemi critici. L’assoluto pri- Ma perché — potrebbe insistere il C. — voi chiamate Pen- Sero^ sieyo lo Spirito nell’unità di tutte le sue forme? Non vedete che in tal modo attribuite una dignità privilegiata a una delle forme particolari sulle altre? Che il pensiero sia una delle de- terminazioni particolari e non lo Spirito tutto spiegato, non ri- sulta chiaramente dal fatto che noi distinguiamo il pensiero dal- l’azione pratica e dall’intuizione artistica? Con lo stesso diritto 1) Nuovi Saggi, p. 356. 2) Storiografia, p. 141.- 86 altri pone come sommo Concetto l’intuizione o l’azione o altro. . Tanto nel panlogismo, come neH’intuizionismo o nel pragma- tismo, uno dei concetti particolari usurpa la dignità del Tutto. I concetti filosofici sono tutti necessari e universali e non ha senso porre l’uno come superiore agli altri, perché non vi sono gradazioni diverse di universalità. E quando gli fu risposto che si deve essere panlogisti per forza, perché dal pensiero non si esce mai, il C. ha ribattuto che nep- pure dalla volontà o dalla fantasia si esce mai, e che, se il pen- siero si sottomette tutto, cioè rende tutto oggetto della sua con- templazione, anche la volontà e la fantasia fanno altrettanto.^ Ora qui c’è un evidente equivoco. Quando diciamo (col Gentile) che dal pensiero non si esce, intendiamo dire che il pensiero è l’unico atto concreto che ci è sempre presente, sicché, in qua- lunque momento uno si chieda: — che cosa sto ora facendo? — egli ha il diritto di rispondere: penso. 49 Altrettanto non si può dire della fantasia; anzi l’opposto. Del inattualità dei puro poetare si deve dire che esso è un atto che non s ’ i n - concetti distinti, contra mai concretamente, un atto che si suppone sempre in altri e non si trova mai in noi; un atto che appartiene sem- pre al passato che non è. Credam curri tetigero, crederemo nel- l’intuizione come atto concreto, quando ci sarà presente; men- tre è chiaro che se qualcuno affermasse: « questo mio atto pre- serite è una pura intuizione » si avrebbe ben ragione di obiet- targli: — tu giudichi di esser poeta, il tuo è dunque un giudizio e non un’intuizione. E non giova rispondere: — Ora, si, ho pronunciato un giudizio, ma tante altre volte in passato ho lasciato libero corso alla mia fantasia senza ragionarci su, e quel che più conta, le opere dei poeti sono li a testimoniare che esistono delle pure intuizioni. Non giova, perché quel passato non esiste in sé, come non esi- stono in sé le opere dei supposti poeti puri, ma l’uno e le altre esistono, conforme alla sentenza agostiniana, soltanto nella no- 1) Conv. Crii. IV p. 300. 87 stra presente coscienza, e come termini del nostro presente giudizio.^ Ciò corrisponde alla dottrina della contemporaneità e autobio- graficità della storia (dottrina di cui il suo autore si dimentica quando polemizza contro il problema unico e contro il panlo- gismo) come corrisponde alla dottrina kantiana dell’apperce- zione originaria. Che significato può avere l’appercezione originaria se non que- sto? Quando Kant sostiene, con un’espressione, a dire vero, non molto felice, che Vio penso accompagna necessariamente ogni nostro stato d’animo, questo egli afferma: che non ci pos- sono essere né sensazioni, né intuizioni, né volizioni in sé, fuori dell’atto con cui le giudichiamo. Ché, se ci fossero — egli ag- giunge — noi non ne sapremmo nulla e non ne potremmo parlare. Il C. non vuol ammettere che l’arte non esiste che come ter- mine della nostra, più o meno chiara, coscienza critica, e fa appello al buon gusto, che sembra dargli ragione. Ma egli non si avvede che il buon gusto, qui, è testimonio anche meno si- curo di quel « buon senso comune » il quale vieterà sempre al- l’uomo della strada di ammettere che una montagna non esiste in sé fuori della nostra coscienza. Ammettere un atto intuitivo, o economico, o morale che non sia contenuto di un nostro atto di pensiero, ammettere degli atti spirituali diversi dal pensiero e che il pensiero si troverebbe di fronte, come dati; atti che potrebbero si, in un secondo tempo e per accidens, diventare oggetti della nostra meditazione, ma che tuttavia esisterebbero in sé, anche indipendentemente dal pensiero che li considera — tutto ciò è supposizione altrettanto 1) È merito del Gentile d’aver dato il massimo rilievo a codesta asso- luta apriorità del pensiero. Ma, secondo noi, con ciò non si afferma che la poesia, come tale, derivi dal ragionamento, né che l’arte vada confusa con la critica. Se, analizzando l’atto con cui giudichiamo l’arfe, ci soffermiamo a considerare un solo termine, abbiamo diritto di dire che quel termine (la poesia) è privo di predicato logico. 88 arbitraria come ammettere una materia, una energia fìsica o una idea platonica, esistenti in sé. 5o Questa è la ragione per cui il Pensiero fìlosofìco non può es- Ammettendo sere considerato come parte tra le parti, come una forma tra attività ac- ^ ^ C3rito ài jr0D.8idro le forme dello spirito, ma deve essere concepito come il TipcòTov gj (pùoEi come Tunica forma che sovrasta su tutte le determina- lismo. zioni particolari. Non si tratta di « boria dei fìlosofì », — come il C. opina ^ — ma di necessità logica: se si ammette un atto, non contenuto del Pensiero, si ricade nel realismo della cosa in sé. Si ricade cioè in una concezione che contrasta col carat- tere fondamentale di tutto il pensiero moderno. « La filosofìa — ha pur detto il 'C. — non può lasciar sussistere alcun concetto trascendente, alcun dualismo insoluto, ma deve accogliere den- tro il suo seno tutto il pensabile ».^ Noi diciamo dunque che il soggetto della storia della filosofìa è un problema unico per la semplice ragione che la filosofìa è sto- ria contemporanea, cioè consapevolezza che il non-io è posto dall’io, e l’altro da me è posto da me. È un problema unico perché il filosofo è tale, in quanto sa che i Socrati, i Platoni e gli Aristotili, non esistono nella notte di un irrevocabile pas- sato, ma sono momenti di quell’unico processo che è il Pen- siero concreto. In Hegel — dice il C. — la storia della filosofìa è intesa «come la grande autobiografìa del pensiero fìlosofìco »; ma se la storia ha da essere storia e non cronaca, non v’è modo d’intenderla diversamente. Secondo C. il Pensiero concreto è, come l’idea di Hegel e l’Io di Fichte, una sopravvivenza teologica che non trova riscontro 1) « non ho mai gustato questa ” boria dei fìlosofì ” e non intendo quale torto si faccia al cuore o al cervello, considerandolo cuore e cervello di un organismo, e perchè bisogni, dignìtatis causa, postulare un sopra- cuore o sopra-cervello o sopra-organismo ». (Ultimi Saggi p. 357). Il C. è ritornato più e più volte su questo argomento, ma è strano che egli non abbia mai affrontato la vera difficoltà del problema, cioè non abbia nemmeno tentato di spiegarci come si possa salvare la sua tesi senza cadere nella trascendenza. 2) Carattere d. fil- mod. pp. 17-18. 89 nella realtà. Essi affermano a parole — egli dice — che il Pen- siero sovrasta a tutte le categorie, ma poi in pratica devono distinguere il pensiero dalFazione.^ Nella realtà della storia tro- viamo da una parte delle opere teoriche, come quelle di Aristo- tile o di Hegel, dall’altra delle opere pratiche come quelle di Alessandro o di Napoleone, ma il Pensiero concreto, il tertium quid, superiore alla teoria e alla pratica, non lo troviamo mai. Noi invece diciamo che nulla di concreto potremo certamente trovare finché lo cercheremo fuori di noi, poiché la concretezza siamo noi stessi. Quel residuo realistico che abbiamo notato contrasta con la parte più viva della Filosofia dello spirito. Il C. ad esempio ri- conosce l’importanza della ripresa, fatta da Hegel, dell’argo- mento ontologico ed ammette che nel concetto filosofico, diver-' samente che nelle rappresentazioni del particolare, l’essenza 1) Per ciò che riguarda rio di Fichte e l’Idea di Hegel, il C. ha qualche ragione, perchè v’è in quei concetti qualche oscurità e come un’ombra dell’antica trascendenza. Non ci par giusto invece quello che egli dice a proposito del Gentile: «La logica del concreto non è in grado di vincere e sostituire quella dell’astratto, tanto vero che la stessa filo- sofia del concreto non si può pensarla se non mercé la logica che si chiama dell’astratto ». (Conv. Crii. IV p. 298). La logica del concreto del Gentile, è, se non ci inganniamo, l’autocoscienza, il pensiero pen- sante, di cui il pensiero pensato (o logica dell’astratto) è un momento necessario. Certo, fra i troppi scolari che afflissero il Gentile, ve n’è più d’uno che ha tratto questa conclusione: Se l’io pensante è puro soggetto esso è inconoscibile, perché ciò che si conosce diventa oggetto del pensiero. In tal modo si cade nel misticismo o nello scetticismo, e ci si libera a buon prezzo della logica. Ma il Soggetto di cui parla il Gentile è autocoscienza, cioè oggetto a sé stesso. (Una discussione interessante su un analogo argomento si trova già nel Commentario di Sankara ai Brahmasutras II, 2, 28-32, sebbene esposta in modo al- quanto involuto, come avviene spesso in quei testi, in cui si ha l’im- pressione che dei concetti profondi ci vengano trasmessi da chi non li dominava interamente, ciò che deriva dal carattere anonimo e col- lettivo dell’antica filosofia indiana. Uno degli interlocutori sostiene che il Soggetto della conoscenza è al di là dell’oggetto e però non può venir conosciuto « come il fuoco che non brucia sé stesso » ; mentre l’altro afferma che le cose esteriori si, avrebbero bisogno del Soggetto per essere conosciute, ma il Soggetto è « come la lucerna che illumina le altre cose e insieme sé stessa, poiché il far chiaro appartiene alla sua natura »). 90 51 implica l’esistenza.^ Ora è evidentissimo che se la logica non fosse tutta la filosofìa e se il Pensiero non contenesse in sé tutta la realtà, essenza ed esistenza non coinciderebbero. L’alto valore idealistico dell’argomento ontologico consiste nel- l’affermazione che l’Ente realissimo (cioè la realtà concreta) ci è tutto presente nel nostro pensiero. Per le rappresentazioni che consideriamo contingenti, una cosa è l’essenza (il concetto) e altro la realtà, sicché io posso pensare a un’isola fantastica e non per questo la potrò incontrare nei miei viaggi; ma non posso invece pensare alla mia realtà spirituale se non in quanto la realizzo. Il vero argomento ontologico è il cogito. La coincidenza di pensiero e d’esistenza è la pietra di paragone dei concetti filosofici. Per le rappresentazioni empiriche come l’isola di Gaunilone o i talleri di Kant, altro è il concetto e altro l’esistenza;^ lo stesso per l’idea platonica e per il Dio trascen- dente, o per qualsiasi idea anteriore o esteriore al pensiero no- stro; lo stesso per la storia passata, in quanto passata, o per il pensiero altrui e non mio, e però appunto la filosofia moderna nega che codeste sieno delle realtà concrete. Ugualmente essenza ed esistenza non coincidono per l’intuizione alogica, per la poe- sia in sé, per lo spirito pratico anteriore o posteriore alla teo- ria, e in genere per dei supposti gradi spirituali che non sieno momenti del pensiero nostro, eternamente presente. Per questo, concepiti a quel modo, i concetti distinti non hanno carattere filosofico; ma ora appaiono come contingenti rappresentazioni particolari, ora come inafferrabili supposizioni metafisiche. Come abbiamo detto, la differenza fondamentale fra la nostra concezione e quella del C. è questa: noi consideriamo come unica realtà concreta l’atto del nostro pensiero giudicante, e le cate- gorie o concetti puri come termini necessari del giudizio nostro; il C. invece tende a oggettivare i termini del giudizio e ad at- tribuire loro non so quale realtà ontologica, fuori del pensiero giudicante. Se il Pensiero non fosse tutto il reale, essere e pensiero non coincidereb- bero.. . 1) Saggio su Hegel ecc. p. 7. 91 52 ... e il concetto diventerebbe una accidentale mo- dificazione del reale preesi- stente. Questa tendenza all’ipostasi è notoriamente tenacissima, e il suo procedere è sempre lo Stesso: ciò che è presente creazione nostra, viene posto, quasi temendo l’invidia divina, al di fuori di noi, come una realtà data, che il nostro pensiero si trova di fronte. Ciò avviene negli uomini primitivi che si creano dei fantasmi con l’immaginazione e non riconoscono le loro crea- ture, e le adorano o temono; negli atomisti che pongono come esistenti nella esteriorità dello spazio le loro formazioni concet- tuali; nei platonici che attribuiscono una- esistenza metafìsica alle loro idee; via, via, fìno al Croce, che attribuisce una realtà ontologica al puro intuire o al puro agire e si rifiuterà sempre di ammettere che l’arte possa esistere soltanto là dove effetti- vamente possiamo trovarla, cioè nell’autocoscienza del nostro giudizio. In tutti i casi citati il realismo si difenderà contro l’idea- lismo, protestando che il pensiero giudicante noi lo incontriamo sempre, non già perché sia costitutivo della realtà stessa, ma perché esso rappresenta per accidens una nostra soggettiva ne- cessità di esseri pensanti. Questo strano modo di considerare il pensiero come una disgra- zia e imperfezione umana (per cui l’ideale della sapienza sa- rebbe di raggiungere la realtà incontaminata dal pensiero) sarà comprensibile in un mistico o anche in un materialista, ma non ci saremmo aspettati di trovarla nella filosofìa idealistica di B. Croce. E tuttavia, l’intima e immediata comprensione di quella realtà che è l’opera d’arte, si ha, secondo il Croce, in una intui- zione incontaminata dal pensiero. Il C. dirà che anche per lui il pensiero logico è essenziale e onni- presente, ma che altrettanto essenziali sono l’arte, l’economia e la morale. Come nel pensiero è implicita l’intuizione e le altre determinazioni, cosi anche nell’intuizione è implicito il pensiero e tutto lo spirito; e se è vero che ogni problema fìlosofìco si con- giunge con tutti gli altri, è pur vero che in ogni singola opera d’arte è immanente l’universo intero.^ 1) Storiografia, p. 129. 92 Secondo noi invece, come abbiamo detto sopra, nel pensiero è implicita rintuizione, perché nella sintesi sono impliciti i suoi momenti, mentre neH’intuizione il pensiero non è compreso per- ché la tesi é un momento analitico in cui si astrae dalla sintesi. Il dire che in ogni singola opera d’arte palpita l’universo in- tero, è una espressione alquanto vaga, mentre é evidente la dif- ferenza fra l’universalità e sistematicità di ogni concetto filoso- fico e la particolare individualità propria della singola espres- sione d’arte. Mentre un concetto filosofico acquista il suo signi- ficato soltanto in relazione a tutti gli altri, e il concetto di teoria per es. non significherebbe nulla per chi non avesse presente il concetto di pratica, né si potrebbe comprendere Fichte senza aver compreso Kant, non si vede invece, se non vogliamo accon- tentarci di parole, in che senso sia necessario conoscere un dato sonetto della Vita nuova per intendere poeticamente l’episodio del Conte Ugolino. Un pensatore che abbia già scritto quattro volumi di filosofia, non può scriverne un quinto che non formi un organismo solo e una sola opera filosofica coi precedenti; ma non vediamo come si possa dire altrettanto della poesia. Certo il nostro pensiero unifica tutto ciò che fa suo oggetto, e in quanto parliamo di due opere qualunque, per lontane che sembrino, le poniamo in relazione tra loro; ma — ed è questo il nocciolo della questione — ciò che possiamo trovare di co- mune fra più opere non è, e non può essere, la loro espressione poetica. Non può essere, per la evidente ragione che noi abbia- mo definito come « espressione poetica » ciò che in ciascuna opera v’è di irripetibile e soggettivo. L’opera d’arte appare monadisticamente chiusa in sé, soltanto perché nella considerazione estetica facciamo astrazione dall’elemento universale.^ 1) Per la ragione opposta la matematica, in cui facciamo astrazione dal- Telemento individuale, ci appare strettamente sistematica, e nessuno può trattare un teorema se non ha compreso quelli precedenti, né può inten- dere la geometria di Archimede se non ha inteso quella di Euclide. 93 53 Sistematicità del- Da ciò SÌ vede quanto sia cattivo consiglio portare la storiografia la storiografia deH’arte come esempio da seguire nella storia della filosofia e raadchTdi ^quel- Valori ideali, dove l’universalità è quella che più conta; e la artistica. ben SÌ Comprende come mai il Croce che l’ha dato, sia stato poi il primo a non seguirlo. In conclusione, nella polemica contro il Problema unico vi sono vari motivi che ogni uomo di buon senso può accettare: vi è il bisogno di determinata concretezza e l’insofferenza per le astratte generalità di cui si compiacciono gli spiriti vacui; vi è giustamente combattuta la tendenza hegeliana a costringere la storia entro schemi prestabiliti e a trattare gli uomini vivi come se fossero concetti puri; vi è il disdegno di ogni serio pen- satore contro la sapienza puramente libresca e l’affermazione che il pensiero filosofico, come ogni opera viva, deve sorgere dalla pienezza della vita e non dal rimasticamento dei concetti altrui; e vi è il consiglio e l’ammonimento di badare, senza pe- danterie, al pensiero geniale, dovunque si trovi, e di non dare eccessiva importanza alle parti meramente strutturali dei si- stemi filosofici e delle storie della filosofia, cioè alle parti mec- caniche che hanno più che altro funzione mnemonica e di este- riore collegamento. C’è infine un’altra ragione, ed è quella che ha reso più aspra e insistente la polemica, cioè l’innumerevole diffondersi in que- sti ultimi decenni di certe dottrine attualistiche, in cui si afferma una vuota unità che divora le distinzioni, e si negano con pro- fessionale disinteresse tutti i più vitali problemi critici. Il C. teme (e non pochi esempi sembrano dargli ragione) che affer- mando il problèma unico s’intenda togliere le distinzioni filo- sofiche e gettare tutti i problemi alla rinfusa nel calderone della strega, diffondendo sempre più l’uso di giudicare l’arte in modo intellettualistico, l’economia in modo moralistico, la morale in modo utilitario, la politica e il diritto in modo sentimentale, la storia in modo sociologico e via di questo passo, rendendo vani i progressi secolari del pensiero. Ora noi crediamo d’aver mostrato che si possono e si devono 94 salvare le distinzioni dialettiche senza disconoscere Tassoluta apriorità della sintesi logica, mentre, disconoscendola come fa il nostro autore, si cade in una concezione trascendente che con- traddice al carattere idealistico della sua filosofia. 4. Il primato della storia etico -politica. Come abbiamo visto, alla negazione del Problema unico corrisponde la negazione della storia unica, cioè di una storia generale, che abbia sotto di sé la storia dell’arte, della scienza, dell’economia e della mo- rale. Dice il C.: se ci fosse una si fatta storia, o quella generale o quelle particolari sarebbero vuote. O la storia generale, alla quale nulla resta da fare dopo che le storie particolari hanno fatto tutto; o le storie particolari che troverebbero esaurito il compito da quella generale.^ 54 Noi invece riteniamo che, come è unica la realtà spirituale, cosi L’unica storia è unica la storia. A rigor di termini non esiste una storia arti- deU’un^versale^^^ stica, economica, scientifica ecc. perché arte, economia e scienza sono momenti astratti della realtà, e la storia si fa dei fatti reali e non delle astrazioni. La storia unica è la storia della civiltà, in cui confluiscono tutti i parficolari aspetti della vita. Quelle che si dicono storie particolari sono sempre storie di tutta la ci- viltà, in cui si dà particolare rilievo a un determinato valore: artistico, logico, etico, che si assume come criterio di giudizio. Il C. sembra dire qualche cosa di molto simile quando aiferma che non esiste una storia generale che non si concreti partico- larizzandosi, ma nemmeno una storia particolare che non impli- chi tutte le altre. Pensare un aspetto della realtà è pensare in- sieme tutti gli altri, e non si può ad es. intendere la filosofia di un filosofo senza riferirsi alla sua personalità e alle sue azioni: ^ « una storia della filosofia è perciò tutta la storia (e parimenti una storia della letteratura e di altro qualsiasi aspetto dello spi- 1) Storiografia, p. 105. 2) Storiografia p. 107. 95 rito), non perché annulli in sé le altre, ma perché tutte son pre- senti in quella ».^ La differenza é questa: per il C. in ciascuna storia tutte le altre sono implicite, proprio come, nel suo sistema, in ciascun con- cetto distinto sono impliciti tutti gli altri, cioè come la materia è implicita nella forma,^ e non c’è quindi una gerarchia di va- lori; secondo noi invece questa gerarchia c’è (per cui è possibile fare una storia della matematica che prescinda dalla fisica, ma non viceversa; o una storia dell’economia che prescinda dai fini ideali, mentre non è possibile una storia delle istituzioni morali che prescinda dalla forza e avvedutezza con cui quei fini sono stati realizzati), e c’è infine, al vertice, la storia kot’ è^oxfjv, l’unica storia concreta, la storia della civiltà, in cui le altre non sono soltanto implicite, ma esplicite e costitutive. Altro è il modo con cui le notizie sui problemi filosofici o morali con- fluiscono nella storia dell’arte per illuminare il contenuto di certe opere, e altro quello con cui i valori artistici, scientifici e morali rientrano nel quadro complessivo di una determinata civiltà. Ciò risulta anche dal parlar comune, e quando diciamo « questo è un libro di storia », o quando nei programmi scolastici asse- gniamo tante ore aH’insegnamento della storia, non intendiamo la storia della matematica o della letteratura, bensì quella della vita civile. Come esiste un solo problema concreto, cosi esiste una sola storia concreta, in cui trovano la loro realtà i valori particolari. Che le storie particolari sieno tutte astratte e che l’unica storia concreta sia quella dello spirito tutto spiegato, si vede anche da quella storia che ognuno di noi fa continuamente della sua stessa vita, da quell’esame di coscienza che diventa più esplicito in momenti di maggior raccoglimento, o quando stiamo per pren- dere decisioni di particolare importanza. Storia che non è pura 1) Storiografia, p. 108. 2) Storiografia, pp. 108-109. 96 teoria o pura pratica, ma è, come la vita è sempre, pensiero e azione insieme. Un uomo, ad esempio, che prima di partire per il fronte rime- diti i casi suoi e si accinga a scrivere, come si dice, le sue ultime volontà, potrà si, a seconda degli interessi in lui preminenti o della urgenza delle circostanze, dare maggiore importanza a ciò che riguarda Tamministrazione dei suoi beni, o l’educazione dei figli o la sistemazione di ciò che rimane della sua opera di pensatore o ad altro; ma il quadro che egli si prospetta, la sto- ria che egli narra a sé stesso, non sarà fatta a cassettini, non sarà la giustapposizione di considerazioni economiche, morali e scientifiche, bensì una storia unica, un quadro solo, in cui si fonderanno in unità quelle varie considerazioni e quei vari in- teressi. Se poi, per opportunità pratica, egli riassumerà il risul- tato delle sue meditazioni in iscritti diversi, poniamo al notaio, alia moglie e all’amico, ognuno di quegli scritti non avrà, nel suo pensiero, un significato separato dagli altri, e chi vorrà farsi un’idea concreta dell’anima di quell’uomo, dovrà considerarli come un’espressione sola. Ma poteva veramente il C., teorico del Liberalismo (che è esal- tazione di tutti i valori), negare davvero questa storia univer- sale-concreta, che comprende sotto di sé, come suoi momenti, le storie particolari, questa storia che tanto poco è storia di sin- gole categorie, che anzi ha per suo oggetto la relazione fra le varie categorie? Non poteva. Infatti anche qui, come altre volte nel nostro autore, il senso di concretezza la vinse sulla logica del sistema, ed egli riconobbe che la storia della civiltà sovrasta SU tutte le altre. Abbiamo l’impressione che egli sia stato, in un primo tempo, impedito a veder più chiaramente questo problema dalla sua identificazione della politica con l’economia. Se il valore poli- tico fosse nient’altro che il valore economico, non si compren- derebbe per quale capricciosa usurpazione dell’anima appetiti- va, la storia politica abbia un posto privilegiato e sia general- mente considerata come la storia senz’altro. ‘97 55 Il C. riconosce tli fatto il pri- mato della storia etico-politica. Secondo noi, nel giudicare un uomo politico non ci chiediamo fino a che punto egli abbia provveduto ai suoi interessi, ma con quale energia e avvedutezza egli abbia realizzato i suoi ideali, sia pur sacrificando i suoi comodi e la sua vita stessa. Ancora in « Teoria e storia della storiografia » il C. ripete talora che politica equivale a economia e che economica è la storia delle istituzioni politiche e degli stati. ^ Ma per lo più egli chia- ma ora economico-politica la storia che segue il criterio dell’uti- lità 0 della forza, ed etico-politica quella delle istituzioni civili in senso universale. Ed ecco che ciò gli permette di riconoscere, di fatto se non di diritto, una storia privilegiata su tutte le altre. Ma perché questo privilegio della morale, se il concetto etico non è che uno dei concetti distinti? Risponde il C.: « quando si consideri l’importanza della vita mo- rale, quando si ricordi che — il valore proprio dell’uomo si ri- pone non nella sua valentia artistica o scientifica ecc. ma nel suo carattere morale, si spiega perché quella, che pure é logi- camente una storia tra le storie (particolari), venga sollevata sulle altre ». Risposta che ci sembra una petizione di principio, se ciò che si trattava di spiegare era per l’appunto la ragione per cui il va- lor proprio dell’uomo si riponga nel suo carattere morale, piut- tosto che in altro. Ma in verità la morale di cui qui si tratta non è quella della giustizia 0 della carità, ma è la morale dello Spirito tutto spie- gato. Quella morale che s’identifica con la religione e con la fi- losofia, quella a cui alludeva il ministro Stein nella sua lettera a Kant, quando disse che solo in alcune ore del giorno ciascuno di noi si sente medico, giurista o soldato, ma in tutte dobbiamo sentirci uomini. Dal punto di vista del particolare criterio morale la figura di S. Francesco o quella del principe Kropotkin eccellono su quelle, ad es., di Foscolo o di Bacone, ma da un più alto punto di 1) Storiografia p. 135. 98 ■ / ' vista S. Francesco, Kropotkine, Bacone, Foscolo, sono tutti eroi morali, di quella morale che è la religione della vita, afferma- zione di tutti i valori umani ed eterni.^ Ma se consideriamo questa concreta moralità che santifica tutta la vita, dovremo riconoscere che essa non è un’attività distinta dalle altre, ma un aspetto essenziale di ogni attività spirituale. Questo carattere immanente del valore morale è esplicitamente riconosciuto dal C. Nel capitoletto « L’attività morale » ^ egli si chiede: quale è il fine dell’attività morale? e risponde: promuo- vere la vita in tutte le sue forme. « Ma — aggiunge — la vita promuovono tutte le forme dell’attività spirituale con le opere loro, opere di verità, opere di bellezza, opere della pratica uti- lità. » 56 E che cosa mai aggiunge a queste opere belle, vere e varia- La storia etico- mente utili la moralità? Il C. risponde: non aggiunge nulla. La moralità è la lotta contro il male, che si attua praticamente nelle tutte le sue opere che sono conquista di bellezza, di verità e di utilità. L’at- forme. tività morale per un verso non fa alcuna opera particolare, per un altro le fa essa tutte. Qui, se non ci inganniamo, c’è uno spunto che supera la teoria ^ dei concetti distinti. Prima si diceva: l’attività morale è una delle quattro attività fondamentali, essa è atto pratico, e con ciò si contrappone all’attività teoretica, è volizione dell’univer- sale, e con ciò si contrappone al concetto economico. Ora invece è detto che la moralità è un aspetto necessario, tanto delle atti- vità teoretiche quanto di quelle pratiche. Prima l’attività eco- nomica era caratterizzata come amorale, ora invece è detto che la moralità è un aspetto necessario della stessa azione econo- 1) Bacone, che non fu un modello di rettitudine, esprime e starei per dire confessa l’alto ideale a cui dedicò la sua vita, con queste parole: « si possono distinguere tre modi dell’ambizione umana: nel primo si ricerca il poter proprio, nel secondo si cerca di aumentare il potere della patria, nel terzo si cerca di aumentare il potere e il dominio del- l’uomo nell’universo ». 2) La Storia come pensiero e come azione pp. 42-46. 99 mica, perché chi realizza l’utile, realizza con ciò un valore uni- versale. Ma, fatto questo passo sulla via di una nuova sistemazione di concetti, perché non si potrebbe continuare nella stessa via?' Perché non si potrebbe adottare anche in altri casi questo modo di considerare le categorie come valori immanenti di ogni atto concreto? Esaminiamo il concetto di economicità. Non si deve dire anche qui che ogni attività spirituale, tendendo a realizzare il proprio fine, ha sempre un aspetto economico? Da ciò infatti derivano i giudizi di valore. L’economicità non aggiunge dunque nulla di peculiare: quel medesimo che il poeta sente come brutto e lo scienziato come falso, appare, nel giudizio economico, come di- scordante dal suo fine e perciò inutile e dannoso. Non esiste un’attività economica, per sé stante, ma l’economicità non è al- tro che la Zweckmaessigkeit, la finalità immanente in ogni. atto. ^ A maggior ragione sembra che la stessa cosa si debba dire della logicità; tutta la polemica del C. contro l’antiquata figura del « filosofo » che vivrebbe in un sopra-mondo, esprime appunto l’esigenza di questa concezione immanentistica: la filosofia al- tro non è che la consapevolezza che ognuno di noi ha, e non può non avere, del proprio fare, e in questo senso essa s’iden- tifica con la storia che è critica dell’azione, ed è precisamente «storia contemporanea», vale a dire rifiessione autocritica. La logicità nulla dunque aggiunge dall’esterno al vario operare umano, ma è la. coscienza critica immanente nel fare artistico, economico ed etico. Lo stesso vale infine per l’esteticità. Come abbiamo visto, la bel- 1) Potrebbe sembrare che fra l’economicità immanente in un’opera d’arte o di scienza, e quella esplicita di una impresa industriale, ci sia in sé una diversità essenziale. Nel primo caso - direbbe il C. - il valore eco- nomico è concomitante, mentre nel secondo esso è costitutivo. Ma come abbiamo notato la distinzione non regge a un più attento esame. Non esistono in concreto « imprese pratiche » senza luce di conoscenza, né « opere teoretiche » che sieno venute al mondo senza impegno di volontà. 100 lezza non è altro che la verità stessa, in quanto intuibile: pul- chrum ipsum verum. Non esiste un’attività artistica distinta dalle altre, la poesia della vita non è una decorazione che si ag- giunga per bella figura, ma ogni atto spirituale ha immanente in sé un valore espressivo, cioè estetico. Ora è chiaro che se le cose stessero cosi, e soltanto cosi, si ar- riverebbe a questo assurdo: considerando l’eticità si direbbe che non si tratta di un’attività per sé, ma di un valore che si con- creta nell’arte, nel pensiero e nell’economia; ma considerando poi la logicità risulterebbe che si tratta di un valore che si con- creta nell’arte, nell’economia e nella morale, e via di questo passo. Sicché il circolo dei concetti distinti verrebbe ad assomi- gliare a una compagnia di quattro soci insolvibili di cui ognuno facesse affidamento sulla solvibilità degli altri tre. Anche da ciò segue la necessità che il Pensiero giudicante non sia considerato, par inter pares, come uno dei concetti distinti, ma come l’unica concretezza, di cui le categorie tutte non sono che momenti dialettici. 5. Il dilemma fra il progresso infinito e la fine della Storia. Alla dialettica dei concetti positivi il C. muove un’importante obiezione che abbiamo l’obbligo di esaminare e di risolvere. Egli dice: Se ai concetti particolari vien tolta l’autonomia, e se ciascuno di essi viene concepito come inficiato da un’intima contradizione che spinga il pensiero a passare ad altro concetto, si cade necessariamente o in un progressus ad infinitum o in un progressus ad finitum. Nel primo caso, giunti al concetto che lo Hegel o altri con- siderano come ultimo, per es. a quello dello Spirito Assoluto o della Dialettica, il pensiero dovrebbe continuare il suo processo, opporre a quella tesi una nuova antitesi e risalire a una nuova sintesi, opporre al divenire un non divenire e risolvere la con- tradizione in una forma superiore alla Dialettica, e questa forma superiore in un’altra ancora superiore, e cosi via, senza giungere mai ad alcuna conclusione. Il nostro pensiero perderebbe in 101 57 Come evitare il dilemma. 58 Esempio dal sistema dialet- tico. tal modo ogni valore e la verità /resterebbe eternamente irrag- giungibile. Nemmeno si potrebbe parlare di una progressiva ap- prossimazione al vero, perché non si può essere più o meno vi- cini a ciò che rèsta sempre infinitamente lontano. Nell’altro caso si dovrebbe invece ammettere che il processo dialettico abbia un termine ad quem, dove il processo finisce. L’evoluzione spirituale, partendo ad esempio dalla coscienza sen- sibile, avrebbe raggiunto grado grado una coscienza sempre più alta, fino ad acquistare la piena consapevolezza di sé nello Spi- rito assoluto e nella filosofia hegeliana. Il processo mondiale avrebbe toccato il suo termine nel 1812 quando fu pubblicata la Logica. Ed ora non c’è più nulla da fare: la Storia è finita. Il punto d’arrivo del processo dialettico, lo svolgimento che cessa di svolgersi, vanifica se stesso e la realtà tutta.^ Per non cadere in questo falso dilemma, in cui si sono effettiva- mente dibattuti alcuni seguaci dello hegelismo, convien tener presente: 1. - che la sintesi è anteriore ai suoi momenti analitici. 2. - che il valore positivo dei momenti inferiori è un valore eter- no, costitutivo della sintesi, e appare come errore solo quando, nella sua astrattezza di momento particolare, pretenda di valere come adeguata definizione dell’assoluto. Riesaminando da questo punto di vista il nostro sistema delle categorie,^ avremo: I. La sintesi a priori assoluta: lo Spirito come coscienza del pro- prio processo creativo, che è ciò che diciamo Pensiero concreto o filosofia come storia contemporanea. II. Ove questa attività autocosciente sia analizzata nei suoi mo- menti, otteniamo i concetti distinti dell’Azione o Spirito pratico e della conoscenza o Spirito teoretico. 1) Saggio su Hegel ecc. p. 150. 2) V. lo schema a pag. 78. 102 Se non teniamo presente l’unità originaria da cui li abbiamo ri- cavati, l’uno ci appare come volontà cieca e inconoscibile (per- ché appunto facciamo astrazione dalla conoscenza), l’altro come contemplazione inattiva. È cosi che sorge la prima antitesi fra phaenomena e noumena: l’unità è relazione di soggetto e og- getto, ma nell’antitesi l’un momento appare come un mondo soggettivo privo di oggettività, l’altro come un mondo di cose in sé, impenetrabile. III. Se consideriamo invece i due momenti nel loro valore po- sitivo, l’uno ci appare come idealizzazione del reale, l’altro come realizzazione dell’ideale, e abbiamo i due concetti correlativi della )Conoscenza storica e dell’azione politica (storia come pen- siero, e storia come azione). L’uno implica l’altro; la conoscenza presuppone l’aziohe, e l’azione presuppone la conoscenza. IV. Nel giudizio storico il contenuto sono le rappresentazioni, la forma è il criterio di valore.^ Se facciamo astrazione dalle rappresentazioni, ci resta il concetto puro, cioè il valore senza la cosa valutata: l’idea del Bello senza l’opera bella. L’idea del Giusto senza l’opera giusta. Se invece facciamo astrazione dal concetto ci restano le intui- zioni pure, intuizioni alogiche, perché le abbiamo private della logicità. V. La stessa analisi possiamo compiere del concetto di storia, come azione. Nell’azione etico-politica una volontà individuale, cioè una forza attiva, realizza un ideale universale. Facendo astrazione dal valor ideale, ci resta la volontà puramente indi- viduale, la pura forza economica; se invece si astrae dal mo- mento individuale, resta il vuoto imperativo morale, l’ideale astratto. 1) In realtà i momenti del giudizio storico sono più complessi, ma qui li abbiamo semplificati per tenerci più aderenti ai concetti crociani. La corrispondenza fra lo svolgimento storico e i momenti del Con- cetto è qui meno evidente perchè nel nostro schema abbiamo omesso per brevità vari concetti intermedi. 103 59 Il dilemma sorge dalla contamina- zione storicistica deU’Assoluto. Tale è il processo deduttivo o logico, che parte dal concetto più universale, dalla sintesi a priori, e per via di analisi ottiene i mo- menti che gli sono impliciti. Ma si può procedere in senso inverso, partendo dalla determi- nazione più semplice e più povera, per risalire a quella più complessa. Si partirà in tal caso dall’intuizione a cui si contrappone il pen- siero astratto, e dalla sintesi di questi due momenti si otterrà il concetto della conoscenza storica. Alla storia come giudizio si contrapporrà la storia come azione, per giungere infine alla sintesi di teoria e pratica che costituisce l’autocoscienza. In tal modo ciò che è TipÓTqpov cpuaei cioè il primo logico,. l’au- tocoscienza, appare comeoaiepov upòc; qpdc;, come ultimo della fenomenologia e come mèta da raggiungere; e i momenti ana- litici si configurano come tappe progressive del pensiero, e il processo spirituale come la storia degli errori che lo Spirito ha dovuto superare per raggiungere la sua verità. Da questo punto di vista fenomenologico lo spirito sembra aver percorso una lunga strada dalla ottusità animale alla veggenza estatica dei primitivi, al mitologismo orientale, per poi passare al razionalismo astratto dei greci e al naturalismo del Rinasci- mento e giungere infine, attraverso la filosofia trascendentale e 10 storicismo, all’idealismo assoluto. È facile ora riconoscere che il dilemma fra i due assurdi di una fine della storia o di un progresso all’infinito, sorge da un equi- voco, per cui i momenti della sintesi, che sono posti dal nostro pensiero attuale, sono considerati more histo- rico come esistenti in sé, anteriormente alla sintesi. 11 problema di un superamento storico dell’assoluto non può nascere che dalla falsa prospettiva storicistica, propria di quelle filosofie che tendono a considerare i problemi eterni dello spi- rito come si considerano i fatti che si svolgono nel tempo. Pro- blema falso, perché il Concetto assoluto non è la tappa finale di un viaggio a cui lo spirito, tota die currens pervenit ad ve- sperum, ma è tutta la nostra giornata e tutto il nostro viaggio. 104 O, fuori di metafora, il pensiero è sintesi a priori, e i mo- menti del suo processo sono posti dal pensiero stesso. Da quella stessa prospettiva la storia della filosofia si configura ora come una serie di errori da cui il pensiero nostro si è liberato; ora come una monotona e statica ripetizione di ciò che pensiamo noi. Nel primo caso, cioè quando i momenti astratti vengono considerati solo nel loro aspetto negativo, sorge la domanda: che cosa pensavano allora quegli antichi se la loro filosofia non era che errore, e quale assolutezza può avere il concetto nostro, che fino a ieri non esisteva, che 'era ignoto a tutto il pensiero ante- riore? Nel secondo caso, cioè quando si sostituisce la totalità del processo ai suoi momenti, si ha quella storiografia a rima obbli- gata, alla quale ci hanno abituato certi scolari deH’attualismo, storiografia che scorge per mille visi il suo aspetto stesso, per cui si giunge veramente alla negazione del divenire storico, e non si vede come si possa ancora parlare della spontaneità crea- tiva del nostro pensiero, se ciò che pensiamo noi era già stato detto dai razionalisti e dai naturalisti e da chiunque abbia enun- ciato un concetto. Noi invece riteniamo che i momenti astratti del divenire, che la considerazione storica proietta nel passato, sono come i sin- goli organi emanati dal nostro pensiero presente, i quali per- dono ogni valore e vita fuori dell’organismo, ma che non si pos- sono senz’altro identificare con la totalità dell’organismo stesso. È da notare infine che il C. considera il dilemma fra progressus ad infinitum e progressus ad quem come conseguenza specifica della concezione dialettica dei concetti positivi; mentre esso sor- ge anche del tutto indipendentemente da quella concezione, sempre che il concetto assoluto sia considerato in modo falsa- mente storicistico. Lo storicismo può porre quel dilemma non solo a Hegel ma a qualunque pensatore, dicendo: o il vostro pensiero ha raggiunto la verità assoluta e dopo di voi non ci sarà nulla da fare, oppure esso non ha valore assoluto e dovete ammettere una serie infinita di successivi superamenti, tutti ugualmente lontani dalla verità. 105 60 Errori che deri- vano dalla iden- tificazione adia- lettica di storia e filosofia. 61 Il torto e il di- ritto del panlo- gismo. Dalla identificazione adialettica di storia e filosofia derivano in- fatti due errori o combinazioni «sconcio»: 1. - il filosofismo nella storia, che toglie ai fatti storici ogni svolgimento e li irri- gidisce neireternità del valore (come abbiamo visto or ora nella storiografia che, ritrovando Tatto puro in tutti i pensatori, li identifica tutti fra loro). 2. - il falso storicismo nella filosofia che temporalizza l’assoluto e considera i valori eterni come fatti che devono passare in altro, che sono transeunti come tutti i fatti. Per lo storicismo la realtà è un’evoluzione che va dal più semplice al più complesso e la sintesi è un risultato, un prodotto del tempo, un a posteriori che manca di ogni assolu- tezza. Per tal via certi scolari dell’attualismo, che mal com- prendono la loro dottrina, interpretando Vattualità del pen- siero in senso temporale, si danno a credere che abbia ragione chi parla ultimo, per cui, abbandonata la logica di Aristotile e quella di Hegel, vi sostituiscono la logica delle comari. Non ha senso mettere in paragone, come fa lo storicismo, il pensiero concreto con altri pensieri concreti, perché il Pensiero è uno e immoltiplicabile, e il tempo, come Kant ci ha insegnato, non va concepito ontologicamente, come un binario che si esten- de là nell’infinita pianura anche quando non passa il treno, per- ché esso è nel Pensiero, e non il Pensiero nella caducità tem- porale. Se per panlogismo s’intende la pretesa di giudicare le passioni, le tradizioni, la poesia, l’eroismo e la fede di una civiltà con cri- terio aridamente intellettualistico, non v’è dubbio che esso non solo è un errore, ma uno degli errori più perniciosi e arroganti che possano avvilire lo spirito umano. Contro tale panlogismo la polemica del C. è stata sacrosanta e tutta l’opera sua ha gio- vato e gioverà sempre più agli spiriti liberi che la comprende- ranno. Il panlogismo che noi difendiamo è invece sinonimo di ideali- smo, poiché panlogistico, in questo senso, è di necèssità ogni idealismo che non si fermi a mezza strada. E nella stessa filoso- fia del C. abbiamo trovato la formula più concettosa per tale 106 idealismo, che altro non vuol essere se non una filosofia conce- pita come storia veramente contemporanea. Ma anche qui non convien fermarsi a mezza strada. Il buon senso comune dirà anch’esso che, se narriamo i fatti di Alessan- dro o di Cesare, vuol dire che ce ne interessiamo presentemen- te, e che quei problemi storici dunque ci sono in certo qual modo contemporanei; i problemi, ma naturalmente non i personaggi, ché anzi essi vissero tanti mai secoli prima che noi si nascesse e si vestisse panni. E se qualcuno dicesse che i personaggi sto- rici non esistono assolutamente, se non nel nostro pensiero, gli uomini del senso comune lo chiamerebbero solipsista e pazzo. Noi invece riteniamo che la dottrina della contemporaneità di ogni storia altro non è che il solipsismo della Ragione assoluta, il quale non solo afferma che Timmensità dello spazio è in noi, . e che il Pensiero detta le sue leggi al mondo sidereo, ma anche che il tempo è in noi, e che il mondo morale come quello ma- teriale, le passioni, le tradizioni, le opere di poesia e i fatti sto- rici tutti altrove non esistono che nel nostro Pensiero pensante. 62 Possiamo ora riassumere i risultati di questa prima parte della Ricapitolazione nostra indagine. Abbiamo iniziato lo studio della filosofia del Parte C. dai problemi della Logica e non da quelli dell’Estetica o di altra disciplina particolare, fedeli al principio che il Concetto è il primo assoluto, e che quindi tutti i problemi presuppongono quello logico, mentre esso non presuppone gli altri, ma li con- tiene in sé. Abbiamo visto che gli errori del C., come quelli di ogni vero filosofo, non sono fortuiti ma derivano tutti da un er- rore solo, che è nel nostro caso la concezione adialettica dei con- cetti distinti. I suoi « concetti puri » mancano di universalità, cioè hanno ca- rattere contingente e circoscritto come le classificazioni empi- riche, e mancano insieme di concretezza come i concetti astratti. Ciò deriva dal fatto che le distinzioni sono per lo più concepite ontologicamente come se ci fossero in sé delle opere d’arte, di pensiero ecc. mentre le sole distinzioni legittime sono quelle 107 dialettiche del giudizio nostro: non esiste un’opera d’arte in sé, ma ogni opera si deve dire artistica, concettuale, economica ecc. se come tale la consideriamo. Il carattere ontologico delle distin- zioni crociane ci è risultato anche dalla sua teoria delV errore per cui l’errore teoretico dovrebbe essere in sé atto economico, e il male morale dovrebbe essere in sé un bene economico, mentre, secondo noi, dove il pensiero fallisce, fallisce anche il volere, e il male morale é sempre insieme male economico. A quella teo- ria dell’errore abbiamo perciò contrapposto un’altra diversa, per cui ciò che chiamiamo male o errore è sempre una disgregazione analitica di una più alta unità che vagheggiamo. Per le stesse ragioni abbiamo detto che non esiste in sé un’arte «pura» o una teoria «pura», ma che l’atto intuitivo è privo di logicità solo in quanto, nel considerarlo come « intuizione pura », lo priviamo del suo valore logico. Ugualmente è inade- guata la teoria della unità-distinzione, la quale, ponendo come due fatti in sé diversi il poetare e il concetto del poetare, am- mette una trascendenza dei fatti sui valori e non ci spiega come si possa dire che un fatto esiste, se nessuno lo pensa. Abbiamo dimostrato che l’opposizione (essere-non essere-divenire) e la di- stinzione (teoria-pratica-autocoscienza) sono una stessa e mede- sima relazione; o meglio che i concetti distinti del C. altro non sono che gli opposti, considerati nel loro aspetto positivo, e che i suoi opposti sono gli stessi distinti, considerati nella loro astratta opposizione. Infine abbiamo mostrato che soltanto in un sistema di concetti dialettici è possibile una organica dedu- zione delle categorie, rhentre le distinzioni del C. hanno il ca- rattere approssimativo e arbitrario di una semplice enumera- zione di fatti. Abbiamo esaminata quindi la relazione dialettica fra Filosofia e Storia e quella fra Pensiero e Azione, e abbiamo visto la genesi di tutte le identificazioni adialettiche e le ragioni che hanno portato alla falsa identificazione di filosofia e storia. Con lo stesso diritto e con le stesse ragioni si potrebbe dimostrare l’identità di teoria e pratica che il C. rifiuta. In verità non vi sono due atti diversi, un 108 fare con intenti teorici e uno con intenti pratici, ma vi è un atto solo, teorico e pratico insieme. Però questa unità dialettica di pensiero e azione non significa confusione dei due valori. La relazione fra filosofia e storia appare diversa a seconda che per filosofia s’intenda l’astratta dottrina delle categorie o il Pen- siero assoluto. Nel primo caso si deve dire che l’intuizione con- creta e la categoria astratta sono momenti del giudizio storico, 0 — come dice il C. — che la filosofia è il momento metodologico della storia. Nel secondo, invece, si deve dire che la Storia come conoscenza e la Storia come azione sono momenti del Pensiero concreto cioè della filosofia. La necessità di superare lo storicismo, cioè l’equiparazione della filosofia alla storia, è indicata dalla antinomia della ragione sto- rica: da una parte è vero che le passioni pratiche nuocciono al pensiero, e che la contemplazione teorica nuoce all’azione, che 1 sapienti sono pessimi reggitori della repubblica e i politici pes- simi testimoni di verità; dall’altra è pur vero, secondo la sen- tenza vichiana, che soltanto l’uomo politico che fa la storia può essere capace di intenderla. E ancora: il giudizio storico è ne- cessariamente giudizio critico che discerne il vero dal falso e il bene dal male. Ma d’altra parte: vero e falso, bene e male, per- dono ogni significato per il puro storico, perché la realtà è tutta razionale e il giudizio « codesta azione è malvagia » esprime la nostra volontà che non si agisca *a quel modo, volontà assurda in quanto si rivolge al passato. L’antinomia non si risolve con l’alterno avvicendarsi di una pura teoria e di una pura pratica, ma riconoscendo che il Pensiero concreto, cioè la Filosofia, com- prende in sé tutta la realtà sia teorica che pratica. Nell’ultimo capitolo abbiamo esaminata la polemica del C. con- tro questa concezione della filosofia, contro il Panlogismo e il « Problema Unico ». E abbiamo visto che la negazione del Pro- blema assoluto e la identificazione della filosofia con la storia portano logicamente alla negazione della filosofia, cioè a un nominalismo storicistico che toglierebbe ogni valore alle distinzioni categoriali che il C. difende. E che se la storia Ì09 J della Filosofìa dovesse far suo, come il C. si augura, il procedere rnonadistico della critica estetica, essa si ridurrebbe a una ug- giosa analisi di singoli giudizi e riuscirebbe assai diversa da quella storia di problemi che il nostro autore ci ha dato. Noi invece abbiamo riconosciuto che se l’opera d’arte appare chiusa in sé, ciò si deve unicamente al fatto che la considerazione este- tica si interessa di ciò che in ciascuna opera v’è di soggettivo e fa astrazione da ciò che in essa vi è di universale. Per chiarire in che senso la Logica comprenda in sé tutta la realtà abbiamo contrapposto il nostro sistema dialettico di ca- tegorie al nesso circolare del C. e abbiamo visto che il problema fìlosofìco è unico perché il Pensiero è sintesi a priori. Se cosi non fosse, l’essere e il pensiero non coinciderebbero e il Concetto diventerebbe, come nella antica metafìsica, una modifìcazione accidentale del reale. Ma se unica è la realtà, unica deve essere anche la storia della civiltà tutta, in cui confluiscono, come ele- menti costitutivi, le storie particolari. E il C. stesso, per quanto impedito dalla sua infelice identifìcazione di politica ed- econo- mia, e per quanto in contradizione con la sua teoria storiografìca, riconosce poi di fatto il primato della storia etico-politica, la quale non è, come dovrebbe essere secondo la logica del suo sistema, storia di una delle quattro attività specifìche, ma è la storia dello spirito in tutte le sue forme. Per ultimo abbiamo esaminato l’obiezione mossa dal C. al « Pan- logismo » hegeliano, secondo cui, togliendo l’autonomia ai con- cetti distinti e considerandoli come momenti da superarsi dia- letticamente, si cade o nell’idea assurda di un esaurimento fi- nale del processo storico o in quella di un inconcludente pro- gresso infinito; e abbiamo visto che codesto falso problema non consegue dalla concezione dialettica, bensì dalla concezione sto- ricistica, propria di quelle filosofìe che temporalizzano l’assoluto. Dopo aver in tal modo esaminato e ripensato i problemi della Logica fìlosofìca e della gnoseologia della storia, possiamo fon- datamente passare a considerare i problemi particolari a co- minciare da quelli della estetica. no PARTE SECONDA I PROBLEMI DELL’ESTETICA LA COSCIENZA SENSIBILE E LA CERTEZZA FILOLOGICA COME MOMENTI DELLA SINTESI ARTISTICA 1. Il valore positivo della coscienza sensibile e il suo discono- scimento da parte del Croce. Abbiamo visto che, misconoscendo V il carattere dialettico dei concetti puri, e considerandoli come concetti distinti e autonomi, si cade inevitabilmente o nella .J astratta negazione di valori positivi, o nell’identificazione adia- | lettica di valori diversi. 63 Alla negazione si giunge riconoscendo la contradizione insita in Le astratte ne- i ciascun concetto e concludendo affrettatamente: esso si contra- identi- j rl03710m dice, dunque non ha valore;^ per questa via il C. ha negato il ristiche ’dei mo- derno idealismo 1) Dice Hegel: « Quando in un qualsiasi oggetto o concetto vien mo- **^^*^*^®* strata la contradizione - (e non vi ha nulla in cui non si possa e debba •.] mostrar la contradizione, cioè le determinazioni opposte; l’astrarre del- l’intelletto è il violento afferrarsi ad u n a determinazione, uno sforzo per oscurare ed allontanare la coscienza dell’altra determinazione che jj colà si trova), - quando, dico, una tale contradizione è riconosciuta, si . ;i suol trarne la conclusione: dunque, questo oggetto è niente; come Ze- ‘ d none per primo mostrò del movimento, che esso si contradice e perciò non è; o come gli antichi riconobbero quali determinazioni false le due specie del divenire, il nascere e il morire, con l’espressione che l’Uno, cioè l’assoluto, non nasce e non muore. Questa dialettica si arresta sem- plicemente al lato negativo del risultato; ed astrae da ciò che real- mente si ha innanzi ». (Enciclopedia trad. Croce § 89). J13 ' : 8 valore teoretico della sensazione, della filologia pura, della ma- tematica e della scienza naturale; e per la stessa ragione Tat- tualismo ha la tendenza di negare tutte le categorie. Alle astratte identificazioni si giunge notando che la sintesi im- plica la tesi, e che nella tesi c’è l’esigenza della sintesi; oppure riconoscendo che tesi ed antitesi s’implicano a vicenda. Lo sche- ma raziocinativo è il seguente: nel concetto A c’è sempre an- che il concetto B, e in B c’è sempre A\ non si tratta dunque di due concetti diversi A e B, ma di un concetto solo A B} Per questa ragione il C. ha identificato, come abbiamo visto, la filosofia con la storia; e per la stessa via certi attualisti sono giunti, con un facile giuoco di negazioni e di identificazioni, a quella fastidiosa teologia negativa che ripete, senza spirito, X che lo spirito è tutto. Ora vedremo che da queste stesse ragioni il C. è stato portato o a negare del tutto il valore della conoscenza sensibile, o a identificarlo con altri . valori. L’intuizione, egli dice, è il primo grado dello spirito conosci- tivo, e il concetto è il secondo. Anche per Vico la poesia è anteriore alla scienza ed egli si figurò un’età favolosa in cui l’immaginazione predominava suH’intelletto. Ma, per il Vico, quegli uomini primitivi prima di essere barbari furono selvaggi, . prima di vivere con l’immaginazione vissero col senso: non si esprimevano con parole e canti, ma tremavano di freddo o si stendevano beati al sole. Per il C. la favella dovrebbe essere il primo grado del nostro sviluppo, ma i bambini non parlano appena nati, e tuttavia vi- vono e hanno una loro coscienza, per cui sentono il tepore delle coltri o il sapore del latte. L’arte ci dà delle immagini, che noi giudichiamo col criterio del bello e del brutto; ma che cosa sono i sapori, gli odori, le sensazioni di caldo e di freddo? La considerazione estetica ci dirà se una intonazione di colori o di suoni è armonicamente 1) Cfr. in questo voi. Parte Prima § 28. 114 espressiva, cioè se è stata perfettamente contemplata; ma non ha niente a che fare con l’arte la piacevolezza di una voce di tenore che le platee apprezzano, o lo splendore dei fuochi d’ar- tificio di cui si deliziano i ragazzi. Il piacevole non è il bello, ma che cosa è? Che cosa è quella coscienza sensibile per cui un animale si distingue da un sasso? A queste domande il C. non ha risposto con una teoria orga- nica, ma ci ha dato delle risposte diverse, che possiamo rag- gruppare come segue: 1) Le sensazioni non sono, niente di reale, e non fanno parte della nostra vita spirituale. 2) Le sensazioni si identificano con le intuizioni. 3) Le sensazioni si identificano con le percezioni, cioè con il giudizio percettivo o storico. 4) Le sensazioni non hanno alcun valore conoscitivo. La negazione ma sono atti pratici e più precisamente economici. Vediamo di esaminarle brevemente: crociana della coscienza sensi- bile. 1. - Dice il C.: «La sensazione è la materia informe che lo spirito non può mai afferrare in sé stessa, e che possiede sol- tanto con la forma e nella forma, ma di cui postula il concetto come appunto di un limite ».^ « Impressioni, sensazioni, senti- menti, impulsi, emozioni, o come altro si chiami ciò che è an- cora di qua dello spirito, non assimilato dall’uomo, postulato per comodo di esposizione, ma effettivamente inesistente, se resistere è anch’esso un fatto dello spirito ».^ Altrove egli dirà che il concetto di sensazione non ha filosofi- camente alcuna verità, ed è soltanto una classificazione della psicologia empirica, un concetto irreale che esiste soltanto per- ché l’arbitrio della considerazione naturalistica l’ha creato.^ Se non ci fosse nel nostro autore che questa definizione, o se nelle altre non troveremo più che in questa riconosciuti i diritti della 1) Est\ p. 8. 2) Ibid. p. 14. 3) Problemi d’Estetica p. 482. 115 coscienza sensibile, dovremo dire che, per questo rispetto, la Filosofia dello spirito rappresenta un assoluto platonismo. È interessante vedere per quale ragionamento si arrivi a co- desta astratta negazione. Il ragionamento è questo: se la sensa- zione fosse qualche cosa di reale, dovremmo incontrarla nel- l’attualità della nostra vita spirituale; ma ciò è impossibile. Se voi assaporate l’aroma d’un frutto, e dite: questo sapore che io ora sento è una sensazione, il filosofo vi risponderà: se ne par- late, vuol dire che state ascoltando quello che sentite e ve lo rappresentate in qualche modo. Ma una sensazione, in quanto tale, dovrebbe essere qualche cosa che la vostra carne sente, ma di cui il vostro spirito non ha alcuna espressione, qualche cosa di non contemplato e di muto. Ciò che lo spirito non pos- siede, non può essere reale; ogni volta che voi dite: « questa è una sensazione», vuol dire che ne avete l’immagine davanti alla mente, e si deve dunque dire che la vera realtà è l’imma- gine, cioè la forma, e che la sensazione non è altro che il con- tenuto inscindibile dalla forma, e che in sé stessa, fuori del- l’immagine, non è niente. Questo ragionamento ci sembra giusto in un senso, ma erroneo, e fonte di molti errori, in un altro: giusto, in quanto si affermi che niente può essere reale fuori della coscienza, falso in quanto si creda di poter negare perciò ogni realtà alla sensazione o ad altra categoria, come momento necessario del processo spi- rituale. Abbiamo visto sopra come questo stesso ragionamento si possa e si debba fare anche rispetto all’intuizione artistica.^ Infatti, nella realtà concreta, come non s’incontra una pura sensazione, cosi non incontriamo mai una intuizione pura. Non vi sono, nella realtà, espressioni puramente semantiche, non v’è mai un puro soggetto senza predicato. Ogni volta che affermate: que- sti versi, questo- quadro, questa musica sono intuizioni pure, sarete sempre voi, spirito pensante e giudicante, che farete 1) Parte I, pagg. 87-88. 116 queU’affermazione. Se è vero che la sensazione non è reale che come contenuto dell’intuizione, altrettanto è vero che l’intui- zione non ha realtà che come contenuto del pensiero. Non si vede perché si debbano adoprare, come si dice, due pesi e due misure, perché le ragioni che valgono a negare la sensi- bilità non dovrebbero valere più quando portano a negare l’in- tuizione. Il ragionamento su riferito ha indotto gli attualisti a negare tutte le distinzioni concettuali, ma il C., che ha giusta- mente combattuto quelle loro astratte negazioni, si serve qui dello stesso ragionamento per negare la coscienza sensibile, e se ne servirà altrove per negare il valore teorico della mate- matica e della scienza naturale. Non basta, come abbiamo detto, rilevare l’aspetto dialettico di una determinazione per negarne il valore positivo. Il poeta — dice il C. — se anche non ha la coscienza riflessa e concettuale della sua immagine, ne ha tuttavia .la chiara e limpida co- scienza intuitiva. Ugualmente si deve dire: chi si abbandoni interamente alla voluttà del suo sentire, e non abbia nessuna voglia di farsi, in quel momento, contemplatore e poeta di ciò che sente, se non avrà ancora una coscienza poetica, avrà tut- tavia piena e intensa la coscienza sensibile: difatti a un sasso, che si definisce come privo di coscienza, non si attribuiscono immagini ma nemmeno sensazioni. Ciò non significa che vi sieno' in sé delle sensazioni non contemplate, né delle intuizioni alogiche, ma soltanto che vi sono dei momenti spirituali che a noi importano più particolarmente per il loro valore intuitivo o per quello sensibile. Quello che intanto va messo in chiaro è che il sentire è una categoria necessaria e distinta da tutte quelle ammesse dal C., distinta, non fuori, ma entro il pensiero, poiché altro modo di distinzione, oltre a questo immanente al processo del Pensiero concreto, non sapremmo concepire. 2. - Avendo negata la sensazione in sé stessa, perché quando se ne ha coscienza non è più sensazione, il C. ha dovuto arri- 65 Le stesse ragioni dovrebbero por- tare alla nega- zione dell’intui- zione. 117 f 66 L’identificazione del sentire con l’intuire. vare alla conclusione che il sentire, in ciò che ha di positivo, equivale alFintuire. Le sensazioni saranno immagini estetiche più brevi e meno importanti, ma non sono altro. Questa definizione la troviamo ad esempio nel cap. 3 dei Pro- blemi di Estetica. Un critico aveva posto questo dilemma: « o tutte le qualità psichiche che ci si rivelano con immediatezza sono prodotto di intuizione estetica, e allora le sensazioni, le emozioni ecc. sono fatti artistici, il che contradice alla nostra esperienza estetica; oppure ci sono alcune, cioè le sensazioni, emozioni ecc., che si debbono escludere, e allora vuol dire che può esistere una conoscenza deH’individuale senza l’intuizione estetica ». Il C. risponde accettando la prima parte del dilemma, e, dati alcuni chiarimenti, soggiunge: « La sensazione, depurata dagli elementi intellettivi e pratici, la sensazione pura, davvero pura, costituisce fatto estetico: per- ché, in questo caso, funziona da sinonimo d’intuizione » (1. c. p. 482). « Innanzi a una qualsiasi sensazione, se non mi abbandono alle attrattive e ripugnanze dell’impulso e del sentimento, se non mi lascio distrarre da riflessioni e sillogismi, sono in quella dispo- sizione medesima, per la quale godo ciò che si suole chiamare opera d’arte ». « Artisti in senso eminente sono coloro che hanno il potere di persistere più a lungo degli altri uomini nel momento della pura sensazione o intuizione, e di aiutare gli altri a persistervi ». (ihid. p. 484). Qui sembrerebbe che fra il sentire sulla pelle il fresco del- l’aria mattutina e un verso che canti quella freschezza, la dif- ferenza non sia che di grado. Ma ognuno vede che una « pic- cola sensazione » aumentata, diventerà una sensazione più in- tensa, ma non diventerà perciò una immagine. Sappiamo bene che il C. è contrario a ogni concezione edoni- stica e sensuale dell’arte, e se i nostri critici cadono ora più raramente nelle solite confusioni fra il bello e il piacevole, lo 118 si deve indubbiamente all’opera sua. Ma il fatto è che il di- sconoscimento della coscienza sensibile come momento spiri- tuale distinto può portare a confondere la sensazione e l’intui- zione. In fatti il sentire è un conoscere individuale, concreto e privo (o meglio privato) di determinazioni logiche, e, se si omette una più precisa specificazione, rientra nella definizione che il C. dà della conoscenza intuitiva. Ma — si dirà — o s’intende per sensazione l’atto mentale per cui si giudica che lo zucchero è dolce e l’assenzio è amaro, e allora il sentire non è altro che il percepire: enunciazione di un giudizio individuale; oppure s’intende con quella parola il sentimento di piacere o di dispiacere, per cui una data impres- sione sembra desiderabile e un’altra no, e allora la sensazione non appartiene allo spirito teoretico ma a quello pratico. Queste appunto sono le due altre definizioni che dobbiamo esa- minare. 67 3. - Vediamo intanto se la sensazione si possa identificare con Sensazione e per- la percezione. Per percezione intendiamo la semplice consta- tazione di un fatto, e il giudizio percettivo è quello che si giu- dica secondo il criterio della certezza. Esso può essere esatto o inesatto, mentre la sensazione ci dà, se mai, il criterio della salute o della malattia, cioè di ciò che ci riesce fisicamente piacevole o doloroso. Se leggendo un manoscritto prendiamo una m per una n, ciò che va soggetto a critica non è il nostro sentire, ma il nostro percepire. Secondo noi le due determina- zioni non solo sono diverse, ma anzi opposte. La sensazione è apprensione individuale e immediata, e nessuno al mondo può dimostrarmi che io non sento quello che sento. La percezione invece ha carattere di universalità ed è sottoposta a un criterio oggettivo. Vedremo più in là che il C. ha disconosciuto il ca- rattere peculiare della percezione e l’ha identificata col giu- dizio storico. Per lo più il C. distingue fra sentire e percepire, ma v’è qual- che passo in cui egli chiama percezione ciò che appartiene in- 119 68 La sensazione è atto pratico? vece alla coscienza sensibile; cosi nella Logica egli dice che a torto certi filosofi empiristi e sensualisti hanno posto la perce- zione, come mera sensibilità, al cominciamento della vita co- noscitiva, e da essa hanno fatto sorgere per ulteriore elabora- zione i concetti.^ Ma ciò che quei filosofi hanno posto come primo grado del conoscere non è già il giudizio storico, ma la sensazione, per cui noi sentiamo il dolce e l’amaro, i colori e i suoni; la sensazione, che per un atto di contemplazione di- venta poi immagine, come Timmagine a sua volta, quando è oggettivata, diventa un concetto dell’esperienza (tanto è vero che se uno non ha mai provato una data sensazione, non potrà farsene né un’immagine, né un concetto). Fra quei filosofi c’è pure il non sensualista e non empirista Hegel, e il C. osserva che quando il filosofo nella Fenomenologia prende le mosse dalla certezza sensibile, e la considera come la forma più sem- plice di tutte, egli si trova già a tal punto che l’arte gli sta die- tro le spalle.^ Il C. non avrebbe detto ciò se non avesse identifi- cato la sensibilità col giudizio storico, il quale senza dubbio è un momento posteriore, mentre la sensibilità è un momento inferiore all’arte. Procureremo più oltre di chiarire la rela- zione fra sensazione, giudizio percettivo e giudizio storico, e ci basti qui aver ricordato che il sentire, che ci strappa un grido di gioia o di dolore, è qualche cosa di ben distinto dal perce- pire che ci dà la fredda affermazione di una verità di fatto. 4. - Ora siamo giunti a quella che più propriamente si può chiamare la teoria crociana intorno alla sensazione, teoria la quale afferma che il sentire è atto volitivo e non teoretico. La teoria economica della sensazione si ritrova in tutte le opere del Croce e però possiamo risparmiarci le citazioni. Anche nei punti che abbiamo riportati, il C. tiene sempre presente che la sensazione, considerata come piacevole o spiacevole, si ri- 1) Logica p. 109. 2) Ciò che è vivo e ciò che è morto ecc. p. 117. 120 ferisce alla volontà e non ha mancato di accennarlo in qual- che inciso. Ci si potrebbe dunque dire: dagli esempi che avete portato si vede che intendete per sensazione ciò che ci dà il criterio del piacere e del dolore; ora questo sentimento dipende evidente- mente dal volere. Una sensazione viene chiamata piacevole, quando la si appetisce, e spiacevole quando ripugna. Prendete uno qualunque degli esempi citati, il dolce, l’amaro, il caldo o il freddo, e vedrete che ciò che si giudica piacevole o spiacevole viene sempre considerato come oggetto di volontà; tant’è vero che nessuna sensazione è in sé piacevole, ma è tale per voi in quel dato momento, se la vostra volontà la appetisce. Perché lo stesso cibo e la stessa frescura dell’aria vi alletta in un dato momento e vi ripugna in un altro? Solo per questo: perché la vostra volontà muta e trovandovi in una situazione diversa, non volete più quello che volevate prima. Le sensazioni dun- que. quando questa parola non sia adoperata come sinonimo di immagine o di percezione, appartengono alla vita vissuta e non contemplata, e sono nient’altro che impulsi, tendenze, ap- petizioni, o come altrimenti si vogliano chiamare le nostre vo- lizioni individuali che cercano il loro appagamento. Sembrerebbe da ciò che non si pòssa davvero chiamare plato- nica e astratta questa teoria del Croce, e tanto meno da chi, come noi, riconosce che l’avere vigorosamente affermato il con- cetto della volontà individuale ed economica, è uno dei grandi meriti filosofici del nostro autore. Questo concetto della volontà economica (che però noi non possiamo considerare come auto- nomo, poiché l’autonomia non spetta che allo Spirito tutto spie- gato; né come semplicemente distinto dalla coscienza teoretica, poiché infatti lo comprendiamo) giova a farci intendere come un’azione si possa giudicare da un punto di vista diverso da quello della pura legge morale; e conferisce insieme concre- tezza all’idea stessa della moralità. Ma le verità che scopriamo sono di lor natura invadenti, e avviene spesso che la scoperta di un concetto porti non soltanto a nuove verità, ma anche a 121 nuovi errori. Ed errori a noi sembrano le applicazioni che il C. 69 fa del concetto economico o genericamente pratico in troppi L'ignava ratio Campi dello Scibile.' nella gnoseologia della matematica, delle delle spiegazioni scienze naturali e dell’erudizione filologica; nella dottrina della ™ ^ ’ sensazione e in quella del diritto. I filosofi d’una volta ricorre- vano volentieri al concetto di Dio, come a un comodo espe- diente per risolvere le difficoltà che non sapevano spiegare ra- zionalmente; un privilegio simile è riservato dal C. al concetto economico. Per ciò che riguarda la sensazione, non abbiamo nulla a ridire se il sentimento di piacere o di dolore che proviene dalla sen- sazione venga considerato come un predicato economico. Ma in tal modo si definisce la sensazione in generale come una delle attività spirituali, ma non si dice niente di ciò che essa è nella sua (peculiarità. È vero: la sensazione piace quando la nostra volontà di sentire vi si appaga, ma anche un’opera d’arte piace in quanto sod- disfa la nostra volontà di intuire. La finalità è intrinseca al- . l’opera d’arte, la quale non può avere niènte d’arbitrario o for- tuito, ma si potrà dire per questo che la bellezza artistica e l’utilità economica sono la stessa cosa? La finalità è carattere generale di ogni attività dello spirito e il C. ha riconosciuto che la soddisfazione che si prova per un’opera d’arte, per una scoperta scientifica, per un dovere compiuto, dipende appunto da ciò che la nostra volontà rag- giunge in tali casi lo scopo che si è proposto, ma egli si è ben guardato dall’identificare perciò il bello, il vero e il buono con l’utile. Egli dice invece: l’attività volitiva accompagna di necessità tutte le altre forme dell’attività spirituale, e ciascuna di esse ha come concomitanti le volizioni individuali e i piaceri e i dolori che dalla volontà dipendono. « Soltanto non bisogna confon- dere ciò che è concomitante col fatto principale, e disconoscere questo per quello. La scoperta della verità o la soddisfazione di un dovere morale compiuto, produce in noi una gioia che 122 fa vibrare tutto il nostro essere, il quale, col raggiungere il risultato di quelle forme d’attività spirituale, raggiunge in- sieme ciò a cui praticamente tendeva in quel movimento come a suo fine. Tuttavia, la soddisfazione economica o edonistica, la soddisfazione etica, la soddisfazione estetica, la soddisfazione intellettuale, restano, pur in quella loro unione, sempre di- stinte ».^ La stessa cosa si può e si deve dire per la sensazione. Il pia- cere della sensazione si riferisce si al volere, ma appunto al voler sentire. Il valore della sensazione è toto coelo diverso dal valore economico. Il C. infatti, quando ci ha parlato del con- cetto economico ha tratto i suoi esempi, com’era naturale, dagli uomini dei commerci e delle industrie, dai grandi capitani e dai reggitori di popoli, cioè da coloro che sanno fortemente e coerentemente volere. E si può mai dire che per sentire il fresco dell’aria e il sapore d’un cibo occorre una volontà particolar- mente agguerrita? Non si tratta qui evidentemente di una differenza quantitativa; una differenza di quantità c’è ad esempio fra il battito d’un orologio e la detonazione di un cannone, o fra colui che ha una fine sensibilità d’orecchio e chi l’ha ottusa, ma fra una sod- disfazione sensuale e quella di vincere una battaglia, (o un’altra qualunque soddisfazione economico-politica) la differenza è qualitativa. È comprensibile che si possa confondere la sensazione con l’in- tuizione o con la percezione, perché queste tre determinazioni hanno più di una nota in comune: si riferiscono tutte al cono- scere, e a un conoscere di carattere individuale, e si possono considerare come momenti anteriori alla logicità (diremo più in là del carattere pre-logico della percezione); mentre la sen- sualità, beata del suo sentire, e la volontà economica che si af- ferma nella lotta, non hanno proprio niente di comune, tranne, s’intende, il carattere generico di determinazioni spirituali. - 70 L’ economicità non è carattere peculiare del sentire. 1) Estetica^ p. 87. 123 71 La sensazione non è il senti- mento. Vi sono però due ragioni che possono indurre a questa falsa identificazione. L’ una consiste nell’ uso linguistico per cui, quando si parla di piacere o dolore senz’altra specificazione, s’intende di solito il piacere e dolore « fisico », cioè quello dei sensi. Ora poiché i termini piacere e dolore si riferiscono alla volontà (a ciò che si appetisce o non si appetisce) si è potuto credere che la sensazione non abbia niente di specifico, ma si identifichi col piacere genericamente inteso. Ma quell’uso lin- guistico dipende soltanto dal fatto che gli uomini in genere, attaccati come sono alla loro vita animale, hanno maggiore fa- miliarità coi piaceri del senso che non con quelli estetici e in- tellettuali. L’altra ragione consiste nella facilità di confondere la sensa- zione col sentimento, o affetto. Anche qui l’uso linguistico è ambiguo; noi diciamo: -« sentire un odore o un sapore», ma anche: «sentire amore, odio, invidia, paura, ammirazione, di- sprezzo ecc. ». Nel primo caso si tratta di sensazioni, nel se- condo di sentimenti. Ora i sentimenti si riferiscono certamente a un moto volitivo, mentre le sensazioni indicano un elemento conoscitivo, anzi sono il fondamento e il punto di partenza di ogni conoscere. Come le sensazioni sono un momento inferiore all’intuizione, cosi i sentimenti sono un momento inferiore alla volontà economica. Per questo c’è un’affinità di grado fra le due determinazioni, e talora lo stesso stato d’animo che dal punto di vista della conoscenza viene caratterizzato come co- scienza sensibile, dal punto di vista pratico può apparire come sentimento o impulso volitivo. La verità di una dottrina gnoseologica viene provata, come il C. ci ha insegnato, dal criterio che ne otteniamo per giudicare la realtà. Ora il concetto economico ci dà un criterio adeguato per giudicare un uomo energico o fiacco, uno che compie un’azione utile con volontà costante e avveduta, ma non ci dà nessun criterio per giudicare ciò che sentiamo coi sensi. Per parte nostra potremmo giudicare praticamente inetto e spre- gevole un uomo che voglia e disvoglia e non sappia trovare la 124 forza di attenersi decisamente al suo proposito, ma non ci sen- tiamo di giudicare con questo criterio un povero malato, sol- tanto perché è travagliato da dolori fìsici. Se le sensazioni fos- sero azioni economiche, bisognerebbe ammirare, come esempi di energica volontà, non gli uomini della politica e del lavoro, bensì i primitivi, anzi gli animali, i quali ci appaiono dotati di sensi più acuti e robusti’ dei nostri.^ Si noti poi che, secondo il C., un necessario e immediato pre- cedente del momento economico è la conoscenza storica: per agire utilmente bisogna conoscere e giudicare la situazione in cui ci troviamo. La stessa cosa si dovrebbe dire del sentire, se esso fosse essenzialmente un atto economico, ma non vediamo quali giudizi storici e fìlosofìci sieno particolarmente richiesti per sentire un sapore o un odore. Il bimbo in fasce che pur sente l’amaro e il dolce, il caldo e il freddo, e gli animali in cui predomina la vita dei sensi, non sembrano invece i più ca- paci a gestire delle imprese economiche o a prospettare quella valutazione storica che l’azione richiede. Poiché dunque né l’identifìcazione con l’immagine artistica o con la percezione storica, né la riduzione a concetto economico definiscono ciò che vi è di proprio e peculiare nella coscienza sensibile, dobbiamo concludere che questa determinazione non trova alcun luogo fra i concetti fìlosofìci ammessi dal Croce e viene semplicemente negata. Nel mondo platonico della Filo- sofia dello Spirito, non c’è posto per la sensazione e ogni gio- condità sensuale ci è 'tolta; non ci sono banchetti, ma in com- penso non ci sono nemmeno ospedali, o, se ci sono, gli strazi dei ferri chirurgici provocano nel paziente tutt’al più un giudizio di disapprovazione estetica o di inesattezza storica. La negazione coerente della coscienza sensibile darebbe a tutta la vita .spirituale un carattere non realistico, sbiadito e anti- quato, ed è un segno della superficialità della nostra critica fìlo- 1) Dall’avere identificata la sensualità e la sentimentalità con l’azione economica, ne deriva tra altro questa curiosa conseguenza: che il C. parla alle volte del carattere prevalentemente pratico della donna. 125 sofica se questa evidente deficienza della sistemazione crociana non fu messa in alcun rilievo. Il solo che vi ha reagito è stato il C. stesso, il quale lo ha fatto neH’unico modo che, date le sue premesse, gli era possibile, cioè dando il massimo rilievo alla coscienza intuitiva e a quella economica, vale a dire alle deter- minazioni in cui la sensibilità è in qualche modo riconosciuta di fatto. 2. La contradizione della coscienza sensibile e V ajferma- zione della memoria pura. Senza le impressioni dei sensi le rappresentazioni e i concetti perderebbero il loro fondamento qualitativo. Voi tenete gli occhi chiusi e non sapete che colore e che forma abbia una figura che vi passa davanti, li aprite e impressione del senso vi dà la base del vostro giudizio per- cettivo. Come fu riconosciuto fin dall’antichità, la sensazione è, fenomenologicamente, la prima e più semplice determinazione 72 dello spirito teoretico. Carattere teore- Nel sentire. Considerato in sé, non si contempla e non si para- nco della sensa- gQj^^. quello che SÌ conosce è qualche cosa di immediato e pun- tuale. Questa semplicità e assoluta immediatezza è stata affer- mata da Aristotile quando disse che il sentire dei sensibili pro- pri è sempre vero; perché, egli spiega, l’errore non può nascere che in ciò che è composto, e nella sensazione c’è un solo ele- mento e non un rapporto fra elementi diversi. Se io sento amaro bevendo il vino dolce, non è un errore la mia sensazione: io sento veramente amaro. Potrebbe sembrare che le impressioni visive e uditive non sieno pure sensazioni come lo sono quelle del tatto e del gusto, ed è stata questa apparente diversità che ha dato origine alla teo- ria empirica dei sensi estetici. Ma nessuna sensazione è mai « pura » se non in quanto si astrae dall’atto contemplativo che necessariamente l’accompagna. Nelle sensazioni più grevi e corpose è soltanto più facile distinguere il giudizio che si rife- risce al sentire come tale, da quello che si riferisce all’atto contemplativo, e perciò abbiamo scelto finora prevalentemente I 126 fra queste i nostri esempi. Ma la distinzione è sempre possibile: altra cosa è l’impressione sgargiante che riceviamo dai vestiti chiassosi di una danzatrice, e altra la contemplazione pittorica di quei colori. In generale non si può limitare la sensibilità a ciò che la coscienza apprende mediante i cosidetti cinque sensi, empiricamente circoscritti; ma appartiene a questa cate- goria tutto ciò che si avverte immediatamente, non solo quelle che furono dette le impressioni dei sensi esterni, ma anche le impressioni del « senso interno », come gli stati d’animo e i sentimenti, in quanto immediatamente avvertiti. 73 Le impressioni sensibili, considerate in sé, sono pura intensità Definizione del senza estensione. Questo che è il loro carattere peculiare è espresso con molta evidenza da Kant quando osserva che le sensazioni non sono grandezze estensive ma puramente inten- sive, e aggiunge: « Vapprensione sensibile, quando si prescinda dalla successione di molte sensazioni, non occupa che un at- timo ».^ Infatti, per conoscere un lavoro scientifico o un’opera d’arte, noi impieghiamo un certo tempo, apprendiamo prima un parti- colare e dopo un altro, e in certo senso possiamo dire: « que- st’opera io non la conosco ancora tutta, ma solo in parte, e mi riservo di darne un giudizio quando la conoscerò meglio ». Ma nessuno direbbe: non so ancora se questo liquore sia dolce o amaro perché non ne ho bevuto che mezza bottiglia. La sensazione è tutta immediatamente presente, oppure non è. Perciò quello scettico greco disse: quando sento caldo o freddo io non dubito di sentire quello che sento. Egli non dubitava di ciò che è immediato ma di ciò che è universale; egli non ne- gava la sua animalità, ma non si capacitava di essere anche uomo. Però, ammessa che sia la sensazione, si può e si deve mostrare la impossibilità di fermarsi a quella determinazione e la necessità di risalire ai momenti superiori. Senza le impressioni del senso non v’è conoscenza. La statua di 1) Kritik d. r. V. ed. Rosenkranz p. 146. 127 Condillac, privata di ogni sensibilità, non può essere che un sasso. È un errore di Kant l’aver disconosciuto la spontaneità del sentire. Bisogna domandarsi non soltanto: come sono pos- sibili giudizi sintetici a priori, ma anche come sieno possibili i giudizi a posteriori. E non solo nel senso notato dal Rosmini (come le sensazioni diventino concetti), ma semplicemente: che cosa è il sentire? Quella spontaneità spirituale affermata da Kant come condizione del giudizio, è già richiesta dalla sensa- zione, la quale non è mera ricettività, ma è produttiva né più né meno delle altre « categorie formanti ». Per Kant le impressioni sensibili sono la materia o il conte- nuto dei fenomeni, materia che non sarebbe un prodotto della spontaneità spirituale, ma che verrebbe accolta dalla ragione come qualche cosa di dato. È questa una delle prime oscurità che colpiscono nella filosofia kantiana, oscurità che è stata causa di equivoci e contradizioni e ha prodotto l’idea della cosa in sé inconoscibile. L’oscurità non si toglie se non riconoscendo nella sensibilità una categoria necessaria come tutte le altre. È stato discusso dai commentatori se si debba dire che, secondo Kant, le sensazioni derivano dall’esperienza o viceversa che l’esperienza deriva dalle sensazioni.^ Secondo noi si deve dire si l’una cosa che l’altra: l’esperienza deriva dalle sensazioni, nel senso che il concetto empirico è un momento superiore che implica la sensazione e appare quindi, fenomenologicamente, come un suo ulteriore sviluppo. Le sensazioni derivano dal- l’esperienza, in quanto il pensiero è sintesi a priori e la sen- sazione è un momento analitico che non ha realtà fuori della sintesi concettuale. ' 3. U antitesi della sensazione : la memoria pura. La sensa- zione è l’assoluta soggettività della coscienza. Io posso pensare il vostro pensiero, ma non posso sentire la vostra sensazione. Il piacere e il dolore fisico altrui ce lo possiamo figurare, ma non 1) Cfr. Kuno Fischer - Kant pp. 523-25. 128 lo possiamo sentire; ognuno sente il suo proprio mal di denti. Gli esseri senzienti, in quanto puramente senzienti, sono mo- nadisticamente chiusi nella loro soggettività e impenetrabili. Io non ho alcun fondamento per ritenere che il colore rosso che vedete voi guardando un dato fiore, sia la stessa sensazione che sento io. Non so nemmeno se il rosso che sento ora sia la stessa impressione che sentivo ieri; non lo so, eppure lo devo sapere, perché riconosco quel colore; e se non riconoscessi le mie sensazioni, tutta la mia ulteriore vita spirituale sarebbe impos- sibile. Alla soggettività della sensazione la memoria contrap- pone l’oggettività della percezione, e senza tale oggettività la sensazione stessa non sussisterebbe. 74 La sensazione dovrebbe essere Timmediatamente presente, pura Deduzione della intensità senza estensione, dovrebbe essere la massima concre- tezza ed è invece un punto astratto. E come il punto geome- trico non esiste che in quanto non corrisponde alla sua defini- zione (ché, se vi corrispondesse, non dovrebbe occupare spazio alcuno), cosi la pura intensità della sensazione non può esi- stere senza quella estensione che è il suo opposto. La memoria è pura continuità, l’estensione pura, la forma vuota in sé che accoglie l’atomicità delle sensazioni. Noi non possiamo mai dire: questo, per esempio questo sapore che stiamo sentendo, è una sensazione; non possiamo afferrare ciò che sentiamo come sensazione, ma solo come ricordo di un sentito. Figuratevi uno spirito interamente smemoriato, e avrete un’as- soluta disgregazione di tanti singoli momenti estranei l’uno al- l’altro. O meglio: non avrete niente. Perché quella molteplicità atomica priva di continuità non può essere né percepita né sen- tita. Questa è la contradizione del sentire puro. Di solito la memoria viene definita come la facoltà di ripro- durre le rappresentazioni. Questa definizione si presta all’equi- voco, perché può far credere che la funzione della memoria sia soltanto di conservare qualche cosa che c’è già, e che vi pos- sano essere rappresentazioni senza il concorso dell’atto memo- 129 9 75 La memoria tra- sforma le sensa- zioni in imma- gini. rativo. Si deve invece affermare che essa è un’attività formante, la cui funzione non è soltanto di retinere ma anche di apprehen- dere, cioè di accogliere le sensazioni e di trasformarle in im- magini. Senza la memoria — ocoiripia aiahfjaEcoc; — non vi può essere alcuna rappresentazióne. Il C. ha avuto il merito di insistere nella sua Estetica sulla differenza fra sensazione e immagine artistica; ma, dato il di- sconoscimento della coscienza sensibile e della memoria pura, cioè dei momenti costitutivi deH’immagine estetica, la diffe- renza non poteva che riuscire oscura. La distinzione è energi- camente affermata, ma non spiegata, e il passaggio fra sensa- zione e intuizione ha qualche cosa di misterioso, cioè non giunge a chiarezza intellettuale. La differenza non è che questa: la sensazione, nel suo essere per sé, è considerata come priva di memoria, e Timmagine non è altro che la sensazione accolta nell’idealità del ricordo. Voi fate una passeggiata e subite quasi animalmente il vento e il sole, i rumori e gli odori della campagna; che differenza c’è fra codeste impressioni dei vostri sensi e l’immagine che ne avete quando contemplate le vostre impressioni? Voi sentite un malessere fisico, e, come si fa alle volte quasi per superare il disagio, vi sforzate di ascoltare quello che sentite, di contemplare l’intonazione particolare della vostra sofferenza; quale è la diversità fra la sensazione in sé e l’immagine che ve ne fate? La differenza è fra il sentire e revocazione che ne fa la memoria, fra il dolore e il ricordo del dolore. L’atto della memoria ci solleva e mette una distanza ideale fra noi e ciò che sentiamo, pur mentre perdura la presenza stessa del sentire. L’idealità del ricordo è negazione e insieme conser- vazione della realtà sensibile. Quella luce che si fa in noi quando riusciamo a intuire quello che si agita dentro di noi, deriva da un atto evocativo che accoglie nell’unità della sua sintesi la muta e incoordinata molteplicità delle impressioni sensibili; la memoria è veramente quella che, operando la prima synopsis fra gli elementi della sensibilità, mette alla luce 130 la poesia; come è simboleggiato nel mito greco che pone Mne- mosme madre delle muse. Ma — si potrebbe obiettare — ammettiamo che l’immagine non sia altro che l’impressione sensibile rievocata dalla me- moria, con ciò si spiegherebbe l’immagine che abbiamo dei fatti reali, per esempio la rappresentazione di un paesaggio che ab- biamo effettivamente visto, ma non si spiega per nulla la fan- tasia creatrice. Si può mai dire che il mondo fantastico del- l’Ariosto è un mondo « ricordato » dal poeta? Ma la teoria da noi proposta non afferma già che l’immagine sia la registrazione mnemonica di un fatto, bensì la sintesi evo- cativa o il ricordo di impressioni e sentimenti soggettivi. Ora il dire: «questa è una sensazione reale e quest’altra no», non può avere un senso logico, perché nel momento della pura sen- sibilità la distinzione fra realtà e non realtà non è ancora posta. La memoria filologica toglie la sensazione dalla sua soggettività e la trasforma in percezione, mentre la memoria poetica si fonde con la soggettività delle impressioni sensibili e le tra- sforma in immagini. Tuttavia la realtà del sentire può avere un altro senso ed esprimere l’esigenza che il poeta sia schietto nel suo sentire e non finga sentimenti che non abbia effetti- vamente sentiti, l’esigenza di quella intima sincerità, per cui il poeta si fa amanuense deH’anima sua e scrive ciò che gli vien dettato, e la sua opera gli appare come una ingenua e spassio- nata testimonianza di una gesta che non dipende da lui, e alla quale egli non può aggiungere sillaba. Da ciò deriva quel senso di religiosa necessità che il poeta sente nella sua creazione e che tanto lo distingue dal modo arbitrario e opportunistico pro- prio dei compositori di sonetti occasionali d’un tempo e di tanti novellieri moderni. La commossa memoria del poeta ha mag- 76 giore e non minore verità di quella impersonale del filologo. Anche per Kant T • 1 n • 1 • • T • T la memoria è un La « sintesi della riproduzione nell immaginazione » di cui parla trascenden- Kant^ non è altro che l’attività della memoria, la quale crea tale. 1) Krit. d. r. V. Elementarlehre (ed. Rosenkranz) pp. 94 segg. 131 rimmagine, accogliendo nella sua unità la molteplicità delle impressioni. Kant ha visto che il concetto di memoria è qual- che cosa di ben più che un concetto classificatorio della psi- cologia empirica, poiché senza la sintesi memorativa nessuna vita spirituale è concepibile. Egli dice infatti: « Se io perdessi continuamente dal pensiero i momenti antecedenti, e non li riproducessi mentre passo ai successivi, non ne potrebbe sor- gere mai una rappresentazione unitaria ». La sintesi estetica è logicamente anteriore ai suoi momenti: le sensazioni ricordate sono immagini, e quando non fossero ri- cordate, non avrebbero espressione alcuna e non sussistereb- bero. Anche ciò è stato notato da Kant in un passo della Cri- tica, a cui forse non è stata data l’importanza che merita. L’im- maginazione, egli dice, « è un ingrediente necessario della per- cezione sensibile ». E aggiunge che ciò non è venuto in mente a nessun psicologo, perché si è sempre ritenuto che i sensi ci possono dare non soltanto impressioni, ma anche il collega- mento fra le impressioni, mentre per ottenere l’unità del mol- teplice non basta il sentire, ma occorre l’atto sintetizzante del- rimmaginazione.-^ Questa osservazione ci sembra importante perché qui Kant afferma la priorità del momento superiore ri- spetto all’inferiore, non solo del concetto sulle intuizioni, ma anche dell’immagine sulle sensazioni. Alcuni autori hanno ritenuto che la memoria e l’intuizione 1) Ibid. Deduction der reinen Verstandesbegriffe. Parte III. In nota del testo della ed p. 109. « Dass die Einbildungskraft ein nothwendiges Ingredienz der Wahrnehmung selbst sei, daran hat wohl kein Psychologe gedacht. Dass kommt daher, weil man dieses Vermoegen theils nur auf Reproduktionen einschraenkte, theils, weil man glaubte die Sinne lie- ferten uns nicht allein Eindruecke, sondern setzten solche auch sogar susammen, und braechten Bilder der Gegenstaende zuwege, wozu ohne Zweifel ausser der Empfaenglichkeit der Eindruecke noch etwas mehr, naemlich eine Funktion der Synthesis derselben erfordert wird. 132 sieno la stessa attività ^ e non è difficile vedere il perché di questa confusione: poiché la memoria in concreto non è mai ' vuota d’un contenuto sensibile, si è creduto di poter concludere che sia essa l’attività produttrice della sintesi estetica. Secondo noi invece la memoria e la sensibilità sono due momenti ne- cessari, ma opposti e distinti, deirimmagine artistica. 77 Se consideriamo la memoria in sé, vediamo che il criterio suo memoria proprio non è quello della bellezza espressiva, bensì quello fHofogia della certezza: un fatto è certo per l’esattezza della memoria pura, nel riferirsi senza soluzione di continuità al suo documento; e per documento si intende l’impressione sensibile come oggetto di percezione. Abbiamo detto « senza soluzione di continuità » ma l’espressione è pleonastica, perché la continuità (almeno quella di cui ora parliamo) non è altro che memoria. Quello che la memoria oggettivamente ricorda è il certo, come quello che l’intuizione rappresenta è il bello. L’attività umana che si giudica col criterio della certezza non è l’arte ma la cronaca erudita, .la filologia pura. Compito della cronaca non è di giudicare, ma di testimoniare spassionata- mente. La sua logica è logica di autorità. La sua funzione è cosi vuota di sentimento da poter essere in qualche modo so- stenuta da un procedimento meccanico, da un ricalco, da un obiettivo fotografico o da quelle macchine filologiche che sono 1) L’importanza della memoria nella creazione artistica è stata messa in rilievo particolarmente da: E. Bruecke, Die Darstellung der Bewegung durch die Bildenden Kuenste (« Deutsche Rundschau » XXVI, 1881). Alois Riehl, Das Problem der Form in der Dichtkunst (« Viertel-Jahres- Schrift f. Wiss. Phil. », 1897). Emanuel Loewy, Die Naturwiedergabe in der aelteren griechischen Kunst (Roma, Loescher, 1900). Ottokar Fischer, Ueber die Bedeutung der Erinnerung fuer die Poesie (Congr. Fil. di Bologna, 1911). Lodovico Fuelep, La memoria nella creazione artistica (« Bollettino del- la Biblioteca Filosofica di Firenze » febbraio 1911). Il Fuelep e il Riehl tendono a identificare la memoria con l’attività intuitiva. 133 78 Il carattere scien- tifico della filo- logia. m w i cataloghi e gli schedari. Il suo ideale è la riproduzione pura e semplice dei testi, per conservarli e tramandarli nella loro integrità. I più puri filologi sono gli operai stampatori. Nella constatazione documentaria noi dobbiamo fare astrazione dalla nostra personale sensibilità e lasciar parlare i fatti: un documento scoperto e tramandato da un uomo malinconico o da un altro di temperamento euforico, in quanto documento filologico, non varia. Da ciò deriva la strana importanza che in siffatte ricerche gli eruditi attribuiscono alla priorità della scoperta. Un filosofo, che non abbia mentalità professorale, quando trova che un altro pen- satore è arrivato in qualche dottrina alle sue stesse conclusioni, si compiace di quel consentimento ed è conscio che l’originalità del suo lavoro, che è una cosa sola con tutta la sua personalità di pensatore, non può essere in giuoco; per il filologo invece l’antecedenza è cosa di grande affare e se un altro gli pubblica prima un documento inedito, egli ha l’impressione di aver la- vorato invano: il sentimento individuale, escluso dall’astratto lavoro filologico, si prende una rivincita rifugiandosi nella va- nità stizzosa delle polemiche di priorità. L’impersonalità è la debolezza ma anche la forza della filo- logia. Essa è la prima disciplina puramente formale ed astratta ed è questo il suo carattere « scientifico ». Come il geometra, che pur parte da una intuizione, si disin- teressa del lato immaginoso delle sue figure, cosi l’erudito parte da un elemento sensibile e lo accoglie spassionatamente, e astraendo da ogni compiacenza edonistica e da ogni commo- zione della sua sensibilità, si limita alla fredda testimonianza di ciò che ha percepito. E però come la matematica, cosi anche la filologia pura non dà luogo a discussioni.^ Se qualcuno cita erroneamente una data 1) In verità si possono portare non pochi esempi di discussioni fra fi- lologi, come se ne possono portare molti fra matematici, specie fra i moderni, ma non è difficile mostrare che in tali casi la discussione riguarda dei punti che non sono puramente filologici o matematici. 134 edizione, basterà mettergli sottocchio il testo esatto e non ci sarà altro da dire. Se una questione non si può ridurre a un puro confronto di documenti, vuol dire che essa non è stretta- mente filologica. Senza dubbio noi possiamo ammirare l’acume e il discernimento di un erudito, e le sottili deduzioni, e i rav- vicinamenti geniali e le ardite ipotesi — come si può ammi- rare in un poeta Tumanità dell’esperienza e l’elevatezza della morale e dei concetti — ma io scopo finale del lavoro filologico non può essere altro che la riproduzione oggettiva e la fedele tradizione, e il criterio con cui va giudicato è quello della cer- tezza, cioè della esatta constatazione. Se nel secolo scorso il metodo « storico » (che si deve dire « filologico ») ha dato cosi sicuri e importanti risultati, ciò si deve al rigore con cui esso è stato circoscritto entro i limiti che gli sono propri. L’attività .erudita è in certo senso un superamento di noi stessi, un lavorare con fiducia nella vita, distaccati dalle nostre opi- nioni, depositari di un documento inesausto nel quale i lettori futuri vedranno quello che noi non abbiamo veduto. La cro- naca non è la storia, ma vai meglio una cronaca sicura che una storia mediocre. A che si ridurrebbe il valore della maggior parte degli storici, se leggendo i loro volumi non potessimo ve- dere al di là delle loro spalle? Quasi tutti i grossi libri di storia della filosofia hanno maggior valore cronicistico che non istorico, valgono per le idee che l’autore riferisce e di cui egli stesso è ignaro, e noi siamo grati all’onestà dell’amanuense se per bocca sua ci parla uno spirito che non è il suo. Il documento ha questo di particolare: che esso non vale per sé, ma ha — come disse Hegel del linguaggio e come si può dire di tutto ciò che si consideri come segno per la memoria — un contenuto diverso da quello suo proprio. -9 Nell’intuizione artistica, il sentire e l’atto di memoria che lo L’antitesi ha il accoglie formano una perfetta unità, nella cronaca i due mo- presupposto menti cadono l’uno fuori dell’altro. La filologia ha il suo docu- sintesi l’ha in sé. mento fuori di sé e lo presuppone, l’arte lo ha in sé stessa. Una relazione analoga l’abbiamo già notata fra storia e filosofia ri- 135 spetto all’azione, e abbiamo detto che la storia è teoria che ha l’azione fuori di sé e la presuppone, mentre l’autocoscienza filosofica è consapevolezza del suo proprio' fare, cioè ha l’azione in sé.^ La stessa .relazione troveremo nella filosofia della pra- tica: nell’amore, la volontà individuale e l’imperativo della legge coincidono, e noi vogliamo il bene di coloro che amiamo con tutte le nostre forze; nel momento giuridico invece, l’astrat- tezza della legge richiede una forza esterna che la imponga. Non c’è legge senza forza, come non c’è cronaca senza docu- mento. In linea generale si deve dire che l’universalità astratta del- l’antitesi ha la concretezza individuale fuori di sé, mentre l’uni- versalità concreta della sintesi contiene in sé il momento in- dividuale. Per comprendere la funzione creatrice della memoria si deve tener presente che, come abbiamo detto, essa non conserva qualche cosa che c’è già, ma che essa stessa pone resistente. Il predicato esistenziale (il dire: ciò è veramente accaduto) è una funzione della memoria. Nel momento della sensazione noi consideriamo il sentire come la soggettività nostra, ma nel momento della memoria noi oggettiviamo il sentito, come un avvenimento accaduto e come un documento esistente al di fuori di noi. Anche qui, come in molti altri casi, si può dire: le sensazioni senza memoria sono cieche, e la memoria senza sensazioni è vuota. Noteremo a questo proposito che se questa immagine kantiana è stata cosi spesso citata e parafrasata, la ragione è veramente questa: che essa esprime la relazione fondamentale fra la tesi e Vantitesi. La tesi indica sempre un contenuto molteplice, concreto, indi- viduale, privo di necessità e di universalità: e però è cieca. L’an- titesi indica l’unità che è puramente formale, astratta, univer- sale, priva di concretezza: e però è vuota. Ai momenti indivi- 1) V. Parte 1" p. 62. 136 duali dello spirito appartengono: la sensazione, l’intuizione, il giudizio storico e la volontà economica. Ai momenti formali: la memoria, la matematica, il diritto ecc. ao È assai facile mostrare la contradizione della filologia pura e la La contradizione dimostrazione si riduce a questo: che la memoria, senza alcun memoria contenuto sensibile, non avrebbe niente da ricordare; e che nessun filologo, per sforzi che faccia, può abdicare alla sua per- sonalità e diventare uno schedario puro. Prendiamo un caso estremo: voi volete mandare a qualcuno un messaggio in lin- gua greca e lo fate imparare a mente da un ragazzo che non sa una parola di greco. Ora si dice: l’atto del ragazzo è un atto di pura memoria, e le parole che egli pronuncia hanno un si- gnificato che egli non sa. Ma questo lo potete dire voi dal punto di vista vostro. Se vi mettete nei panni del ragazzo è evidente che egli non può avere imparato a memoria un significato che egli non sa. Il suo atto di memoria avrà tuttavia un suo con- tenuto concreto, e sia pure quello delle semplici articolazioni sonore che gli escono di bocca, e quei suoni saranno per lui una cosa sola con l’atto di memoria che li accoglie, e saranno quindi un’immagine e avranno un’espressione — che potrà es- sere quella appunto di voci misteriose ed esotiche — insomma l’atto effettivo sarà necessariamente un atto spirituale concreto e non mai un’astrazione. La differenza fra l’atto del ragazzo e quello dell’uomo che ne ascolta il messaggio e ne comprende il significato, non è dunque propriamente tra un atto di pura memoria e un atto di pensiero, ma tra due diversi atti di pen- siero, all’uno dei quali noi diamo importanza per il suo lato puramente memorativo. La memoria pura è un’astrazione, come l’arte pura e come la pura economia, ma tuttavia senza memoria e senza esattezza nessuna scienza è possibile. Il giudizio che si riferisce alla me- moria è il giudizio percettivo, il quale riguarda la pura esattezza della constatazione ed è la base di ogni disciplina scientifica. Il C. ha negato che la memoria sia uno dei momenti distinti 137 dello spirito, e non poteva fare altrimenti. Se non si concepi- scono le determinazioni spirituali come momenti dialettici, ma come concetti autonomi in sé, quando un concetto rivela la sua insufficienza non resta altro che rifiutarlo. Ciò posto, Tincon- seguenza non sta nell’averne negati alcuni, ma nel non averli negati tutti. Il procedimento con cui si arriva a tali negazioni ci è ormai noto: si dimostra che Tatto di cui si tratta o,non è niente di • reale, oppure che esso si identifica con Tatto spirituale nella sua pienezza, cioè col giudizio storico e filosofico. Per la me- si moria il C. ha dimostrato ora Tuna ora l’altra cosa. Falsa identifica- Che la memoria sia tutto lo spirito il C. lo afferma identifi- zio^perceui?!r .1. equivale alledo- sentire. Quale poi sia il suo significato negativo, e evidente: nismo. esso indica nell’arte quello stesso errore che abbiamo chiamato edonismo nella critica estetica e che consiste nel fermarsi alle sensazioni e alle impressioni sentimentali invece di arrivare al- rimmagine. Questa è la conclusione che ci sembra risultare anche dallo studio del Muoni, e che si può riassumere con le parole del De Sanctis: « la forma che nei classici è il fine della poesia, nel romanticismo è il mezzo per produrre impressioni o senti- menti ».^ Lo stesso significato può avere un’altra definizione che tro- viamo nel Croce e nel Muoni: «per romanticismo s’intende uno stato d’animo d’intimo dissidio: il sentimentalismo, il contrasto . tra le aspirazioni e la realtà ».^ Qui però bisogna distinguere il dissidio o squilibrio rispetto ' alla forma artistica, da quello che riguarda la personalità dell’artista. Lo squilibrio della forma non è altro che l’usurpazione del sentire tumultuoso che di- strugge la serenità della contemplazione; in questo senso esso significa l’imperfezione e il non-essere dell’arte. In certi ro- mantici si può veramente notare una preferenza per le opere cosi imperfette e mancate. Ciò si spiega considerando che co- storo danno importanza al sentire, in quanto sentire, e si disin- teressano della contemplazione e quasi la riguardano come una profanazione del sentimento. Questo modo di giudicare le cose, assai strano quando si parla d’arte, sarebbe invece legittimo negli affetti e nelle passioni. Qui, nel sentire, la contempla- zione può diventare davvero una profanazione. Anche il con- cetto superiore può usurpare i diritti del concetto inferiore, e come c’è una falsa arte intellettualistica cosi c’è una libidine 1) La Letteratura italiana nel sec. XIX, (Napoli, 1897), p. 15. Cfr. Muoni p. 76. 2) Problemi p. 289. 165 estetizzante che corrompe e falsifica ogni sano sentire. Quella « conscienza » di cui sono malati certi personaggi dannunziani, quell’istrionismo per cui certi uomini non sanno abbandonarsi alla spontaneità del sentire, non sono che una sconcia combi- nazione dell’atteggiamento estetico nel campo della sensibilità e del sentimento. , Ma il romanticismo si può invece riferire, come nota il C., non alla forma artistica, ma al contenuto, cioè alla personalità del- l’artista e a tutta la sua concezione del mondo, e può indicare «una particolare condizione di spirito, squilibrata, perplessa, stra- ziata da antitesi ». Preso in questo senso, il romanticismo non rientra nella dialettica dell’arte, come l’abbiamo definita sopra. È vero che per lo più il dissidio romantico del contenuto va unito allo squilibrio e alla imperfezione della forma, ma vi pos- sono essere e vi sono delle opere di contenuto romantico e di forma classica; come vi sono dei poeti che si dicono classici piu per la serenità della loro complessa concezione della vita, che non per la perfezione formale della loro opera. La dialettica dei momenti costitutivi dell’intuizione risulta poi, come attraverso una lente d’ingrandimento, nei casi patologici in cui avviene una disgregazione della sintesi, e alla serena contemplazione estetica si sostituisce da una parte l’elemento sensazionale ed emozionante (il fatto di sangue e la libidine), e dall’altra la pura curiosità cronicistica, che attende ansiosa di sapere se il delinquente sarà acciuffato e se gli amanti finiranno per sposarsi. 8. Il carattere lirico e il carattere epico delVarte. Un signifi- cato analogo a quello dei termini classico e romantico, ma con riferimento più chiaramente ed esclusivamente artistico, c’è nella distinzione fra epica e lirica. Questa distinzione ha anche il vantaggio di non portare con sé il riferimento a un determinato momento storico, e di non avere un doppio signifi- cato positivo e negativo. Il valore di questi termini diventa filosofico se non li si considera come classificazioni retoriche 166 di due generi artistici, ma come due caratteri universali di ogni forma d’arte. Per questa via, come è noto, si è messo il C. nel suo studio sul carattere lirico dell’arte, e noi abbiamo seguito il suo esempio. Abbiamo detto sopra che il difetto del classicismo consiste nel- l’imitazione e nella fredda riproduzione di un passato inat- tuale. Ora l’imitazione di un’opera d’arte altrui non è che un caso particolare, mentre il caso generale è l’imitazione e la ri- produzione di una qualunque realtà che apparisca come esi- stente all’infuori di noi. Il predicato esistenziale non è che una funzione della memoria e però quando la sintesi artistica viene analizzata nei suoi elem.enti, la realtà si configura come qualche cosa che esiste esteriormente in sé e che l’artista — come dice- vano i pittori impressionisti — deve vedere attraverso la sua personalità. Il carattere lirico dell’arte è quello soggettivo della sensibilità e del sentimento, il carattere epico è quello oggettivo della memoria. La sensazione è veramente lirica pura, priva di ogni linea epica, cioè assoluta astrazione dalla oggettività e conti- nuità della memoria. E la cronaca è pura epica, priva di stile e di personalità: un pittore che copia una figura con esattezzza fotografica fa un’opera senza stile, produzione della memoria e non d’arte. 100 Il valore lirico si riferisce alla sog- gettività del sen- tire, il valore epico all’oggetti- vità della me- moria. Dice giustamente il C.: «il contraffare l’abbaiamento o il mia- golio degli animali non è far poesia o arte ».^ Ma quello che egli non ci dice è in che senso l’imitazione, cioè l’attività della memoria, sia momento essenziale della poesia. Nelle opere che si dicono epiche, si vede spesso anche mate- rialmente persino nella mole (se vogliamo fermarci a questa esteriore considerazione), il carattere di continuità e di esten- sione proprio della memoria; nella poesia lirica invece prevale l’intensità e l’immediatezza del sentire; mentre l’estensione, anche intesa esteriormente, è di solito minore, e non sarebbe 1) La Poesia p. 6. 167 facile indicare una lirica che abbia il numero di pagine di « Guerra e Pace ». L’errore della retorica consiste nell’oggetti- vare questa distinzione in' classificazioni e regole; mentre nello stesso genere artistico, per es. nel romanzo, vi possono essere opere di forma classica ed epica come quelle del Tolstoi, e altre romantiche, cioè intense di un caotico lirismo, come quelle del Dostojewski. Negli autori di largo respiro i momenti deboli in cui l’ispirazione vien meno assumono alle volte un’andatura cronicistica, e il poeta sembra allora indulgere a una vena memorativa che lo porta a narrare e descrivere senza attualità di commozione. Ciò si può notare persino in alcune pagine d’uno scrittore di rara perfezione, come il Tolstoi, e in molte di un narratore di razza come il Dickens. Il pericolo dell’epica è l’impersonalità della cronaca, come il pericolo della lirica è l’enfasi della sensibilità. Per il filosofo l’antitesi dei concetti classico-romantico ed epi- co-lirico ha essenzialmente -lo stesso valore, ma non è detto che il compito dei filosofi sia quello d’impoverire la lingua, e non sarebbe opportuno dimenticare nel discorso comune le diverse sfumature delle parole. Cosi è giusto parlare di un carattere classico della letteratura italiana, per significare la perfezione formale e il sentimento intimo di continuità con la sua antica tradizione, che sono i suoi pregi; mentre non sarebbe giusto parlare del suo carattere epico, nonostante la sinonimia filo- sofica dei due termini, perché a questa parola si associa l’idea di una poesia prevalentemente narrativa. Nelle pagine su « ^intuizione e il carattere lirico delVarte » il C. ha messo in rilievo la dialettica dei concetti che qui abbiamo procurato di svolgere. Egli nota la necessità che l’arte sia com- mossa, sentita, personale, e dice che « dove la personalità manca», e ne tiene luogo il «pedantesco proposito di racco- gliere documenti umani » e l’opera si riduce a una « esattissima riproduzione della realtà », non si può parlare d’arte. E con- clude: « Se all’opera d’arte è necessario il momento classico della perfetta rappresentazione o espressione, non le è meno 168 necessario il momento romantico del sentimento; la poesia o l’arte in genere non può essere, esclusivamente, o ingenua o sentimentale, ma deve essere, tutt’insieme, ingenua e senti- mentale. E, se il primo momento, ossia quello rappresentativo, si chiama epico, e il secondo, quello sentimentale, passionale e personale, si chiama lirico; la poesia (e l’arte) dev’essere epica e lirica insieme, o se piace meglio, drammatica »} Il C. riconosce qui che il carattere romantico e lirico deriva da un momento spirituale immediatamente precedente aH’intui- zione, cioè dalle sensazioni, impressioni ed emozioni che costi- tuiscono il contenuto dell’arte (e che, secondo il C., apparten- gono allo spirito pratico). Ma avendo egli negata la relazione dialettica fra i concetti spirituali, e avendo disconosciuto il mo- mento della memoria pura, egli non ha potuto chiarire intera- mente il significato di questa antitesi. loi Particolarmente importa rilevare che c’è nella concezione del II C. confonde C. la tendenza a identificare e confondere la sintesi con uno sintesi con .... . uno dei suoi dei SUOI momenti costitutivi. Per servirci di un paragone fisico, momenti, tale confusione è simile a quella di chi, alla domanda di che cosa sia composta l’acqua, rispondesse che i suoi componenti sono: l’acqua e un’altro elemento. Ciò, in fatto di chimica, non suonerebbe bene, ma in fatto di filosofia ci siamo abituati a non badarci tanto per il sottile. Invece di dire: i momenti della sintesi artistica sono quello meramente individuale della coscienza sensibile e quello pura- mente formale della memoria; seguendo la concezione del C. si è portati a dire: c’è da una parte la sensibilità o personalità, e dall’altra l’intuizione pura; e l’arte viene cosi ad essere conce- pita come una sintesi della sensibilità e di sé stessa. Naturalmente il C. non espone la cosa con queste parole, ma egli dice: « se l’intuizione pura è indispensabile all’arte, non le è meno indispensabile la personalità dell’artista »; e, dopo aver riferito il momento classico della perfetta rappresentazione al 1) Problemi p. 20. 169 concetto delFintuizione, e quello romantico e personale al sen- timento, egli formula tuttavia la relazione fra i due termini come una antitesi dialettica. Gli errori del C. non sono mai casuali, e anche questa identi- ficazione della sintesi con uno dei suoi momenti è una tendenza della sua concezione generale e deriva dalla sua negazione della dialettica positiva: cosi nella Logica egli considererà il giudizio storico come sintesi d’intuizione e di concetto (mentre il con- cetto ha già l’intuizione in sè!), e nella Teoria della storiografia, egli dirà che « la vita e il pensiero sono le vere fonti della storia, cioè i due elementi della sintesi storica », vale a dire che vita e pensiero sono i due momenti del pensiero. La genesi di questa tendenza ci sembra la seguente: I concetti spirituali sono dialetticamente opposti e non sempli- cemente distinti l’uno dall’altro. La relazione fra la tesi e l’antitesi è quella della reciproca implicazione, cioè l’un mo- mento non può essere concepito senza il suo opposto e si con- tradice quando sia considerato in sè. Il contenuto non può essere afferrato senza la forma: non la sensibilità senza la me- moria, né l’intuizione senza l’identità, né la vita senza il pen- siero. Da ciò si può essere portati, come abbiamo visto, a identificare semplicemente i due termini, ragionando cosi: se l’uno non si può concepire senza l’altro, vuol dire che essi si- gnificano lo stesso. Ma come abbiamo pur visto si può essere portati a seguire un altro procedimento: affermare la sintesi e negare i momenti che la costituiscono (essi si contradicono, e quindi vengono rifiutati come nulli), in tal caso la sintesi resta inesplicata e acquista un carattere impenetrabile e miracoloso. Tale è, secondo noi, la tendenza del misticismo. II C., per la viva coscienza del chiaro, concreto, duro procedere del pensiero, non ha simpatia per le concezioni misteriose. La sua tendenza, come abbiamo, notato sopra,^ è di affermare l’uno 1) Libro I pag. 49. 170 dei due momenti antitetici, quello concreto e individuale, e di attribuirgli una indebita autonomia, e di negare invece l’altro, quello astrattamente formale, misconoscendogli ogni valore. 102 Egli non solo affermerà il valore positivo deH’intuizione arti- Origine di tale stica, ma chiuderà gli occhi per non vedere la contradizione di un’intuizione alogica; negherà invece l’identità matematica, e non vorrà vederne il positivo valore teoretico; attribuirà una indebita autosufficienza all’azione economica e negherà il va- lore categorico del diritto astratto. Ora avviene che il momento dell’antitesi, che è stato in tal modo messo da parte, tende a identificarsi con la sintesi e ne nasce l’incongruenza di consi- derare la sintesi come sintesi di sé stessa e di uno dei suoi momenti. Nel suo studio su Hegel il C. dice che non si deve considerare lo Spirito come un sistema di concetti opposti, ma come un nesso di gradi distinti, ognuno dei quali ha un’opposizione dialettica nel suo seno. I momenti di questa astratta opposizione sareb- bero: il bello e il brutto nell’intuizione, il vero e il falso nella logica ecc. Questa è l’origine dell’incongruenza che abbiam.o rilevata. Uno dei momenti astratti dell’intuizione (la quale non è altro che la Bellezza), sarebbe il bello stesso; e il vero sarebbe un momento astratto della Verità. Nella Logica, e precisamente nella teoria dell’errore, il C. ha fatto, secondo noi, un importante progresso, riconoscendo che il brutto e il falso non sono soltanto concetti astratti e negativi, ma hanno pure un valore positivo, cioè quello della praticità. Facendo ancora un passo avanti, si ritorna alla concezione hege- liana, sostanzialmente vera, e si riconosce che il concetto supe- riore è sempre sintesi di due valori positivi, e che i due concetti inferiori diventano negativi soltanto quando, presi astratta- mente, usurpano la funzione della sintesi. 9. Il concetto filologico e il concetto estetico del linguaggio. L’Estetica del C., oltre a essere una filosofia dell’arte, è anche una filosofia del linguaggio, una teoria che pone e risolve a 171 103 La parola come segno convenzio- nale. modo suo il problema sull’essenza o, come si diceva, sull’origine della lingua. La esamineremo brevemente anche in questo suo aspetto. Anzitutto dobbiamo riaffermare che non si può mai dire che un dato fatto o, se piace meglio, un avvenimento storico, sia in sé stesso un atto intuitivo, o logico o pratico. Alla realtà spettano tutti gli attributi del reale, che sono poi un attributo solo, cioè quello della spiritualità. Quelle per es. che noi chiamiamo opere d’arte, il Canzoniere del Petrarca o i Malavoglia del Verga, sono opere d’arte per chi si compiace più particolarmente della loro bellezza; ma per il compilatore di un vocabolario possono essere « testi di lingua », cioè documenti filologici; e per l’editore sono valori economici, e oggetti di contrattazione; e per il giu- rista rappresentano quella determinata forma di diritto che si chiama proprietà letteraria e che è contemplata in certi para- grafi del codice e di convenzioni internazionali; e via discor- rendo. I.a stessa cosa si deve dire del linguaggio. La lingua può essere considerata come un puro atto filologico, ma ben altro valore essa ebbe per noi triestini, quando la nostra lingua ci appariva come un diritto politico che si deve difendere e come un ideale per il quale si deve combattere; altri invece potrà considerarla in modo astrattamente logico come fa la sillogistica, o rivelarne invece il valore intuitivo e immaginoso come fa il Croce. Con ciò vogliamo dire che una teoria sul linguaggio acquista il suo significato soltanto dai problemi che il filosofo si propone di risolvere e chiarire con quella teoria. Vediamo ora in che senso si possa affermare che la funzione del linguaggio è più particolarmente filologica, e cioè che la parola non è in sé espressione, ma segno convenzionale. Se l’intuizione non è altro che un’impressione sensibile contem- plata nell’idealità della memoria, il modo diretto di comunicare ad altri un’intuizione dovrebbe essere questo: fargli sentire quella impressione, in modo che egli, accogliendola nella sua memoria, possa riprodurne l’intuizione. 172 Io ho rimmagine di una data intonazione di verde e blu, e se voglio comunicar vela, non ho da far altro che prendere quei colori dalla tavolozza e disporli in modo da darvi intanto quel- l’impressione visiva. E se avrò a che fare con un cieco nato, non avrò modo di comunicargli queU’immagine; e se avrò da fare con uno che ebbe già la vista e ora non l’ha più, potrò procurare di rendere la mia immagine con accenni indiretti, appellandomi alla sua memoria; e gli dirò di figurarsi un verde come quello della foglia d’olivo o un verde veronese cosi e cosi e mi sforzerò di richiamargli proprio quella sfumatura di co- lore che intendo io. Ma è chiaro che in tal caso le mie parole non saranno che un mezzo indiretto. Ugualmente, se voglio comunicarvi direttamente una data ar- monia di suoni, non dovrò indicarveli con parole o con segni grafici, ma darvene invece l’impressione diretta con uno stru- mento o con la voce. Noi possiamo comunicare direttamente l’intuizione di un movimento di danza, di una scena mimica o simili, ma è chiaro che per comunicare in tal modo l’immagine di un uragano o di un incendio, si dovrebbe ricorrere ad un apparato scenico assai macchinoso. Anche le immagini di odori e sapori e impressioni tattili si dovrebbero comunicare direttamente con le corrispondenti im- pressioni « fisiche », ma la grevezza della sensazione, che inte- ressa troppo violentemente la nostra sensibilità come tale, im- pedirebbe l’atto contemplativo. Per rendere quelle immagini, la parola è un mezzo indiretto come quando ci sforziamo di rendere con parole una intonazione di colori o un accordo di suoni. Il mezzo diretto sarebbe anche qui quello di infliggere allo spettatore le corrispondenti impressioni, e fargli sentire il caldo e il freddo, la fame e la sete. È un vero peccato che i futuristi non ci abbiano pensato o non sieno riusciti ad esco- gitare delle macchine intonatrici di tutte le sensazioni, ché avrebbero potuto dare spettacolo di un’arte veramente dioni- siaca. Del resto era forse su questa via l’idea romantica di 173 104 Il linguaggio inadeguato al- l’espressione. Riccardo Wagner di un teatro che fosse la sintesi di tutte le arti. Come è noto il C. afferma che tanto s’intuisce quanto si riesce ad esprimere, e che se un artista non sa esprimere la sua imma- gine, vuol dire che egli si illude di possederla, ma che effetti- vamente non la possiede. « Come colui che si fa illusioni sulla quantità delle proprie ricchezze materiali è smentito daH’arit- metica, la quale gli dice esattamente a quanto esse ammontano; cosi chi s’illude sulla ricchezza delle proprie immagini, è ricon- dotto alla realtà, allorché è costretto ad attraversare il ponte deU’asino dell’espressione. — Numerate, diciamo al primo: par- late, eccovi una matita e disegnate, esprimetevi, — diremo al- l’altro ».^ Dal punto di vista in cui ci siamo posti nelle osservazioni pre- cedenti, si può opporsi a questa affermazione del C. dicendo: io mi posso rappresentare una certa intonazione di colori, ma se quei colori mancano nella mia tavolozza (se mi trovo, per es., in alta montagna e non posso procacciarmeli), io non avrò modo di esprimere ad altri la mia immagine. Ora per una gran parte della mia vita interiore io mi trovo sempre nella situazione di un pittore senza colori. Io ho Timmagine di una figura di bimbo in un paesaggio campestre; per rendere quella figura come io me la rappresento, le parole sono inadeguate, ma potrò ren- derla con un quadro. Se però io mi rappresento quella figura mentre corre per un prato e scavalca un muricciuolo e attra- versa una strada, io non avrò modo di esprimere la mia imma- gine né con parole, né con una pittura. Qualunque descrizione io ne possa fare con parole parlate o scritte, sarà approssimativa, generica e inadeguata, perché non si può rendere con parole la luce e il colore e l’espressione pittorica che ha per me quella figura, come non si può tradurre un ritratto con una descrizione letteraria. Ma nemmeno si può fermare sulla tela (per quanto un pittore, nella sua disperazione, possa tentarlo), l’intuizione 1) Estetica p. 14. 174 di quel movimento e di quel variare di luci, Timmagine varia e tuttavia una, di quella figura, che prima era in ombra e poi in pieno sole, che ha scavalcato il muricciuolo profilandosi con- tro il cielo e poi si è sperduta fra il polverone che il vento sol- levava sulla strada. A rendere un’immagine di movimento, tanto le parole quanto i colori sulla tela sono dei mezzi tecnici insufficienti; ed io non avrò modo di comunicarvi direttamente la mia visione se al più non si trovi una macchina nuova: fate conto un mezzo tec- nico che fosse, in confronto del cinematografo,- quello che il quadro del pittore è in confronto della fotografia; fino allora io sarò come un pittore, al quale si sieno tolti i colori o mozzate le mani. Ma se anche mi riuscisse di procacciarmi quel nuovissimo con- gegno, io non potrò comunicare la maggior parte delle mie intuizioni: io accolgo nella mia contemplazione lo stormire degli alberi e il fresco dell’aria, e la mia sete, e i miei desideri, e per comunicarvi direttamente ciò che intuisco, dovrei con una sug- gestione mentale trasmettervi il ricordo del mio stato d’animo: dovrei cioè — come si dice con significativa metafora — tra- smettervi il mio sogno. La parola, come non rende direttamente il quadro, cosi non può rendere l’immagine immediata di al- cun’altra impressione. Nel sognare invece, noi non diciamo con parole parlate: un bimbo corre per il prato, le fronde stormi- scono, l’aria è fresca; e, per attenerci agli esempi portati dal C., non diciamo a noi stessi con parole: « ecco un uomo, ecco un cavallo, questo pesa, questo è aspro, questo mi piace »,^ ma ci pare veramente di vedere quelle figure e di sentire quel peso e quelle impressioni. Nella creazione artistica quello che importa è il sogno dell’artista, la sua visione, la sua immagine, e non le parole fatte di sillabe, le quali non sono che un mezzo. La parola è un segno, e l’immagine non è la parola stessa, ma è significata dalla parola. 1) Estetica p. 12. 175 105 Linguaggio scrittura. e II C. ammette che la scrittura non è altro che segno convenzio- nale, ma nega che lo stesso si possa dire della parola. La verità è che anche le scritture possono essere concepite come espres- sioni e immagini (e cosi le concepiva il Vico). Nelle civiltà pri- mitive scrittura e arte si confondono, e le scritture • sono rap- presentazioni e nei quadri e nei bassorilievi si ripetono certi segni schematici (come, per addurre un esempio non lontano, le aureole dei santi) che si mantengono sempre eguali e hanno valore di convenzione cioè di scritture. Ma poiché anche i segni grafici di convenzione vengono sempre contemplati nella loro particolare sensualità, cosi non possono mancare di una qualche loro espressione. Infatti per un poeta non sarà indifferente se le sue poesie sieno stampate in carattere lapidario o gotico, in colore rosso o nero. Gli uomini non hanno cominciato né a parlare né a scrivere per una premeditata convenzione, come non hanno creato le leggi e i precetti morali raccogliendosi a parlamento. Essi non hanno detto: quest’animale si chiamerà cammello e quest ’altro leone; ma nemmeno: questo segno si chiamerà alfa e .questo beta. Ma quando noi diciamo che la parola o la scrittura non valgono per la loro immediata espressione, ma hanno un con- tenuto esteriore e comandato, quando noi postuliamo in tal modo la separabilità del contenuto dalla forma, vuol dire che consideriamo quei fatti nel loro aspetto filologico. La sintesi intuitiva è logicamente anteriore rispetto ai suoi mo- menti, ma nel suo seno l’analisi distingue il sentire dal ricordare (in un accordo musicale, per esempio, distingue l’impressione fisica dalla sua contemplazione) e l’impressione stessa viene allora considerata come documento filologico, cioè come segno per la memoria. La relazione fra il segno e l’immagine è quella che si dice la tecnica di un’arte. La parola è dunque, da questo punto di vista, un mezzo, come a dire un nodo nel fazzoletto, che non esso vi raffigura l’og- getto, ma ve lo ricorda solamente. Ma ogni mezzo può diven- 176 tare a sua volta contenuto ed elemento d’espressione. È chiaro per es. che un attore non è che un mezzo rispetto all’opera d’arte che egli deve rappresentare^ tuttavia un autore potrà alle volte scrivere un lavoro per un dato attore o per una data compagnia, e aver presente nel concepire la sua opera, la figura, i gesti e la voce della prima amorosa e del primo attore. Cosi fanno spesso i mestieranti per ragioni opportunistiche, ma cosi fecero pure dei veri artisti come il Molière e il Goldoni, nei quali spontaneamente i mezzi tecnici diventavano essi stessi elementi d’espressione. Tanto più ciò avviene per il linguaggio, che per cosi antica tra- dizione è diventato una nostra seconda natura. Se nel mio sogno 10 vedo un bimbo vestito di blu, le parole non possono essere che un mezzo per significare ciò che io vedo; ma se io mi rap- presento le grida e il parlare degli uomini, quelle voci e quelle parole non sono per me dei segni,- ma sono la mia stessa intui- zione. E se io mi rappresento me stesso nell’atto di parlare, le mie parole saranno insieme la mia immagine. Per il bisogno che prova ogni artista di superare la materialità del mezzo tec- nico e di rendere immagine tutto ciò che egli sente, il poeta ascolta la parola stessa nella sua sensualità di parola parlata, e arriva cosi all’immediata unità di immagine ed espressione. 11 valore della rima e del ritmo deriva appunto da ciò che il mezzo tecnico della parola diventa elemento espressivo. Dopo aver premesso queste avvertenze, noi possiamo accettare io6 la teoria che considera il linguaggio come intuizione. Linguaggio II concetto este- ed intuizione sono la stessa cosa, se per linguaggio s’intende, imguag- come intende il C., ciò che lo spirito esprime a sé stesso. Ed è ^ questo l’essenziale, ed è ciò che si sottintende sempre quando si discute d’arte e non di tecnica o di filologia. Quelle che a un’osservazione superficiale possono sembrare dif- ficoltà tecniche, sono per lo più difficoltà di elaborazione spi- rituale, intimo travaglio dell’artista, che consiste nel dominare le proprie impressioni, nel riuscire a contemplarle ed espri- merle a sé stesso. Se domani ci fosse dato un mezzo prodigioso • 177 12 di comunicare direttamente i nostri sogni e le nostre immagini per suggestione mentale, qualche artista mediocre potrebbe credere di aver trovato finalmente il modo di esprimere delle concezioni meravigliose; ma egli dovrebbe abbandonare ben presto la sua illusione e riscuotersi dicendo: — oh, me dolente! — come Guido da Montefeltro dinanzi alla logica del demonio, poiché le sue immagini si rivelerebbero cosi confuse appunto come nei suoi quadri o nei suoi versi. Si può immaginare qualche caso straordinario in' cui ci sia una tragica difficoltà di comunicazione, come sarebbe quello di un pittore che avesse concepito un quadro e perdesse la vista prima di averlo dipinto, ma non sono certo di questo genere le difficoltà consuete dell’espressione artistica. Come in generale non sono di questo genere le difficoltà essenziali della vita, e certo non vi sono molti geni come quello che Mark Twain rac- conta di aver trovato in non so quale sezione del Paradiso, e che gli fu presentato come il più grande genio strategico del mondo; il quale però in tutta la sua vita non aveva fatto che delle scarpe, secondo la sua professióne di calzolaio, perchè gli era mancata ogni occasione di condurre degli eserciti. Abbiamo detto che una teoria acquista il suo significato dai pro- blemi che il filosofo si propone di risolvere. Ora a noi pare che i più importanti problemi intorno ai quali si discute riguardo al linguaggio, si chiariscono e risolvono con la teoria deH’in- tuizione, come è stata posta dal C. e utilmente applicata dal Vossler e dalla sua scuola. Ma poiché le maggiori difficoltà derivavano dalla confusione tra il concetto intuitivo e il con- cetto filologico del linguaggio, e dal non vedere che il concetto filologico è un momento astratto e logicamente posteriore a quello intuitivo, riteniamo pure che sia necessaria una chiara definizione dei momenti impliciti neirintuizione, per discernere il diritto e il torto di ui^ teoria del linguaggio. La teoria da noi proposta sulla certezza filologica e la coscienza sensibile ci sembra pure confermata dalla dialettica, a cui questi 178 due momenti danno luogo nella linguistica non meno che nel- l’arte. Come c’è nel considerare l’arte l’antitesi tra edonismo e filolo- gismo, cosi vi sono anche rispetto al linguaggio due punti di vista opposti e fondamentali, i quali si riferiscono ai momenti costitutivi della sintesi. Non alludiamo soltanto alle vecchie dispute tra i classicisti, secondo i quali la lingua pura 'si do- vrebbe cercare in certi testi dei secoli d’oro e i romantici, i quali sostenevano che la lingua viva è invece quella che nasce dal sentimento popolare. L’antitesi che intendiamo è evidente pure nelle due opposte teorie sull’origine del linguaggio. L’una di queste afferma che l’origine, cioè, diremmo noi, l’es- senza del linguaggio, è da ricercarsi nell’ onomatopea. Questa — che i linguisti tedeschi chiamano scherzosamente la teoria del « bau-bau » ^ — considera l’espressione linguistica come imi- tazione e riproduzione di una realtà esteriore, cioè come atti- vità filologica o di memoria pura. Ma lo spirito non può certo imitare e riprodurre ciò che non ha sentito. La teoria opposta — che fu detta la teoria deir« ahi, ahi! » trova invece l’origine del linguaggio nell’interiezione, cioè in un ri- flesso fisico del piacere e del dolore, cioè veramente nella sen- sazione. Ma la sensazione, se non diventa in qualche modo imitazione e segno, se non è accolta e contemplata dalla me- moria, non può avere alcuna espressione.^ Chi volesse esaminare di proposito le teorie dèi nostri classi- cisti e romantici intorno alla lingua (e vogliamo dire ciò che 107 Teorie intorno all’origine del linguaggio. 1) Cfr. Estetica p. 166. 2) Il C. dice (Poesia, p. 3) che l’interiezione è lo stesso sentimento e non, come comunemente e impropriamente si dice, espressione di sen- timento. Secondo noi la definizione dipende, qui come sempre, dal punto di vista che assumiamxO. Un grido, strappato al paziente dal ferro chi- rurgico, lo diremmo « sintomo » di una sensazione dolorosa, non espres- sione e nem.meno veramente interiezione. Ugualmente uno sternuto e uno sbadiglio sono « sintomi » di determinate impressioni; ma se qual- cuno finge o imita uno sbadiglio per dare a vedere che si annoia, quel gesto diventa un segno mimetico convenzionale (una « scrittura ») o « linguaggio », cioè espressione. 179 / ' in quelle teorie v’è di unilaterale e negativo), potrebbe facil- mente mostrare che gli uni si riferiscono in fondo al loro pen- siero a una teoria meramente imitativa, e gli altri a una teoria sensistica; si potrebbe cioè contrapporre il fìlologismo del padre Cesari alle interiezioni del Petrocchi. La teoria dell’intuizione sembra a noi quella che soddisfa e in- vera le due esigenze opposte. Ma che cosa è veramente Tintui- zione? Il C. ci dice che essa non è giudizio logico, non è atto economico, e non è atto morale, ci dice insomma quello che l’in- tuizione non è, ma non ci dice più precisamente che cosa essa sia. Noi diciamo che l’immagine altro non è che la rievocazione delle impressioni sensibili compiuta dalla memoria. In quanto il concetto d’intuizione non riconosce in sé stesso i momenti che lo costituiscono, la sintesi rimane inesplicata e in qualche modo misteriosa. In questo senso non è ingiustificato il dire che la teoria del C., che afferma il sorgere immediato del linguaggio come intuizione e disconosce la necessaria rela- zione della sintesi coi momenti anteriori della fenomenologia, appare come una « teoria del miracolo », se è lecito adoperare, con tutt’altre premesse mentali, l’espressione del Wundt e del Whitney.^ L’intelletto astratto non riconosce l’apriorità delia sintesi, cioè non comprende la spiritualità della vita, e trova misterioso ciò che solo è chiaro, e chiaro ciò che è contradittorio ; ma la ragione’ ha il dovere di svelare quelle contradizioni e insieme di spiegare la genesi di quei concetti che l’intelletto considera astrattamente. 10. Nota sulla critica d’arte. La teoria del Croce è una teoria gnoseologica ed ha quindi di necessità un carattere formale. Egli si è chiesto quale sia il criterio col quale si giudica il bello, ed è chiaro che non vi sono due criteri differenti, l’uno per giudicare le opere grandi, l’altro per quelle più umili; come 1) Cfr. Estetica, pp. 470-471. 180 non vi sono due specie di coerenza matematica, l’uria per i calcoli elementari e l’altra per quelli sublimi. Eppure la nostra vita d’ogni giorno è piena di insignificanti esclamazioni ed espressioni, che sono spontanee ed intuitivamente perfette, ma non bastano certo a darci nome di poeti. Tutto ciò è chiara- mente detto anche dal Croce, ma poiché il criterio per cui un’opera ci appare più o meno grande non può essere che empirico e riguarda il* contenuto e non la forma, egli ha la tendenza a giudicare piuttosto la perfezione d’un poeta, che la los sua elevatezza e grandezza d’animo. Ora è certo che la nostra Distinzione fra ammirazione per un’opera d’arte dipende non soltanto dalla sua perfezione e la perfezione espressiva (e intendiamo la perfezione non nel senso formalistico della retorica, ma in senso spirituale come per- fetta elaborazione contemplativa), ma anche dalla profondità e vastità di quel mondo che vive nella visione del poeta. E le concezioni filosofiche come le aspirazioni morali, in quanto fanno parte del sentimento del poeta, arricchiscono quel suo mondo ed elevano la sua arte. Convien dunque distinguere il giudizio che riguarda la perfezione, da quello che riguarda la magnanimità e la genialità inventiva d’un autore. Se consideriamo le migliori opere di un autore come il Gol- doni, potremo ammirarne la perfezione espressiva, la sponta- neità cioè della sua visione limpida e festevole; eppure l’opera di Dante, o anche quella di Ibsen o di Dostojewski, parlano con ben altra voce al nostro cuore. La perfezione formale dei « Quat- tro rusteghi » non è minore di quella di un romanzo di Dosto- jewski, anzi maggiore. Ma l’animo del Goldoni è quello di un povero brav’uomo e il suo mondo è un piccolo mondo, e la sua opera non ha davvero l’impronta del « Poema Sacro ».^ La pre- 1) Vedo ora che anche il C. si è accorto di questa umiltà dell’opera gol- doniana rispetto a quelle di più alta poesia. Ma il pregiudizio che la critica non debba giudicare il contenuto lo ha portato, secondo me, su una falsa strada. Egli ritiene che l’opera di questo autore non sia di pura poesia poiché essa si proporrebbe uno scopo estraneo alla con- templazione, cioè quello di divertire lo spettatore, e crede quindi di poterlo accostare alle opere oratorie, le quali si propongono di susci- 181 tesa di giudicare in un’opera d’arte la perfezione formale, pre- scindendo dal contenuto, è ineseguibile, perchè, come è stato ridetto tante volte, contenuto e forma si possono distinguere ma non separare. Per poter dire che una data immagine è per- fettamente espressa, bisogna pur determinare quale sia codesta immagine, o, come si dice, bisogna caratterizzarla; ma ciò che distingue un’immagine da un’altra è il suo contenuto. Chi vo- lesse davvero attenersi al puro criterio di perfezione, dovrebbe ridursi a dare un giudizio, senza sapere quale sia quell’intui- zione ch’egli giudica perfetta o imperfetta. La tendenza a prescindere in tal modo dal contenuto non può che portare a una maniera esteriore e accademica di giudicare la forma letteraria. Il C. per fortuna non è un accademico, ma alle volte la sua teoria gli fa violenza, come abbiamo visto sopra nel suo giudizio sullo stile di Kant.^ Il criterio « quantitativo » con cui si giudica l’elevatezza e la magnanimità di un autore non può mancare in nessuna critica, né in quella che esamina un lavoro scientifico, né in quella che giudica un’azione morale. Secondo la teoria dell’errore a cui abbiamo accennato, ciò che consideriamo come falso o come male è una disgregazione ana- litica di una unità vagheggiata. Da ciò segue che nell’opera o nell’azione sbagliata, una molteplicità incoordinata di atti mi- nori sostituisce l’unità sintetica: le molte bellezze sono nemiche dell’opera bella. Se mancasse il criterio quantitativo, l’opera che chiamiamo brutta dovrebbe essere ammirata per i molti singoli momenti intuitivi che non vi possono mancare. L’insufficienza dell’astratto criterio di perfezione è evidentis- sima nel giudizio morale. Se ben ricordiamo, il Croce stesso ha notato che noi siamo portati a considerare con minore simpatia un uomo abbietto il quale non risenta alcun disagio dalla sua tare determinati sentimenti. Non mi pare che in tal modo si colga il carattere proprio delle migliori opere del Goldoni, in cui il gusto della rappresentazione ha il sopravvento su qualsiasi scopo estraneo. 1) Parte I, p. 38. 182 abbiezione perché gli manca ogni aspirazione di miglioramento, che non un altro, assillato dai rimorsi di una volontà morale che non gli dà tregua. Mentre, secondo il criterio puramente for- male, dovrebbe essere giudicato migliore il primo se egli non richiede né da sé né da altri una vita più degna. Invero il se- condo si potrà chiamare più immorale ma sarà meno basso. Ugualmente noi possiamo amare un’opera d’arte imperfetta e torbida, ma intima e profonda, più che un’altra più perfetta e più povera. L’atteggiamento critico del Croce tende a prescindere dalla grandezza del poeta per considerarne soltanto la perfezione, e perciò egli riesce talvolta freddo; ed è certamente legittima una critica che ci parli con maggior passione deH’anima d’un poeta come essa risulta dalla sua opera, una critica che dia, in questo senso, maggiore importanza al contenuto dell’opera e quindi anche alle concezioni filosofiche e alle idee morali che di quel contenuto fanno parte. Il torto della critica che si ferma al contenuto consiste nel va- lutare i concetti d’un poeta intellettualisticamente per sé stessi e non come elementi emotivi che acquistano valore d’arte solo in quanto sono poeticamente contemplati. Se confrontiamo la critica del De Sanctis con quella del Croce L (prescindendo qui dalla maggiore o minore genialità e badando unicamente al metodo) dobbiamo riconoscere che c’è nel Croce una maggiore consapevolezza filosofica dei problemi estetici, e una maggiore sicurezza nel distinguere il valore proprio della poesia da altri valori, ma la storia del De Sanctis ha indubbia- mente questa superiorità: che il suo soggetto non è l’astratta poesia, ma quello che solo può essere soggetto di storia, lo spi- rito concreto, la civiltà tutta, e sia pure lumeggiata e valutata dal punto di vista del valore estetico. Quello che secondo noi sarebbe da auspicarsi è non già un « ritorno al De Sanctis » bensì il sorgere d’una critica che sapesse giovarsi delle distin- zioni assiduamente elaborate dal Croce e unire la consapevo- lezza critica del nostro autore con la pienezza di vita e di vi- sione del De Sanctis. 11. La contradizione delV intuizione pura. Abbiamo detto che ogni determinazione spirituale, considerata in sé, si contradice. Ora esamineremo il concetto d’intuizione come è stato definito nell’Estetica del Croce (e quale corrisponde, anche secondo noi, a un momento costitutivo dello spirito), e mostreremo come esso si contradice nella sua definizione e passa nel suo opposto, il quale opposto è a sua volta una categoria necessaria, una ef- ) fettiva attività dello spirito, ma, considerato in sé, rivela an- ch’esso la sua contradizione; per cui dall’irrequietezza di quella tesi e di questa antitesi è significata la necessità di risalire a un concetto superiore che sia la loro sintesi. L’intuizione è per il Croce il primo affacciarsi della realtà allo spirito conoscitivo; non le sensazioni e i sentimenti, ma la rap- presentazione dei sentimenti; non il concetto generale d’un og- getto, ma un’immagine concreta che si presenta allo spirito con una sua particolare espressione. L’intuizione è l’immagine individuale nella sua irriducibile singolarità. E l’arte è intui- zione pura: non già intuizione chiusa e dominata da un con- cetto, ma intuizione senza altri riferimenti. Creare un’opera d’arte vuol dire creare un’intuizione, comprendere quell’opera 110 vuol dire rifare nel proprio spirito quella stessa intuizione. L’intuizione è A dir vero, come abbiamo accennato, negli scritti posteriori il conoscenza indi- Q ^on dice più che l’intuizione è conoscenza dell’individuale, viduale. La mo- , ,, dificazione poste- «ensi che e una contemplazione in cui non e ancora posta la riore della defi- distinzione fra individuale e universale. Può darsi che egli abbia nizione resta ^lodificata la definizione primitiva per essersi accorto della puramente ver- ^ ^ baie. evidente contradizione di un conoscere individuale privo di universalità;^ ma il suo concetto, malgrado la modificazione ver- bale, è rimasto quello di prima e non poteva essere altrimenti. 1) Tale contradizione era stata dimostrata da me nel saggio L’Este- tica nel sistema di Benedetto Croce, Firenze 1912; di cui adoperò una parte in queste pagine. 184 Dal punto di vista del puro poeta è giusto parlare di indistin- zione fra individuale e universale, ma dal punto di vista del filosofo che definisce la poesia e che non può farlo se non con- trapponendo rintuizione al Concetto, non si può parlare di in- distinzione, ma anzi di contrapposizione fra il momento indi- viduale e quello universale. Che si tratti di una modificazione puramente verbale risulta anche da ciò che essa non ha per nulla modificato la rimanente dottrina e che in tutti i corollari il Croce resta coerente alla definizione originaria. Dobbiamo ancora notare che la contrapposizione individuale- universale non resta sempre la stessa in tutti i gradi dello spi- rito. Infatti abbiamo definito sopra la coscienza sensibile come coscienza assolutamente individuale, e ora potrebbe sembrare che nella stessa definizione rientri la coscienza intuitiva. Ma ai momenti individuali del conoscere appartengono non solo la sensazione e l’intuizione, si anche la coscienza storica, e tutta- via si tratta di determinazioni diverse. La differenza fra l’indi- vidualità della sensazione e quella dell’intuizione è questa: alla sensazione manca l’universalità della memoria ed è perciò senza dimensione, l’intuizione invece ,ha quella dimensione in sé, ma le manca l’universalità del concetto. In base alla definizione dell’arte come conoscenza dell’indivi- duale il C. ha giudicato nei singoli problemi estetici: e però egli ha negato i generi artistici, ha negato la possibilità delle traduzioni, ha negato il concetto di plagio nell’arte e quello del- l’unità della lingua. La teoria dei « generi artistici » va rifiu- tata, perché l’individuale- non si può confrontare con altro e non si possono, se non per arbitrio, classificare espressioni di- verse in uno stesso gruppo: « ogni opera è, nella sua singolarità, la definizione di sé medesima, la sola adeguata ». Le traduzioni sono impossibili, perché l’individuale non si può tradurre da una forma all’altra; essendo esso tutt’uno con la sua forma. Se una traduzione segue passo passo l’originale, essa non è un’opera d’arte ma piuttosto un aiuto filologico; se invece il traduttore rivive l’opera e la esprime in una forma organica. 111 L’individualità della sensazione è priva di di- mensione, quella deU’intuizione è priva di concetto. 185 112 L’intuizione indi- viduale è inco- municabile. allora quella è una sua nuova intuizione. Il plagio potrà essere un concetto giuridico ma non un concetto estetico, perché se qualcuno riproduce meccanicamente l’opera altrui, inserendola in mezzo alla propria, quell’opera non fa parte della sua intui- zione e le rimane estranea; se invece la stessa materia viene sentita e rielaborata da un’altra individualità, si ha un’opera nuova, inconfrontabile con il preteso modello. Ugualmente, secondo il C., il concetto di unità della lingua implica una con- tradizione, e non si può dire che la lingua di Dante, del Manzoni e del Carducci sono la stessa lingua, e non invece quella di Dante e di Goethe, poiché ciò che è individuale non si classi- fica, e in un linguaggio non c’è di reale che il veramente par- lato, e una lingua unitaria non è che un raggruppamento arbi- trario di espressioni, le quali nella loro forma particolare ed effettiva non sono comparse ognuna che una volta sola. In questi esempi abbiamo chiaro davanti a noi, nel suo rigore e nelle sue conseguenze, il concetto crociano della irreduttibile individualità dell’intuizione. Ma sorge ora spontanea la do- manda: come faremo noi a rivivere e comprendere un’opera d’arte, se essa è qualche cosa di cosi irreparabilmente indi- viduale? 10 risento l’immagine d’un poeta, espressa in un sonetto, anzi in un solo verso, io dico dentro di me quelle parole e le ascolto: « helle^ fresche, purpuree viole, che quella candidissima man colse ». L’intonazione che io vedo, l’immagine che io mi rap- presento, potrà essere proprio quella stessa che ebbe il poeta, o che ha un altro quando risente qiiel verso? Ma le remini- scenze che ogni parola porta con sé sono pur diverse nell’uno e nell’altro, e i colori, i fiori che uno ha visto, i quadri che ha guardato, le donne che ha conosciuto, il modo di ogni sensa- zione e di ogni sentimento, sono diversi. 11 Croce non esiterebbe a dire che se un poeta, ispirandosi a quel verso, ne rendesse il sentimento in un dialetto italiano, sia pure con parole e suono similissimi, l’immagine del poeta e del let- tore dialettale non sarebbe più quella del verso toscano, ma 186 un’altra. Ma quando uno di noi dice quel verso, egli non lo dirà certamente con la stessa cadenza e pronuncia che aveva nel- l’orecchio il magnifico Lorenzo, perchè ognuno di noi legge e parla con un’infiessione e un timbro diversi. Ognuno legge con una sua propria cadenza perché ha un modo di sentire e d’in- tuire diverso da tutti gli altri. Se di solito non si prendono in considerazione tali differenze, non si fa forse un’astrazione e si parla approssimativamente, appunto come quando si dice che nel tal verso di Virgilio e nel tale di Dante è la stessa espres- sione? Quello che importa notare sùbito si è che la difficoltà non è in uno o altro esempio che si possa scegliere, ma è in tutti gli esempi, perché è nel concetto. Se ci sono stati e ci saranno degli altri, che guarderanno e risentiranno la stessa opera d’arte, come si potrà dire che l’immagine che ne ho io e la vostra e degli altri, e quella dell’artista, sono sempre quell’unica e medesima intuizione? Non si dovrà dire che se l’intuizione è espressa, essa è già gene- ralizzata e falsificata? « Uintuizione individuale non può appa- rire, in quel modo suo proprio che appare, che una volta sola ».^ Se diamo lo stesso nome a tante singole immagini di tanti sin- goli individui, gli è perchè abbiamo attribuito qualche cosa di costante all’opera d’arte, mettendo sotto a un comune denomi- natore dei fatti spirituali diversi. Da ciò seguirebbe che l’opera d’arte sia da considerarsi come lo stimolo per una serie d’intuizióni, allo stesso modo, per esem- pio, che nella Pratica, il C. considera la legge come uno stimolo per una serie di azioni individuali. Analogamente a quanto è detto del concetto di legge si dovrebbe dire: l’opera d’arte è un atto intuitivo che ha per contenuto una classe di intuizioni, contradittoria perché priva di una situa- zione unica e determinata, ineffettiva, perché sorgente sul ter- 1) Problemi estetici, p. 159. 187 reno malsicuro di un concetto astratto, intuizione insomma non intuita.^ Se tutte le classificazioni sono ugualmente arbitrarie, si dovrà dire che di reale non c’è che la singola intuizione di quel dato individuo in quel dato momento di tempo. Il C. dice che com- prendere un’opera d’arte vuol dire riprodurre l’intuizione del- l’artista. Ma l’intuizione non si può riprodurre per definizione. Quando si dice di un’opera d’arte: è la stessa; si è già fatta un’astrazione. La intuizione non è mai « la stessa », ma è sempre altra da sé; essa viene appunto definita come ciò che non si ripete. L’intuizione del poeta noi non la conosceremo mai: essa è assolutamente individuale e non può essere la stessa nell’ar- tista e in noi. Si duo faciunt idem non est idem. Quella che noi conosciamo non è l’intuizione del poeta, ma la nostra che è un’altra, e se possiamo dire: è la stessa, vuol dire che ne ab- biamo fatto un concetto empirico, e sia pure il concetto empirico dell’individuale. « La rappresentazione è individualità » dice il C. e quando se ne fa qualcosa di costante e di generale, viene mutata in con- cetto dell’individuale, riassunto e simbolo di più rappresenta- zioni ».^ È appunto il caso nostro. , • Se possiamo dire: il tale ha capito quest’opera d’arte e il tale altro no, ciò si dovrà intendere nel senso in cui si dice di un magistrato, che la sua applicazione era o non era conforme alla legge. In tutti due i casi si deve cioè ammettere, come vedremo più in là, che la realtà non è mai puramente indi- viduale. Fra coloro che hanno seguito o interpretato la teoria del Croce, qualcuno è arrivato all’affermazione, non certamente crociana, che l’intuizione dell’artista è per noi inconoscibile. Questa tesi è sostenuta per es. dal Lombardo-Radice in una recensione deH’Estetica comparsa nella Rassegna Critica della Letteratura Italiana. Venendo a parlare della riproduzione estetica e della 1) Cfr. Pratica, pp. 325-347. 2) Logica, p. 710. 788 critica estetica il Lombardo-Radice osservava: « non si è detto che l’opera artistica, l’intuizione, è un fatto assolutamente in- dividuale e puntuale? Se cosi è, assoluta concordanza non si può avere, ma solo affinità, vicinanza di gusto o giudizio, che potrà essere anche grandissima, quando noi sappiamo metterci nelle condizioni che destarono l’opera che riproduciamo in noi. Il Cr. mi chiamerebbe un relativista relativo, ma io non posso uscire da questa posizione fino a quando non abbia altra base di ragionamenti ».^ Codesta « altra base di ragionamenti » che il L. R. giustamente chiedeva, è secondo noi questa: che ogni determinazione spiri- tuale, cosi l’intuizione artistica come ogni altra, quando sia considerata in sé stessa, rivela la sua contradizione. Natural- mente il C. non ha potuto accettare il modo di vedere esposto dal L. R. che lo avrebbe portato alla negazione della sua Este- tica. Se l’intuizione non si può comunicare da un individuo al- L’intuizione pu- l’altro, ne segue che non possiamo nemmeno riprodurre la no- ® inintuibile... stra intuizione di un momento prima. In verità noi non restiamo sempre gli stessi, ma la nostra vita fluisce, le nostre condizioni psicologiche non si ripetono due volte che sieno identiche, e noi siamo altri a ogni momento. La nostra intuizione diventa dunque inafferrabile nella sua individualità. Ma se l’intuizione è ad ogni momento irriconosci- bile a noi stessi, essa non è più una realtà ma una supposizione astratta. Se niente si ripete e nessuna espressione può essere la stessa due volte, ne segue che non può essere sé stessa nem- meno una volta. Cosi alla proposizione di Eraclito, che non si può scendere due vòlte nella stessa acqua del fiume, Cratilo avrebbe soggiunto che in quell’una e medesima acqua non si può scendere nemmeno una volta sola. Il Croce stesso ha esposto chiaramente questa difficoltà: « Nel parlare degli stimoli della riproduzione » — egli osserva — « ab- 1) Rassegna Critica della Letteratura Italiana, Voi. VII (1902), n. 5-8, p. 176. 189 biamo soggiunto una cautela, dicendo che la riproduzione ha luogo, se tutte le altre condizioni restano pari. Restano forse pari? L’ipotesi risponde alla realtà? <• Sembra di no. Riprodurre più volte un’impressione mediante uno stimolo fisico adatto, importa che questo non si sia alterato e che l’organismo si trovi nelle medesime condizioni psicologi- che in cui era quando ebbe l’impressione che si vuol ripro- durre.. Ora è un fatto che lo stimolo fisico si altera continua- mente e cosi anche le condizioni psicologiche ». Più giù egli rivela ancora il fatto « quotidiano, immancabile del mutarsi perpetuo della società intorno a noi e delle condizioni interne della nostra vita individuale ». Infine egli si domanda se non bisognerà concludere che le espressioni sono i r r i p r o- ducibili e che ciò che si chiama riproduzione consiste realmente di espressioni sempre n u o V e.^ Ma è soltanto per ridurre ad ahsurdum il modo di vedere di quelli che egli chiama relativisti relativi che il Croce porta il concetto estetico a queste conseguenze. Nella stessa pagina egli passa con disinvoltura oltre a questa difficoltà, perché altri- menti « la vita individuale ch’è comunione con noi stessi (col nostro passato), e la vita sociale, ch’è comunione coi nostri simili, non sarebbero possibili ». Il Croce non si è accorto che è proprio qui dove il concetto d’intuizione si contradice. E, dopo aver tante volte affermato che un individuo è diverso in ogni istante della sua vita, che ognuno sente e vive in modo sempre nuovo e diverso, incom- parabile con gli altri modi di esistere suoi propri e degli altri,- egli afferma qui invece che codesta difficoltà è meramente accidentale e non ha nessun carattere di necessità, e che noi possiamo effettivamente riavere la stessa intuizione ogni volta che possiamo rimetterci nelle stesse condizioni; e che in queste 1) Estetica, pp. 145-147. 2) Estetica, p. 147. 190 t condizioni non solo ci possiamo rimettere per astratta possi- bilità, ma, con l’interpretazione storica, ci rimettiamo di fatto continuamente. Ora non si spiega per quali mai ragioni quelle difficoltà abbiano a essere solo accidentali, mentre derivano dalla definizione stessa dell’intuizione, né come ciò si possa accordare con l’au- tonomia della conoscenza intuitiva. Secondo il concetto di intui- zione, nessun fenomeno si ripete e non esiste identità; e tutta- via l’intuizione non è possibile se non postulando che precisa- mente gli stessi fenomeni si ripetano e affermando l’identità. Nec tecum nec sine te: l’intuizione non può vivere senza quella ...e postula quel- identità ch’essa nega. Come vedremo nelle pagine seguenti, questa contradizione non ha soltanto un significato negativo, in quanto nega la pretesa autonomia del concetto estetico, ma ha anche un importante significato positivo. 115 In questa seconda parte abbiamo preso ad esaminare le dottrine Ricapitolazione particolari della gnoseologia crociana, e abbiamo avuto la con- parte se- ferma che dal disconoscimento della dialettica positiva derivano due specie di errori: in alcuni concetti non viene notata la con- tradizione che è insita in tutti, e quindi vien loro attribuita un’indebita autonomia che spezza l’unità dello spirito. In altri la contradizione viene notata e quindi si crede che il loro valore concettuale debba venir negato e che sieno da considerarsi come pseudo-concetti: nell’un^ caso la fiducia è troppa, nell’altro è troppa la diffidenza. Cosi, secondo noi, il postulare una « poesia in sé » è altrettanto irrazionale come postulare una cosa in sé inconoscibile. La considerazione negativa che non ha avuto per il C. valore contro Tintuizione, gli è sembrata invece valida per negare ogni realtà teoretica alla sensazione. Noi, per con- tro, abbiamo visto che la sensazione e la memoria sono momenti necessari dell’intuizione, come l’intuizione è un momento ne- cessario del pensiero. La sensazione è il contenuto e non esiste senza la forma, ma per la fenomenologia che consi- 191 f 'dera i momenti più astratti e più semplici come anteriori, la sensazione è il dato immediato da cui ogni conoscenza deve par- tire. La memoria è la synopsis che ha per suo contenuto la molteplicità sensibile. Nella memoria pura abbiamo trovato la categoria della cronaca e della certezza filologica, il principio del giudizio meramente percettivo. Il C. considera la cronaca come posteriore alla storia, e certamente il giudizio storico è idealmente anteriore perché la Logica considera come anteriori i concetti più complessi che hanno una più concreta realtà. In questo senso la storia, é in ge- nerale il pensiero, è anteriore anche all’intuizione, e ha l’intui- zione in sé, come suo momento. Se invece s’intende per ante- riore il concetto più semplice, il quale viene prima perché dai gradi più bassi (che l’intelletto astrae dalla sintesi) si deve ri- salire ai più alti, allora non soltanto bisogna dire: Primum an- nales, deinde historiae, ma si deve affermare che la cronaca, cioè il momento filologico, è anteriore alla stessa intuizione. Questa verità è implicitamente riconosciuta dal C. quando so- stiene che la preparazione filologica è necessaria per compren- dere un’opera d’arte, ed è di dominio comune poiché non si può poetare in una lingua di cui si ignorano i vocaboli. La coscienza sensibile appartiene ancora alla nostra vita ani- male, e ugualmente si può notare che negli animali, nei primi- tivi e nei bambini, l’attività memorativa e imitativa prevale sulle attività superiori. L’intuizione artistica è la sintesi della molte- plicità sensitiva neH’unità della memoria che la contempla. La memoria dell’erudito è vuota, mentre quella dell’artista è piena, cioè l’una è commossa e l’altra è fredda. Per quanto vasto sia il materiale che l’erudito considera, la sua memoria deve restare vuota (o se piace meglio: pura) perché egli deve badare all’esat- tezza e astrarre dalla sua impressione soggettiva. In questo senso la cronaca ha minore realtà della poesia, come la matematica ha minore realtà della scienza naturale; tuttavia una cronaca fantastica è un errore, come è un errore una matematica empi- ristica. Il concetto astratto è l’opposto dell’intuizione e insieme 192 ne deriva; cosi appunto la certezza filologica è Topposto deH’im- pressione sensibile e ne deriva come da suo documento. Abbiamo visto confermato il nostro concetto della sintesi intui- tiva dalla dialettica a cui i due momenti inferiori danno luogo: fra edonismo e filologismo nella critica estetica; fra romantici- smo e classicismo e fra lirica ed epica nelFarte. Abbiamo poi procurato di mostrare ciò che vi può essere di vero nella teoria hegeliana che considera il linguaggio come segno, riconducendo tale teoria al concetto filologico della lingua. Infine, accettando la teoria che considera l’espressione linguistica come intuizione, abbiamo rilevato che anche intorno airorigine del linguaggio si possono distinguere due vedute dialetticamente opposte che corrispondono ai momenti costitutivi deH’intuizione. Questa nostra critica è insieme un tentativo di svolgimento. Su nessuno dei nostri pensatori moderni s’è scritto tanto come sul Croce. Ma, come avviene, la maggior parte di codesti scritti appartengono a due categorie ugualmente infeconde: i ripeti- tori passivi e gli oppositori inintelligenti. A questi non appartie- ne di certo il Gentile, per quanto vi appartengano alcuni dei suoi * troppo seguaci. Comunque le critiche degli attualisti, se hanno il merito di aver rivelate alcune reali difficoltà e contradizioni del pensiero crociano, hanno il difetto di provenire da un’astratta opposizione. Negando semplicemente tutte le distinzioni (o, che Negatività della è lo stesso, affermando una indefinita molteplicità di distinzioni critica attuali- poste sullo stesso piano) ci si toglie ogni possibilità di com- prendere e valutare la Filosofia dello Spirito. Che valore può avere ad esempio tutta l’Estetica del C. e la sua teoria sui ' valore economico, come momento della moralità, o il suo con- cetto della dottrina delle categorie come metodologia della sto- ria, che significato possono avere questi e tanti altri concetti scoperti o approfonditi dal Croce, per chi neghi il valore filo- sofico di tutte le distinzioni categoriche? Quando uno avesse esa- minato il pensiero del nostro autore con un siffatto criterio non gli resterebbe altro che impugnare la sua matita professorale e scrivere sotto l’ultima pagina dell’opera: tutto sbagliato! Non si 193 13 tratta di buona o cattiva volontà perché è la stessa posizione assunta che esclude la comprensione. Infatti vediamo che que- sti critici sentono anch’essi che non si può sbrigarsi di un’opera come quella del Croce col riconoscerne soltanto .delle generiche benemerenze verso la cultura, e tuttavia non sanno definirne concretamente il significato filosofico. Questa incapacità critica ci sembra significativa perché non c’è vero progresso in una nuova posizione di pensiero, quando essa non sappia render con- to delle verità espresse dal pensiero anteriore. Se non ci inganniamo, si comincia a sentire ora più di prima (malgrado le superficiali apparenze del contrario,^ e si sentirà sempre più) il bisogno di ricorrere in altro modo al pensiero del nostro autore e di accettarlo veramente come strumento di lavoro. Questo abbiamo procurato di fare noi, e insieme ab- biamo voluto interpretare la dialettica hegeliana in modo da escludere ogni trascendenza. 1) Scrivevo queste parole nel 1928 (Cfr. Giornale Critico fase. VII p. 25), quando ufficialmente si ostentava di considerare come superato il pen- siero del mio autore; ma esse mi sembrano ancora oggi attuali. 194 PARTE TERZA I PROBLEMI DELL’ANALITICA LA GNOSEO LO G I A DELLE SCIENZE CAPITOLO PRIMO 1, Affermazione del concetto astratto come condizione trascen- dentale di ogni conoscenza. Secondo le precedenti osservazioni, pare che l’intuizione risulti un concetto contradittorio e irreale. E veramente si può negare che nella realtà ci sia mai niente di assolutamente individuale, sebbene questa negazione debba poi venir superata. Se voi mi dite: — ma questo qui, questa ta- vola che mi sta davanti, con le sue carte e col- suo disordine, come me la rappresento ora, o ^questo quadro che guardo e ri- sento e ne ho l’immagine viva nella mente; — io vi doman- derò: — è di codesto che avete voluto parlare? — E voi: — si, di questo. — Dunque è lo stesso quello di cui avete avuto l’im- magine un momento fa, e quello che avete in mente adesso; quello che vi rappresentate voi e quello che mi rappresento io. Non vedete che il vostro adesso è già un prima, che il vostro questo è pure un codesto; e che se il vostro e il mio, quello di prima e quello di adesso, sono un medesimo atto, vuol dire che quella rappresentazione non è una, ma che ve ne sono tante e che voi affermate una classe di individuali? ^ - 1) Cfr. Hegel, Werke, voi. II, pp. 73-84 (Phaen. K. I.). Mi riferisco qui e altrove alle parole di Hegel perché si attagliano a chiarire le relazioni fra i concetti che sto trattando, ma con ciò non voglio dire che in quei passi Hegel intendeva proprio questi stessi concetti. 197 ' i 117 Il concetto astrat- to come antitesi dell’intuizione. Come altrimenti ci si potrebbe intendere su ciò che è indivi- duale? Come si può dire: quella tua intuizione che hai espresso ieri, se quel tuo è assolutamente individuale, e solo tuo e non anche in qualche modo non tuo, in qualche modo non indivi- duale, anche mio e vostro, in qualche modo generalizzato e co- stretto a rimanere sempre quello, cosi da poterlo afferrare? Questa costanza e identità che si deve postulare nell’intuizione per poterla concepire, ci indica l’esigenza di un nuovo momento dello spirito : del concetto astratto. L’intuizione in- dividuale e concreta non può sussistere senza quello che è il suo preciso opposto: l’astratta identità. Ora non abbiamo più una sola determinazione, ma due: l’at- tività intuitiva e l’attività matematizzante. L’unità di queste due opposte determinazioni ci darà poi il concetto dell’esperienza; il concetto empirico infatti non è al- tro che il contenuto concreto delle intuizioni dominato e co- stretto in uno schema astratto. A suo luogo vedremo come il concetto empirico non sia che un momento di quella più piena realtà che è la conoscenza storica; qui intanto dobbiamo stabilire che ogni intuizione di cui possiamo parlare, ogni intuizione reale, non esiste che chiusa in un concetto empirico, cioè come il carattere indivi- duale di quel concetto, sebbene l’importanza di questo carat- tere intuitivo sia differente nei diversi concetti, ma differente solo di grado. Tuttavia sarebbe errato il dire che l’arte si di- stingue dalla scienza solo quantitativamente; anzi si deve dire che il punto di vista del giudizio estetico è qualitativamente diverso da quello scientifico. Un’opera d’arte che noi chia- miamo con un certo titolo e col nome dell’autore, è evidente- mente un concetto empirico, tanto è vero che parliamo delle varie edizioni e della varia fortuna di una data opera. Ora ogni concetto empirico ha un suo carattere intuitivo più o meno ricco. Il concetto empirico della mia casa è per me senza con- fronto più ricco di carattere espressivo che non il concetto gene- rico di casa; e egualmente il concetto empirico Socrate è più 198 caratterizzato del concetto uomo, e infinitamente più caratte- rizzata è la rappresentazione di Socrate come ci è presentato nel tal dialogo di Platone; ma anche a questa immagine si deve attribuire una identità e invariabilità concettuale, perché altrimenti non si potrebbe afferrarla e riprodurla nel nostro spirito. Si potrebbe credere che un’opera d’arte, che noi denominiamo con un dato titolo: V Edipo, i Sepolcri, diventi un concetto em- pirico, ma che essa non è tale nella sua realtà immediata. Noi invece affermiamo che quella immediatezza è una mistica sup- posizione e non una realtà. E se qualcuno afferma che l’imme- diatezza è reale, si può chiedergli di mostrarci quella imme- diata intuizione in una effettiva esperienza, e fargli osservare che quando egli dice: « questo che io intuisco adesso » egli ha già delimitato e fissato quel momento. « Il concetto em.pirico — dice il Croce ^ — può essere perfino concetto dell’individuale, perché, se nella realtà, l’individuo è la situazione dello spirito universale in un determinato istan- te; nella considerazione empirica l’individuo diventa qualche cosa d’isolato, di ritagliato e di chiuso in sé al quale si può per tal modo attribuire una costanza rispetto alle vicende della vita che egli vive. » Ma il fatto è che neppure l’immagine di quel determinato istan- te può fare a meno di quell’isolamento e di quella costanza, senza diventare inconsistente e inconcepibile. È questo che c’è di vero nell’omne individuum inefabile degli scolastici e in quello che dice Hegel del linguaggio, che esso vuol esprimere l’individuale e non può. Non si tratta soltanto della inadeguatezza della parola considerata come segno, ma è l’in- tuizione in sé che è inadeguata alla realtà, l’intuizione che è veramente inintuibile. Questa è la sua contradizione. Chi volesse ora ritornare ai problemi estetici particolari ai quali abbiamo accennato, non gli sarà difficile riconoscere che quejla 1) Logica, p. 46. 118 L’immediatezza deU’intuizione è unasupposizione metafisica. 119 Problemi estetici particolari che sorgono dall’ino- pia dell’intuizio- ne pura. 199 120 Teoreticità del concetto astratto. mancanza di individualità che il C. dimostra nel plagio, nella traduzione, nell’unità della lingua, ecc. e su cui egli si basa per negare quei concetti, è l’ inopia stessa dell’intui- zione, la quale è impotente ad essere puramente individuale, cioè è impotente ad essere effettivamente sé stessa. Basandosi sul concetto dell’intuizione pura, il C. ha affermato che un’opera d’arte non si può tradurre, o plagiare, o confron- tare con altra, perché ogni espressione ha solo in sé medesima la sua definizione ma egli non si è accorto che spingendo al suo culmine codesto concetto dell’individualità, cioè pensandolo rigorosamente, esso passa necessariamente nel suo opposto. Orbene, svelando la contradizione dell’intuizione, si afferma nello stesso tempo la necessità del concetto astratto. Il Croce, che non ha riconosciuto questo momento dello spirito teoretico, è stato portato ad accettare l’enorme concezione (enorme, per quanto diffusa ai nostri giorni) che. nega il carattere conosciti- vo delle discipline matematiche e fisiche. Questa concezione fa da esatto parallelo alla teoria hegeliana della morte dell’arte, e resterà nella storia — appunto come è rimasta quella teoria di Hegel — come esempio di un errore grandioso. Fu detto dal -Croce e da altri- che non si riscontra mai in due fatti reali quella identità che è postulata dal concetto mate- matico, e che dunque questa disciplina fa violenza a quella accidentalità e particolarità, a quella contingenza che è propria della vita reale. Ma se si pone mente che la realtà non è fuori del nostro conoscere e che senza identità nessuna cognizione è possibile, si deve concludere che la realtà stessa include e supera le due opposte determinazioni, la particolarità intuitiva e l’astratta identità. Non è vero che questo atto spirituale, questa creazione di co- noscenza che è l’astrazione matematica, appartenga allo spi- rito pratico, se non nel senso che ogni atto spirituale è anche atto pratico, cosi l’arte come la geometria. Quello che nell’at- tività del concetto astratto c’è di arbitrario, o meglio d’irrazio- nale, viene dal fatto che anch’esso è inadeguato alla realtà e si 200 contradice; in questo senso è giusto dire che non ci sono mai due fatti assolutamente identici, come è giusto dire che non c’è mai alcuna conoscenza puramente individuale; e di tutti i concetti puri si può mostrare che sono inadeguati alla realtà e che si contradicono (tranne di quell’uno che tutti li com- prende); ma al teorico della conoscenza importa intanto vedere se il concetto che egli esamina sia o no un momento necessa- rio nella determinazione del Concetto; poiché ogni momento categorico è necessario se anche non bastante. Fra l’intuizione e il concetto astratto c’è antinomia. Come l’af- fermazione del principio d’identità è nello stesso tempo la nega- zione dell’intuizione, cosi — d’altro canto — criticare l’irrealtà del concetto matematico non significa altro che affermare l’indi- vidualità del conoscere, cioè affermare l’intuizione. Ed è signifi- cativo il fatto che per l’appunto il Croce, il quale ha cosi vi- gorosamente affermato il momento estetico, abbia fatta sua quella grandiosa negazione delle scienze intellettuali e abbia accettato una dottrina, secondo la quale uomini come Euclide, Galilei e Maxwell non avrebbero importanza come scopritori di verità ma come uomini pratici.^ Nella realtà vi sono tutti e due i momenti e tutti e due sono negati. E quando l’intelletto ne sostiene uno esso si sente in- crollabilmente nella verità e appoggiato dai fatti, e ben vede la contradizione dell’altro; e quando sostiene l’altro vede con altrettanta evidenza la contradizione del primo. Per questa equivalenza degli argomenti, per questa laoaGéveLa tcòv Xóycov i due avversari restano sicuri di sé e inconcilianti. A nulla valgono i fatti che ognuno dei due può portare ad esempio. 1) Poiché l’indagine matematica e fìsica è considerata dal C. come ma- nipolazione pratica di concetti e poiché i soli veri concetti sono per lui quelli storico-fìlosofìci, egli dirà poi che le scoperte matematiche e fì- siche, per quel tanto che hanno di valore teorico, si riducono a scoperte storiche. In verità un criterio meno atto a comprendere la storia delle scienze di quello che ci viene offerto da codeste gnoseologie pramma- tistiche non si potrebbe immaginare. 201 121 L’intuizione e il principio degli indiscernibili. perché il fatto vale secondo il punto di vista da cui è guar- dato. Ricordando l’aneddoto di Leibniz, che s’era messo a spiegare il principio degli indiscernibili alla corte della regina Sofia Carlotta — per cui le dame e i cavalieri, passeggiando nei giardini, si davan penai a cercare due foglie che non si potessero distinguere l’una dall’altra, — Hegel osserva che « la differenza non è però da considerarsi come una esteriore e indifferente diversità, ma proprio come differenza in sé ».^ Vale a dire che la differenza fra tutti gli oggetti percettibili è una necessità concettuale e non consiste nella casuale differenza fra due oggetti qualunque. In- fatti una di quelle gentildonne, invece di perder tempo a cer- care la foglia, avrebbe potuto ritagliare semplicemente da una carta due o tre pezzi con lo stesso taglio di forbici, per por- tarli poi al filosofo dicendo: — Ecco, questi sono uguali, ugua- lissimi, tant’è vero che non li potete distinguere l’uno dall’altro, io li nascondo e ve ne mostro uno; e voi non sapete quali dei due sia; se la natura non ha mai fatto due cose perfettamente simili, vuol dire che le ho fatte io; se prima non c’erano ora ci sono e più altre cose. Se poi il filosofo avesse presa una lente per rilevarne le differenze minute, questo sarebbe stato la- sciarsi mettere sulla cattiva strada, e gli si sarebbe potuto obiet- tare: che i due pezzi di carta, visti sotto la lente, saranno si differenti, ma come noi a occhio nudo non vediamo quelle differenze, vuol dire che almeno quelle nostre immagini sono del tutto identiche, e anche le immagini sono « nella natura ». Questo non sarebbe stato soltanto un giochetto, ed è pur giusti- ficata l’affermazione che l’identità è nel reale. Ma non per questo è da rigettarsi l’affermazione opposta, nep- pure ammettendo che si fossero presi due oggetti di una pasta cosi omogenea da non presentare alcuna differenza sotto la 1) « Jedoch ist zu bemerken, dass der Unterschied nicht bloss als die ausserliche und gleichgiiltige Verschiedenheit sondern als Unterschied in sich aufzufassen ist». Werke, VI, p. 236 (Enc. par. 117, Zus.). 202 lente; poiché il fatto stesso per cui possiamo dire che due cose, o diciamo pure due percezioni, son due e non una, implica la loro differenza. Due oggetti — dice Hegel — per diversi che siano, hanno se non altro questo di uguale, che sono oggetti e che ciascuno di essi è uno; ^ ma altrettanto si può dire: due oggetti, per uguali che siano, hanno se non altro questo di differente, che occu- pano uno spazio o un tempo diversi, cioè appunto che sono due oggetti e non uno solo. Qui si vede come i due momenti passano l’uno nell’altro, e il momento dell’immagine, che è del particolare, diventa quello dell’identità; mentre il concetto di numero che è dell’astratta identità, diventa quello della differenza. Noi diciamo dunque che l’identità è nel reale, o meglio, poiché la realtà non esiste in sé ma solo come produzione spirituale, che l’identità viene posta da noi, ma posta non per arbitrio, (come vogliono i prammatisti) bensì necessariamente, con un atto, che è condizione trascendentale d’ogni conoscenza. 122 Noi riteniamo di aver dato in queste pagine una deduzione La deduzione del principio d’identità. Il vecchio razionalismo, per cui questo trascendentale •1 • • • J n uu • j 4- principio dV era il sommo «principio della conoscenza, avrebbe considerato dentità. una stravaganza la pretesa di dedurre il principio d’identità, cioè di dedurre il concetto della deduzione. E qualche sofista greco avrebbe potuto comporre una favoletta esopiana per sa- tireggiare tale pretesa; la quale — considerata entro i limiti del pensiero astratto — pare simile a quella di uno staccio che, insuperbitosi per aver saputo abburattare le farine, si contorcesse tutto credendo di poter vagliare anche sé stesso at- traverso i propri buchi. Nella polemica di Aristotele contro gli scettici, negatori dell’i- dentità, c’è veramente un’intenzione dimostrativa (in senso gno- seologico e critico), poiché egli mostra che pur nella negazione dello scettico quel principio è sottinteso. Ma lo scettico avrebbe potuto ribattere: io sono un indagatore che si astiene dal giu- 1) Werke, IV, p. 46. Anmerkung. 203 123 La definizione matematica. dizio e .non nego né affermo. O, come disse poi il Montaigne, il risultato della mia indagine non è: « niente si può sapere e 10 non so niente » ; bensì : « che cosa è la verità » e « che cosa so? ». La mia conclusione non è un’affermazione apofan- tica ma puramente semantica, io non penso e non credo nel pensiero, ma esprimo semplicemente un mio stato d’animo. Ora noi riteniamo che si possa e si debba mostrare come anche nella più immediata intuizione di uno stato d’animo c’è già l’esigenza del concetto. Se cosi non fosse, il concetto e il pen- siero logico non avrebbero alcun valore. Se il concetto astratto è il sommo principio delle matematiche e se l’identità non è un dato immediato ma è posta dal pen- siero, non aveva torto il Vico nel riconoscere nella matematica 11 suo principio gnoseologico della conversione del vero col fat- to; e se il Croce ha creduto di vedervi « un riscontro piuttosto metaforico che logico » ^ ed ha condannata questa applicazione del principio vichiano, ciò avvenne per la misconosciuta natura dialettica dei momenti ideali che ha portato alla teoria pram- matistica dei pseudo concetti. % 2. La sintesi a priori matematica. Che cosa è la matematica? Essa non è altro che creazione di astratte identità. Il matema- tico parte da certi postulati che si assumono per veri e si chie- de quali altre proposizioni sieno identiche a quelle, e se ne possano dedurre in forza del principio di non contradizione, sicché, ove si accettino quelle premesse, non si possano logi- camente rifiutare le conseguenze. Abbiamo detto che un’intuizione non potrebbe essere afferrata dal nostro spirito se la sua individualità non venisse negata da un atto mentale che la costringa a rimanere identica a sé. È questo il compito della definizione matematica.^ La definizione fissa l’elemento costante che è il preciso opposto dell’intuizione, ma che non può mancare nell’effettivo atto intuitivo. Essa è un atto di astrazione in quanto prescinde dagli elementi in- 204 dividuali, ma non costituisce un intervento arbitrario, anzi una necessità, perché senza codesto intervento l’intuizione stessa non sussisterebbe. ^ Il criterio con cui si giudica se un’operazione matematica è riuscita o no, è quello dell’identità logica fra il quesito e il risultato. La matematicità di una proposizione non risulta tanto dalla proposizione stessa quanto dalla dimostrazione, cioè da quella catena di ragionamenti per cui la proposizione risulta neces- 124 sariamente dalle sue premesse. La forma di tutte le proposi- I giudizi mate- zioni matematiche è: A = A e i suoi giudizi, in ciò che hanno di matematico, sono tutti analitici a priori. Come è noto, Kant, a differenza di Hume, sostiene invece che i giudizi matematici sono sintetici. Nel giudizio analitico, egli dice, il predicato deve risultare da una pura analisi del sog- getto, mentre se noi prendiamo una qualunque proposizione matematica vedremo che il predicato aggiunge qualche cosa che non c’era nel soggetto. Esaminiamo la proposizione: la retta è la più breve congiunzione fra due punti. Nel concetto di retta noi abbiamo definito soltanto la forma di quella linea per cui la possiamo, ad esempio, distinguere da una spezzata o da una curva. Ma non abbiamo affermato nulla per ciò che riguarda la sua grandezza: tanto è vero che un segmento di retta può essere più breve o più lungo di un altro segmento curvo. Dun- que, quando giudichiamo: la retta è la più breve congiungente fra due punti, aggiungiamo una determinazione di grandezza che non era compresa nel concetto di retta. Questo ragionamento è un esernpio classico della tendenza, che abbiamo notata anche nel Croce, di oggettivare le distinzioni concettuali, come se esistessero ontologicamente in sé delle ope- re d’arte, di matematica ecc.^ È chiaro invece che ogni giudizio 1) Tale difetto o meglio errore è evidentissimo neH’affermazione kan- tiana che il giudizio « tutti i corpi sono estesi » è analitico, e che quello « Toro è pesante », sarebbe sintetico; mentre non c’è alcuna ragione per assumere l’estensione e non la gravità come nota implicita del concetto di corpo. 205 125 Ogni giudizio è analitico o sin- tetico secondo il punto di vista da cui lo si consi- dera. * 126 L’identità non è data immediata- mente ma è posta dal pensiero. sarà analitico o sintetico secondo il punto di vista da cui lo si considera, perché tanto l’analisi che la sintesi sono essenziali al pensiero; ma quando si parla di un giudizio matematico si enuncia con ciò il proposito di considerarlo come analitico. La matematica pone l’identità dei suoi termini; se A = B anche B deve essere uguale ad A. La retta è la più breve congiun- gente tra due punti perché noi chiamiamo « più breve » il segmento che congiunge due punti in linea retta. Infatti ci ri- sulta che essa è la più breve con la misurazione, cioè traspor- tando un segmento retto sulla linea che vogliamo misurare. Lo stesso vale per l’altro esempio kantiano, cioè per l’addizio- ne. Nello stabilire la scala dei numeri naturali abbiamo definito il 2 come il numero che si ottiene aggiungendo unità a unità, il 3 come 2 + 1, il 4 come 3 + 1 ecc.; da ciò possiamo ricavare analiticamente, cioè per semplice identità, sostituendo al 2 il termine equivalente, che (1 + 1) + 1 = 3, e quindi che (1 + 1) + (1 + 1) = 2 + 2 — 4 e cosi per qualunque addizione. Che codeste operazioni sieno analitiche risulta anche dal fatto che si possono compiere con l’aiuto di una macchina calcolatrice, predisposta in modo da dover dare il risultalo esatto. Kant nota che altro è sapere che due numeri a e b vanno am- massati insieme, cioè sommati, e altro sapere a quale numero corrisponda il risultato di quella addizione; e che se la propo- sizione a + b=c fosse una proposizione semplicemente iden- tica, essa dovrebbe essere immediatamente evidente e non ci sarebbe mai bisogno di fare un calcolo per sapere il risultato di una addizione. Ora è ben vero che l’operazione a+ b si può suddividere non solo in due, ma in tutta una serie di operazioni, ma quello che importa è che (tranne gli assiomi da cui si parte) i singoli termini dell’operazione sieno tutti deducibili per iden- tità dalle stesse premesse. L’opinione poi che il risultato di una serie di analisi debba essere immediatamente evidente, deriva dal pregiudizio che l’identità sia qualche cosa di immediata- mente dato, e non sia posta dal nostro pensiero; dal pregiudizio che l’analisi non sia anch’essa un atto spirituale, che analizzare 206 non sia pensare, cioè produrre una conoscenza, come se uno spi- rito morto potesse compiere delle analisi! ^ Appunto per questo c’è qualche cosa di profondamente vero nella proposizione kantiana che i giudizi matematici sono tutti sintetici, ma non nel senso in cui lo dice Kant quando contrappo- ne la .sintesi all’analisi. Se per sintesi a priori s’intende, come pur si deve, la spontanea attività dello Spirito, la quale non rispecchia mai passivamente una realtà data, ma crea sempre il suo oggetto, allora non sol- tanto si deve dire che i giudizi matematici sono sintetici, cioè costruttivi, ma anche che ogni analisi è un atto sintetico, cioè spirituale. Sintetico, in questo senso, è anche il giudizio che ogni quantità è uguale, a sé stessa e che A = A, perché l’iden- tità (come la bellezza, come l’equità, come ogni termine di giu- dizio) non esiste ontologicamente, ma è posta dal pensiero. Ora quale è la relazione fra la matematica e l’intuizione? La matematica è creazione di concetti identici, ma l’identità nasce dal suo opposto. L’opposto dell’identità, cioè dell’astratta uni- versalità, è l’individualità concreta, cioè l’intuizione. Il concet- to matematico presuppone l’intuizione come la filologia pre- suppone il documento sensibile, e come la legge giuridica pre- suppone la forza esecutiva. L’esattezza filologica è il preciso 1) Come l’analisi ci possa far acquistare delle cognizioni che, pur es- sendo implicite nelle premesse, non ci risultavano, si vede assai chiara- mente dal seguente giochetto matematico, citato, se ben ricordo, dal Poincaré: si chiede se si possa affermare con certezza matematica se vi sieno o no ai mondo più uomini con lo stesso numero di capelli sul capo. A prima vista sembra che non abbiamo elementi per rispondere con assoluta certezza e che per farlo dovremmo ricorrere a una serie di osservazioni empiriche. Noi però sappiamo che un capo umano ha una superficie capelluta inferiore a un quadrato di mezzo metro di lato, cioè di millimetri quadrati 250.000; e che in un millimetro quadrato ci stanno meno che cento capelli e che dunque nessun capo umano può contenere (250.000X100) più di 25 milioni di capelli. E, poiché al mondo vi sono 2000 milioni di uomini, è certo che vi sono almeno (2000:25) 80 uomini che hanno lo stesso numero di capelli. Da questo esempio si vede pure che se l’esattezza del matematico si giudica col criterio dolila coerenza logica, la sua ingegnosità o genialità inventiva si rivela nel trovare di volta in volta su quali premesse date egli abbia da esercitare la sua analisi. 127 In che senso si possa parlare di una sintesi a priori m ate - malica. 128 Il concetto ma- tematico presup- pone l’intuizione come l’antitesi presuppone la tesi. 207 129 Definizione della legge sperimen- tale. opposto della coscienza sensibile, e il filologo giunge all’esat- tezza facendo astrazione dalla sua sensibilità; ma se non ca- dessero sotto ai suoi e ai nostri sensi i documenti da cui egli parte, il suo lavoro mancherebbe di fondamento. L’equità giu- ridica è il preciso opposto della violenza, e il cittadino entra a far parte di un ordine giuridico solo in quanto egli rinuncia a ricorrere alla sua forza individuale per farsi, come si dice, giustizia da sé. Ma se la legge non disponesse di una forza esecutiva, tutto l’ordinamento giuridico mancherebbe di fon- damento. Ugualmente il matematico deve rinunciare all’intuizione, e ogni elemento intuitivo che si insinui nelle sue dimostrazioni ne in- firma il carattere matematico; ma se le definizioni da cui egli parte non avessero alcun riferimento intuitivo, tutta la sua co- struzione mancherebbe di fondamento. Quando si parla di una matematica priva di riferimenti intuitivi, o si contradice al con- cetto stesso di questa scienza, oppure si parte da un concetto poco rigoroso di ciò che è intuitivo, assumendo la parola intui- zione in senso ristretto per significare una determinata specie di rappresentazione. 3. Uintuizione e il concetto astratto come momenti del con- cetto empirico. I due momenti opposti si ricongiungono in un momento superiore che è quello del concetto empirico. Questo, che è il momento della scienza naturale e fisica, rac- chiude in uno schema astratto la molteplicità delle rappresen- tazioni particolari e conferisce loro la costanza della legge. Trovare una legge fisica significa: formulare uno schema astrat- to che colleghi l’una all’altra e raccolga in unità lé nostre rap- presentazioni. La legge empirica crea la « connessione necessa- ria ». Se la forma dei giudizi matematici è A = A, quella di tutte le leggi sperimentali è invece: ”A B C D ecc. sono colle- gati fra loro in modo determinato”. Questa relazione è espressa dal concetto di funzione. Il concetto di causa la esprime in- vece dicendo: ogni volta che ci sarà A B ci dovrà pur es- 208 sere C D, cioè: a cause identiche corrispondono effetti identici. Riteniamo di essere in generale d’accordo col Croce nella for- mulazione del concetto empirico, non siamo invece d’accordo sul suo valore gnoseologico. Il Croce ha rifiutato ogni razio- nalità al concetto empirico negando cosi ogni valore conoscitivo non soltanto ai concetti astratti della matematica, ma anche alle leggi della scienza della natura. Difatti le une non si pos- sono concepire senza gli altri. Che il concetto empirico non ci dia una piena conoscenza del reale ci sembra evidente. Più in là cercheremo di mostrare 130 come esso riveli la sua insufficienza e passi nel suo opposto. Quel Categoricità del che importa stabilire ora è che non ci può essere niente di empi- reale che non sia anche un concetto empirico: non un teorema aritmetico o geometrico, perchè, sebbene il matematico non consideri le sue formazioni concettuali che dal punto di vista della loro astratta identità, pure nel suo pensiero effettivo quelle formazioni hanno sempre una loro espressione indivi- duale e concreta; e non l’immagine di un po.eta il quale, se anche sembra contemplare nella sua opera soltanto l’espres- sione personale e immediata, non può veramente possedere quella immediatezza, se la sua immagine non ha e non con- serva la sua identità con sé stessa. Nella realtà non esistono né intuizioni puramente immediate, né formule astrattamente identiche; ma queste due opposte determinazioni si trovano sempre unite. Secondo il Croce le singole rappresentazioni, prive di quella continuità logica che il nostro pensiero attribuisce agli oggetti dell’esperienza, sono reali, mentre il raggruppamento delle rap- presentazioni in un concetto empirico e tipico non sarebbe che un atto arbitrario. Ma abbiamo visto che quelle singole rap- presentazioni sono inconsistenti nella loro singolarità e non si ritrovano se non in un tipo che le comprende. Quando par- liamo di un’opera d’arte, noi ne parliamo sempre come di un tipo costante (sempre, e non soltanto in certe affermazioni approssimative); tanto è vero che pretendiamo di essere com- 209 14 presi da altri, e ammettiamo di aver compreso gli altri che ne hanno parlato, e possiamo dire che una data opera è stata maggiormente apprezzata nel secolo tale, è stata poco com- • presa nel tal paese, ed è ritornata in onore per queste e queste ragioni. Non serve dire che la contemplazione dell’arte deve attingere direttamente alla realtà, perché alla realtà storica non si può attingere che formando dei concetti empirici, i quali possono essere molto generali come il concetto di animale o il concetto di corpo; o molto individuali, come i nomi propri e più ancora, ma devo- no essere sempre concetti empirici, senza di che le nostre in- tuizioni del mondo non sarebbero che una caotica totalità indi- stinguibile. Abbiamo visto in che senso si possa parlare di una sintesi a priori matematica. A maggior diritto si può e si deve affermare una sintesi a priori empirica. Il concetto empirico è sintesi della intuizione e del concetto astratto; sintesi che però non è come un composto dei suoi due momenti, ma è originaria rispetto ad essi. Dalla categoria del concetto empirico si ot- tiene per un'atto di astrazione e di analisi la categoria del- rintuizione e quella del concetto astratto, le quali in realtà non si trovano mai a sé, ma solo in seno alla loro sintesi. Per ragioni di opportunità e di esposizione ad hominem, si può dire: abbiamo il concetto della conoscenza individuale, l’intuizione; questo si contradice e otteniamo il concetto oppo- sto: il concetto astratto. Facciamo la sintesi dei due, e otte- niamo una terza categoria, il concetto delle scienze empiriche. Ma più razionale è la via opposta; nel concetto storico rilevare il momento empirico, fare l’analisi di questo e rilevarne i due momenti: l’individuale e l’astratto. In questo modo non si sba- lordisce l’intelletto con raffermare una contradizione necessa- ria, e risulta più chiaramente in che senso i concetti inferiori sono contraditto ri: cioè in quanto sono presi astrattamente a sé; e in che senso sono giustificati e necessari: cioè in quanto sono costitutivi del concetto superiore e ne indicano due va- 210 lori positivi. 'OÒóq àvco - óòòq Kaxco, la via in su e la via in giù sono una sola e medesima. Essendo i concetti inferiori più semplici, avviene che riescano più accessibili e che Tintelletto li afferri prima di avere la pie- na coscienza di quelli superiori e più complessi. Anche per ciò può sembrare opportuno di cominciare in una trattazione filosofica dai gradi più semplici. Non è difficile sentire degli uomini che non credono nella filosofia, mentre invece hanno fede nella matematica, oppure che non credono nella moralità, mentre credono benissimo neH’interesse. La storia della civiltà ap- pare come un’evoluzione dai gradi inferiori ai più alti. Ma, come s’è detto, ciò che fenomenicamente appare anteriore, è 131 posteriore logicamente. Considerando i gradi inferiori della Le determinazio- coscienza pare che non sia in essi ancora sorta la esigenza del concettuali . . T 1 m . T sono contraditto- superamento, che sieno inconsapevoli della propria contradi- rie in sé ma non zione: non sono per sé quelle contradizioni che sono in sé. Solo per sé. in questo significato è vero quello che il C. dice della matema- tica che essa non muore per le contradizioni di cui è contesta « come un animale velenoso non muore del proprio veleno per- chè non se lo inocula »; ^ e l’arte, possiamo dir noi, vive nella sua contradizione con non minore innocenza: essa si fa altro da sé e diventa un concetto astratto senza avvedersene. Que- sto, si può dire, avviene per noi dietro le sue spalle.^ L’intuizione è il contenuto, il concetto astratto è la forma del concetto empirico. I concetti astratti senza contenuto in- tuitivo sono vuoti, sono come il contorno di una superficie che non c’è e che quindi non può avere contorni. Ma le intuizioni, senza un loro schema astratto che le delimiti e raccolga, sono insussistenti. Uno che avesse contemplato delle macchie colo- rate senza interessarsi d’altro che del loro tono di colore, sen- za dare importanza al disegno e alla forma, potrebbe forse credere che quelle macchie sono indipendenti dal disegno, che 1) Logica, p. 255. 2) « Was fiir uns gleichsam hinter ihrem Rùcken vorgeht » (Hegel, S. W. II Phaen. Einl. p. 71). 211 il colore non ha bisogno di una qualsiasi forma, e sostenere che quello è colore puro, e che il colore sta da sé. È in que- sto senso che l’intuizione sta da sé, come un aspetto che si può considerare astraendo dalla piena realtà del concetto. L’intuizione pura è per sua definizione incomunicabile, anzi, inintuibile; quello che si può comunicare (ed è per definizio- ne il comunicabile) è il concetto empirico, e di questo si può considerare più particolarmente l’aspetto intuitivo. In fatto d’arte è diventata familiare la distinzione fra conte- nuto e forma, ma questa distinzione (con le difficoltà che può portare con sé) non è che un caso particolare di una legge più generale. Anche nel concetto morale per es. si può distinguere il momento concreto della passionalità da quello formale del- l’imperativo, e se per il criterio morale si condanna un’azione commessa senza freno di disciplina, neppure si apprezza un’a- zione compiuta senza amore, per un dovere che non sia inti- mamente sentito. La stessa distinzione si può rilevare anche nel concetto delle scienze empiriche:, vi sono delle opere in cui si ammira la ric- chezza delle rappresentazioni e sono per lo più quelle che si chiamano più propriamente naturalistiche; e vi sono altre am- mirevoli pel rigore delle definizioni e delle leggi, e sono quelle dei fisici. Disse il C. che una scienza empirica é tanto migliore quanto è più prossima al concreto e quanto meno vi predomi- nano le generalizzazioni e astrazioni. Questa preferenza è del tutto unilaterale e potrebbe indurre a una valutazione storica arbitraria e falsa. Infatti non sappiamo perché il Cuvier sia da stimarsi miglior scienziato del Newton. Con lo stesso di- ritto altri, invece, afferma che migliore scienza é quella che più si avvicina alla matematica pura. La verità è che i due momenti sono ugualmente necessari: la ricchezza e finezza del- le osservazioni è un pregio che si riferisce al contenuto, il rigore e la coerenza delle leggi è il valore del concetto astratto. I due momenti inferiori costituiscono dunque anche qui due 212 criteri di valore per il momento superiore, ma, quando l’uno dei due sia distaccato dall’altro, esso non indica più un pregio i32 ma un difetto e un errore. Come nell’arte non riuscita si possono Dall’intuizione e fare due rimproveri opposti: che è fredda forma senza senti- concetto ^ ^ ^ . 1 • T j? astratto si deriva mento, oppure invece che e enfasi sentimentale priva di for- un criterio nega- ma; cosi si può dire che una legge sperimentale non ha valore tivo e un criterio perché è priva di contenuto rappresentativo, perché è una dicar^^la^rice^r^a' forma vuota che gira su sé stessa, pura definizione che non sperimentale, dice nulla, perché è un tautologismo; oppure invece che man- ca di rigore e di coerenza, che ci offre piuttosto delle impres- sioni personali che delle osservazioni scientifiche, che è un prodotto della fantasia. Come abbiamo detto, in ogni sintesi spirituale si può rilevare questo carattere dialettico per cui 1’ errore della cate- goria superiore appare come la verità e la re- gola nella categoria inferiore: l’impersonalità e la freddezza, che sono un errore nell’arte, diventano la legge della filologia; l’interesse, che é un peccato per la morale, è la norma dell’economia; la neutralità spassionata, che é un’ignavia nel- l’amore, appare come la regola del diritto. Cosi il tautologismo e la fantasticheria, che sono errori nel concetto empirico, defi- niscono il procedere proprio dei suoi due momenti inferiori. La matematica è appunto un’organizzazione di tautologie, e la poe- sia è la creazione immaginosa di rappresentazioni contemplate con animo perturbato. Si potrà perciò dire che per essere buoni poeti basti essere in- coerenti scienziati, o che per essere buoni matematici basti man- care di fantasia? No, certamente; e anzi in ognuna di queste defi- cienze si può scoprire insieme la deficienza opposta. Se in un’o- pera di poesia c’è una parte senza forma, a guardar meglio si vede che quella parte è anche senza sentimento; e quei momenti che sono sentimentali ed enfatici, di cui s’era detto che c’è del sentimento ma manca la contemplazione, poi si vede che sono insieme enfatici e freddi, che se manca la contemplazione non c’è veramente neppure il sentimento. D’altra parte l’apparente 213 impeccabilità formale, dove manchi il sentimento, si rivela in 133 realtà non solo arida ma informe. Conversiope dei Questa irrequietezza del concetto, questa reciproca invadenza ™o^8™ru!ti vivrei opposte determinazioni si nota sempre quando i due mo- concetto empi- menti sieno distaccati dalla loro sintesi. Nel concetto empirico ”<^0* Tastrattezza e il tautologismo passano nel loro opposto e diven- tano inesattezza e fantasticheria: se il concetto è privo di con- tenuto non lo si può nemmeno pensare coerentemente, se è una pura definizione, vuol dire che esso non è che una parola, una mera espressione. E viceversa se il concetto empirico è fantasti- co e incoerente, esso riesce contradittorio e inafferrabile per l’im- maginazione, e, perduta ogni concretezza, non ne resta che una formula vuota. La pura forma, privata del contenuto, diventa informe essa stessa; il puro contenuto, privo di forma, diventa vuoto esso stesso. Il concetto empirico implica tanto l’intuizione concreta quanto 10 schema astratto nel modo in cui, secondo la sistemazione cro- ciana, il concetto superiore implica l’inferiore. Nel concetto supe- riore si trova sempre il momento inferiore, perché la tesi e l’antitesi si trovano nella sintesi, ma quello che il C. non ha visto è che se nel concetto inferiore non si trova la categoria supe- riore, ciò avviene perché l’intelletto considera quel concetto astrattamente e dimentica da dove lo ha astratto. Perciò invece di dire che nel concetto inferiore non c’è quello superiore è più esatto dire che c’è 1 ’ e s i g e n z a di quel concetto. Nella gnoseologia del C. il concetto astratto è definito come po- steriore al concetto empirico, ed è vero che dobbiamo prima aver formato dei concetti empirici per poter poi in essi conside- rare il solo aspetto dell’identità. Ma bisogna intendersi, perché 11 C. dirà anche che il concetto dell’utile è anteriore a quello della moralità mentre si tratta dello stesso caso e il concetto di utile non si ottiene che considerando un aspetto necessario del concetto morale. Se si considera come anteriore il concetto più semplice e più astratto, il concetto inferiore, in cui l’intelletto s’imbatte prima (e in certo senso vi arriva prima anche la storia 214 deirumanità), allora si deve dire che è anteriore il concetto astratto a quello empirico e l’utile alla morale; ma se per an- teriore intendiamo il concetto più complesso e più reale, quello che comprende in sé i concetti più bassi, che è anteriore perché lo spirito è sintesi originaria, allora si dovrà dire che il concetto astratto è posteriore al concetto empirico e l’utile alla morale, e che l’intuizione è posteriore al pensiero e lo presuppone. In questo senso le « finzioni concettuali » sono posteriori al con- cetto speculativo, non come una posteriore manipolazione, ma come momenti contenuti nel Concetto. Abbiamo affermato che il concetto empirico implica quello astratto, vale a dire che l’esperienza .implica la razionalità e che la scienza fisica è impossibile senza un’attività matematiz- zante. Generalmente prevale invece l’opinione che fra concetto astratto ed empirico vi sia semplice opposizione: l’uno sarebbe concreto senza universalità e l’altro universale senza concretez- za. Questa opinione, che svisa la realtà storica e concettuale, deriva dalla poco chiara coscienza che del concetto dell’intui- zione si ebbe in generale prima del Croce. L’intuizione, e non il concetto sperimentale, é il momento della concretezza priva di universalità, ed essa richiede come suo opposto il concetto 'astrat- to. Quella falsa opposizione parve giustificata storicamente dal- l’opposizione polemica fra empirismo e razionalismo, e queste due correnti del pensiero prekantiano vengono di solito consi- derate in antitesi l’una all’altra. Secondo noi si deve affermare invece che la tendenza razionalistica di Cartesio, Spinoza e Leibniz è un vero e proprio anacronismo, una reazione e un ri- torno al pensiero astratto dei Greci; un punto di vista già su- perato nella filosofia del Rinascimento e confutato in atto dalla scienza fisica e matematica di Galilei. Non occorre dire che ciò vale per la tendenza razionalistica e astratta e non già per la tendenza idealistica di quei filosofi. Per comprendere la suggestione che l’ideale matematico ha esercitato sul razionalismo moderno è da tener presente che l’epoca di Cartesio e di Fermat, di Leibniz e di Newton fu l’e- 134 Falsa antitesi fra concetto astratto e concetto em- pirico. 21.5 poca d’oro della matematica.^ Ma la vera funzione storica del razionalismo si ebbe 19 secoli prima, quando all’arbitrio della coscienza individuale si oppose la necessità e l’identità del con- cetto. Ma non si può contrapporre il razionalismo aH’empirismo per la semplice ragione che quest’ultimo è già in sé stesso razio- nalistico. La stessa confusione che si suol fare opponendo storicamente quei due indirizzi, è stata fatta concettualmente da Kant con la sua opposizione dei giudizi analitici a quelli empirici. Anche qui vale la stessa obiezione: il giudizio sintetico a posteriori contiene già in sé quello d’identità. Come si potrebbe dire: l’ac- qua é liquida, trasparente, ecc., se il concetto « acqua » non man- tenesse la sua identità nel giudizio? Il procedimento di Kant ha poi questo di strano, che egli incomincia con raffermare che i giudizi di esperienza sono privi di necessità oggettiva, eppure egli si propone appunto di mostrare con la sua Critica da che cosa derivi la necessità e l’oggettività dell’esperienza. Questa dif- ficoltà, notata anche dal Rosmini, fu sollevata per primo da Kant stesso nella nota al paragrafo 22 dei Prolegomeni; sollevata ma non risolta.' Kant dice: ciò che v’é di necessario nei giudizi d’esperienza non deriva dall’esperienza stessa. Si sarebbe invece dovuto dire: il carattere di necessità non appartiene al contenuto intuitivo ben- sì al concetto e ogni conoscenza sperimentale (ogni esperienza) include necessariamente delle determinazioni concettuali. Non è qui il luogo di esaminare tutti i problemi che possono sorgere dall’Estetica e dall’Analitica kantiana, e non è nostra intenzione di seguire il Vaihinger che impiegò duecento pagine per commentare la distinzione dei giudizi in analitici e sintetici. Ci basti qui notare che il modo di superare le oscurità e incer- tezze di questa parte della Critica è, secondo noi, il seguente: 1) Cfr. P. Boutroux, Uévolution des mathématiques pures, in « Rivista di Scienza », fase. II, p. 1. 216 I. - Riconoscere l’intuizione come un momento inferiore al- Tesperienza. La conoscenza preconcettuale è, come afferma il Croce, quella intuitiva dell’arte. Kant parla alquanto disordina- tamente ora di un « dato sensibile » o di un « vario empirico », ora di intuizioni matematiche, ora di giudizi percettivi e non ancora sperimentali, ecc. II: - Non assumere tempo e spazio come forme a priori delle rappresentazioni, ma affermare invece un’attività astraente e quantificante, cioè quella del concetto astratto. III. - Riconoscere l’esperienza come una sintesi di questi due momenti. IV. - Riconoscere più chiaramente l’astrattezza di quei due mo- menti, in quanto sieno considerati in sé. V. - Rilevare poi l’insufficienza della conoscenza empirica, da cui sorge l’esigenza del concetto trascendentale e di quello sto- rico. Con un esame più particolareggiato si potrebbe mostrare come il pensiero nostro sia già tutto implicitamente contenuto nella dottrina kantiana e ne risulti come un necessario svolgimento. 4. La dottrina dei pseudo concetti. Di tutta la filosofia del C. la parte che riguarda la scienza naturale e la matematica ci sembra la meno feconda e la più lontana dal vero. Sebbene non possiamo comprenderla nel nostro pensiero in modo da farla intimamente nostra (come riteniamo di aver fatto con al- tri concetti del nostro autore) procureremo di riassumerla per averla almeno materialmente davanti a noi. La vera e piena conoscenza del reale è, secondo il Croce, quella storica. Il giudizio storico implica due momenti: l’intuizione e il concetto puro. P. e. quando si giudica: la rivoluzione francese fu un avvenimento politico, il soggetto « rivoluzione francese » ci sarebbe dato dall’intuizione, e il predicato « avvenimento po- 135 Difficoltà deir a- nalitica kantiana e modo di risol- verle. \ L’analitica del Croce. 217 litico » si riferisce al concetto filosofico della politica. Ma nel- Telaborare la storia della politica o di altre attività umane, noi dobbiamo tener presente un grandissimo numero di intuizioni. Per agevolare alla memoria questo suo compito, interviene lo spirito pratico. (« Satana venne anch’egli fra mezzo ai figliuoli di Dio »). Lo spirito utilitario raggruppa arbitrariamente un dato numero di rappresentazioni e stabilisce i concetti empirici o classificatori. Dal concetto puro dell’arte si ottiene in tal modo, raggruppando alcune opere, i pseudoconcetti di poesia, pittura, musica, di poema, tragedia ecc. Dal concetto filosofico deH’azione economica, quelli di industria e comnìercio, guerre e rivoluzioni, monarchie e repubbliche, città, villaggi ecc. Queste classificazioni sono come delle « etichette » che noi mettiamo su un dato nu- mero di rappresentazioni storiche per poterle ricordare più age- volmente. Esse sono inessenziali alla nostra vera conoscenza e per sé stesse non ci fanno conoscere nulla della realtà storica. Dobbiamo per es. aver prima la rappresentazione storica dei diversi modi in cui si è andata svolgendo la convivenza fra gli uomini, e dopo interviene lo spirito pratico e stabilisce: per co- modo di memoria chiamerò città alcuni di questi modi. Questo è un atto d’arbitrio e nel costruire tali classificazioni noi di- ciamo: è ben vero che quelle rappresentazioni sono inconfron- tabili nella realtà storica, ma sit prò ratione voluntas: se non hanno niente di comune fra loro, abbiano questo di comune: di chiamarsi città. La creazione di un concetto empirico consiste nell’imposizione di un nome comune a delle rappresentazioni storiche che nella loro realtà individuale sono inconfrontabili. La teoria del concetto astratto è svolta dal Croce anche meno diffusamente e con minore precisione, ‘ma riteniamo di poterla riassumere con sufficiente esattezza. Anche i concetti astratti sorgono da una manipolazione pratica della realtà storica; ma mentre quegli empirici richiamano alla mente un gruppo limitato di rappresentazioni e sono privi di universalità, quelli astratti sono universali ma vuoti di ogni contenuto rappresentativo. Il concetto empirico di gatto non può avere nessun carattere rigo- 218 roso che valga a distinguerlo da un altro concetto empirico, p. e. da quello di un altro animale, perché lo abbiamo ottenuto con un raggruppamento arbitrario; il concetto di triangolo si distingue invece rigorosamente da ogni altra figura geometrica, ma questo rigore non si ottiene che togliendogli ogni concretezza. Non c’è nella realtà niente che corrisponda ai punti, alle linee e ai triangoli matematici. Anche qui è intervenuto lo spirito pra- tico col suo atto d’imperio: non ci sono, ma io postulo che ci sieno. Ogni giudizio matematico presuppone che sia già avvenuta una classificazione. Basandosi sulla realtà storica non si può dire sen- z’altro: 2 + 2 = 4 perché due cavalli e due pulci non fanno quattro. Bisogna prima aver raggruppato quelle rappresenta- zioni sotto un denominatore comune, p. es. sotto il concetto em- pirico di animale, e allora appena può intervenire il calcolo. Il calcolo dunque presuppone tanto il concetto storico quanto quello empirico. La sua funzione è puramente quella di dare un aiuto alla memoria per conservare e richiamare alla mente una concreta rappresentazione storica. Quando p. es. si dice: questa casa è alta 30 m. e larga 40, non si conosce niente della casa concreta, la quale è inconfrontabile con l’unità di misura convenzionalmente fissata, ma quelle cifre possono aiutarci a ricordare il carattere particolare di quella rappresentazione. Questa, in breve, la teoria del Croce. Usava una volta nelle scuole insegnare ai ragazzi certi versetti mnemonici, e per far ritenere a mente per esempio le dieci categorie aristoteliche, s’era costruito questo bel distico: Arhor sex servos ardore refrigerai ustos Cras ruri staho, sed tunicatus ero in cui arhor stava come esempio di substantia, sex di quantum e cosi via. Se abbiamo ben compresa questa teoria delle scienze, le opere dei matematici e dei fisici vanno valutate alla stregua di tali ar- tifici, privi di verità ma utili per la memoria. 219 137 Parziale motivo di vero: la critica dell’astrattezza intellettuale. 138 Ogni giudizio storico implica dei concetti em- pirici. Quello che c’è di vero in queste gnoseologie è la critica all’astrat- tezza intellettuale: i concetti empirici e matematici sono inade- guati alla piena realtà. Precursori di questa critica sono stati fra gli antichi i Cirenaici (non si può attaccare a un carro l’idea del cavallo), e in generale i filosofi della reazione antirazionalistica nel periodo ellenistico; nel Medio Evo i nominalisti, e fra i post- kantiani specialmente Jacobi, Schelling e Hegel. I nominalisti ebbero questa funzione storica: di far risaltare la contradizione del concetto astratto e quindi di far sentire l’esi- genza del concetto sperimentale. Essi preannunciano la scienza della natura ma non sanno crearla perché si fermano alla pura opposizione dialettica.’ Il concetto astratto, dice il nominalismo, si converte nel suo opposto e risulta in realtà nien’altro che un flatus vocis, una pura espressione senza contenuto concet- tuale. I m.oderni empirio-critici rilevano l’insufficienza non solo della scienza astratta ma anche di quella empirica; la loro critica resta però campata in aria perché essi criticano le astrazioni senza saper uscire dall’astrattezza, e non si vede -quale conoscenza essi vogliano sostituire a quella criticata. Nel Croce invece ciò si vede benissimo: la vera conoscenza è quella storica e filosofica. In ciò consiste la superiorità della sua critica. L’errore della sua teoria consiste nel considerare le formazioni concettuali come inessenziali alla realtà e alla conoscenza, e come produzioni arbitrarie dello spirito pratico. Quelle produ- zioni sono invece essenziali e necessarie in ogni atto di pensiero. Invano si cercherebbe un’opera storica priva di concetti empi- rici, e si può sfidare chiunque a raccontare p. es. la storia poli- tica degli ultimi vent’anni senza adoperare dei concetti come Inghilterra e Germania, capitalismo e socialismo, guerra e ri- voluzione e altri simili; mentre se quei concetti fossero dei meri espedienti mnemotecnici, ciò dovrebbe essere possibilissimo, come è possibile conoscere la letteratura italiana, senza posse- dere uno schedario alfabetico delle nostre opere poetiche. Non solo è impossibile scrivere un’opera storica, ma nemmeno pro- 220 nunciare il più breve giudizio o concepire la più semplice rap- presentazione senza l’atto oggettivante del concetto empirico. Ma si dirà: codesti concetti ci sono si in ogni opera di storia, ma nel giudizio storico essi non sono più puramente empirici. Ciò è verissimo: ma anche le rappresentazioni, nel giudizio sto- rico, non sono più intuizioni pure. Anzi si deve dire che come le rappresentazioni non sono mai intuizioni pure, cosi quei concetti non sono mai puramente empirici, mentre sono sempre un aspet- to essenziale del giudizio. Perciò il Gentile dirà giustamente: l’oggetto puro è un’astrazione, ma il pensiero pone necessaria- mente il pensato, come suo oggetto. Dicendo che l’identità è soltanto una finzione arbitraria si affer- ma veramente che la coerenzanon è necessaria al 139 pensiero. Che il nostro pensiero si mantenga conseguente Secondo la dot- alle definizioni che ha enunciate, che esso si contradica o no, prammati. stica la coerenza dovrebbe essere indifferente per la vera scienza; la coerenza logica sarebbe logica dovrebbe essere una mera questione di comodo pratico, ^^a questione di Infatti: identità, principio di contradizione, concetto astratto o matematico, e coerenza logica sono sinonimi. E quando noi af- fermiamo che il concetto astratto è un momento essenziale dello spirito, non facciamo altro che enunciare questa semplicissima verità: che la pura coerenza sillogistica, come il dedurre a vuoto degli scolastici, non è sufficiente al pensiero, ma che nessun giudizio può esser vero se risulta in sé contradittorio. Dove si vede che l’errore è responsabile non solo delle confusioni che crea ma anche della molestia che può arrecare la paziente ri- costruzione di una verità troppo evidente. Fra tutte le moderne dottrine filosofiche non ce n’è forse una che abbia ottenuto tanta diffusione e consentimento come queste gnoseologie prammatistiche e ciò non soltanto in Austria e in Francia, loro paesi d’origine, ma in tutti i paesi d’Europa e d’America, tanto tra i filosofi, come tra gli scienziati. Ma, men- tre ogni scoperta filosofica porta con sé un approfondimento della nostra visione storica e un chiarimento nella nostra si- stemazione concettuale, questa teoria non ha chiarito nessun 221 problema né storico né scientifico, e ha giovato soltanto per quei poco che essa ha di vero (e che era cosa nota da tempo, ai filo- so sofi se non agli scienziati) cioè ha giovato a sfatare la fede nel- Inettitudine sto- Tassolutezza dei concetti intellettuali. Ciò che v’è di buono nei [ogL^^pra^raaU- storici concreti di quei gnoseologi non ha nulla a che stica. vedere con quella supposta « funzione economica » di cui s’é tanto parlato; ma riguarda soltanto la relatività dei con- cetti empirici, come si vede ad esempio nella Storia della Mec- canica del Mach. Il Mach non ebbe un chiaro concetto della peculiarità del mo- mento economico; e ciò gli ha giovato perché gli ha permesso di scostarsi nei suoi giudizi da un criterio insostenibile. Il Croce non avrebbe avuto questo ausilio dell’ignoranza e, se egli aves- se scritto una storia delle scienze, avrebbe dovuto giudicare le scoperte scientifiche con uno stranissimo criterio. Il dire che le costruzioni intellettuali sono atti pratici non ha nessun signi- ficato se poi non si possono effettivamente giudicare i grandi matematici e i grandi fisici secondo il criterio dell’utilità, come si giudicano gli amministratori e i commercianti. Una convenzione arbitraria, un espediente pratico è p. es. que- sto: di far pagare il porto delle lettere per mezzo di pezzettini di carta gommata da appiccicarsi sulla missiva; ma codesti espe- dienti si diffondono per imitazione e si può benissimo concepire una civiltà che ne faccia a meno, mentre non v’è civiltà senza matematica e senza esperienza. Come non c’è nessun popolo che non pratichi qualche religione, così non ce n’è alcuno che non conteggi e misuri. Come si spiegherebbe ciò se si trattasse di un’attività inessenziale? E perchè dei popoli diversi si servi- rebbero delle stesse finzioni arbitrarie? Perché l’abbaco è ugua- le da per tutto? In verità il cosidetto atto pratico non soltanto è utile per conservare certe cognizioni, ma è indispensabile per conservare e anzi per possedere qualsiasi cognizione: questa è la sua universalità. La teoria dei pseudoconcetti è cosi poco sicura di sé che, dopo aver affermato che la matematica e la fisica sono attività pra- 222 tiche, ritiene però, come abbiamo visto, che il valore di quelle opere non consista nella loro praticità ma nel loro fondamento storico. E può sembrare strano che il valore di una funzione spirituale si debba ricercare non in ciò che in essa si è definito come essenziale, ma in qualche cosa d’altro, che viene presup- posto da quella funzione, in qualche cosa che per affermarsi ed esistere non ha bisogno della funzione stessa. Lo scopritore naturalista, come pure il matematico e il fisico, in quanto scopritore di verità, è scopritore storico, dice il Croce. Archimede e Newton e Lavoisier non sono dunque da giudi- carsi come uomini pratici, e questo è già un vantaggio; ora si tratta di vedere se comprenderemo veramente il valore essen- ziale della loro opera, considerandoli come storici. Quale importante scoperta storica ha fatto p. es. colui che per primo ha posto l’uguaglianza indicata dal teorema di Pitagora? Ogni atto spirituale è sempre in qualche modo un giudizio sto- rico e il giudizio di quel matematico potrà essere stato ad esem- pio questo: io me ne sto ora in questa città e in questa stanza meditando su questa figura che ho tracciata con uno stiletto di metallo su di una tavoletta di cera, e deduco questa relazione fra i suoi lati. Il giudizio storico è essenziale al pensiero perché l’attività spi- rituale è sempre in qualche modo autocoscienza; ma l’afferma- zione storicamente circostanziata, la « scoperta storica » del ma- tematico ha per noi ben poco interesse; a noi poco importa di sapere se quella figura è stata tracciata sulla cera con lo sti- letto o non piuttosto col gesso bianco su una tavola nera, e ci in- teressa soltanto di conoscere la nuova identità che è stata de- dotta. Lo stesso vale per la fisica. È ben vero che la legge fisica è astratta da una realtà storica più complessa e che la coscienza storicamente circostanziata non può mancare nell’effettivo pen- siero dello scienziato, ma il valore della sua scoperta consiste nella nuova relazione sperimentale che egli pone. Può sembrare che nelle scienze più propriamente naturalistiche. 223 141 Il valore teorico delle scoperte fisiche non con- siste nella stori- cità. più ricche di contenuto concreto e meno rigide nei loro schemi, il valore della scoperta consista veramente in un’affermazione storica; ed è probabile che nell’esporre la sua teoria il C. abbia avuto più particolarmente in vista le indagini di questo genere. 1 primi scienziati che osservarono per esempio l’azione di certi micro-organismi nelle malattie infettive, non sono forse come degli storici che scoprono un popolo ignoto e ne descrivono gli usi e i costumi? Ma anche qui bisogna rispondere che il valore della scoperta naturalistica non consiste nell’affermare un singolo fatto stori- co; non consiste p. e. nell’affermazione che i polmoni del signor tal dei tali sono stati invasi nella tal epoca da certi micro-orga- nismi (come quando si dice: le orde di Attila distrussero Aquileia nel 452) bensì nell’affermare una connessione causale fra certi fenomeni, per cui si possa dire:, ogni volta che ci sarà A, B, C, ci dovrà essere anche D. Quale interesse può avere per un medico il conoscere lo svolgi- mento storico di un singolo caso se quel decorso è assolutamente irripetibile nella sua individualità? Se le cose stessero a que- sto modo, l’esperienza sarebbe priva di valore e tanto varrebbe farci operare da un orologiaio come da ufrchirurgo. Che poi ogni giudizio storico implichi in qualche modo dei con- cetti empirici abbiamo già detto, e, per tornare al nostro esem- pio, quando uno storico ci descrive gli usi di un popolo, egli non può essere storico senza essere insieme naturalista, cioè senza attribuire una costanza empirica al popolo che egli descrive. Dicendo che il valore di una scoperta matematica o fìsica non consiste nella sua storicità, non si vuol negare l’apriorità e la universalità del giudizio storico né l’astrattezza del puro valore empirico, per sé preso. Ugualmente il valore estetico d’una poesia non consiste in una verità scientifica o storica, e tuttavia la bellezza non è che l’a- spetto espressivo del vero. Anche il poeta, nel suo atto effettivo, non può essere privo di consapevolezza, anzi egli è lo storico del suo sentimento e della sua visione e ogni sua espressione pre- 224 suppone questo giudizio: tale è Timmagine ch’io mi rappre- ' sento. Quando si dice che il poeta non pensa, si adopera un modo immaginoso per distinguere la coscienza del poeta, da quella, logicamente più elaborata, del critico. Se i concetti astratti ed empirici fossero un prodotto dell’arbi- • trio pratico, essi non sarebbero che errore e falsità. Non giova dire che essi non sono né veri né falsi ma semplicemente utili, perché chi afferma un giudizio scientifico lo afferma come vero, e il voler far passare per vera una realtà che abbiamo arbitraria- mente modificata, significa mentire. E quando la bugia sembri involontaria, essa si chiama errore. Il Croce sembra essersi accorto che la sua tesi é insostenibile e lo ha detto chiarissimamente: « a infirmare questa conclusione e confutare la premessa in cui si appoggia, ossia l’idea che le fin- zioni concettuali siano concetti errati, basta un fatto solo. Un errore scoperto non può risorgere fintanto, almeno, che non si dimentichi la scoperta, e non si ricada in condizioni di oscurità mentale simili a quelle antecedenti alla scoperta». « Mentre quando ci siamo persuasi che il triangolo e il moto li- bero non rispondono a nulla di reale, e che la rosa, il gatto e la casa non hanno nulla di preciso e di universale, dobbiamo tuttavia seguitare a servirci delle finzioni di triangolo, di moti liberi, di case, gatti e rose. Possiamo criticarle e non possiamo rifiutarle, dunque non è vero che esse sieno almeno totalmente e in ogni significato errori. »^ 142 Eppure la tesi che il Croce non accetta è una conseguenza ine- Il C. dovrebbe vitabile della teoria dei pseudo-concetti. logicamente ne- ^ gare la fasica e la L’errore — si potrebbe dire — ricorre qui all’astuzia di esporre matematica, esso le ragioni della verità per persuaderci di averle superate. Non giova dire, ripetiamo, che i pseudo-concetti non sono né veri né falsi, perché essi pretendono di passare per veri. Quando noi giudichiamo che due più due fanno quattro, intendiamo dire una cosa vera, e se qualcuno afferma di avere speso due lire e 1) Logica, pp. 20-21. 225 15 ir- n 143 arattere pre- antiano del prammatismo. poi altre due e dunque insieme cinque lire, noi gli diciamo: tu sbagli, notiamo cioè che il suo pensiero manca di coerenza. Se i concetti matematici fossero privi di verità, non si potrebbe mai parlare di un errore di calcolo, ma soltanto di formule più o meno opportune. 5. Delle teorie prammatistiche in generale. La dottrina dei pseudo-concetti è la parte meno felice del pensiero crociano. In un filosofo che non ignora di avere dietro a sé Kant, Hegel e Vico, la gnoseologia prammatistica è una disarmonia e un anacronismo. Questa gnoseologia è invece a suo posto negli scrittori empirio-critici, psicologi e intuizionisti. In questi prekantiani del 1850 il prammatismo ^ è anzi un’impor- tante conquista, e come un primo risveglio delhintelletto dal suo sonno dommatico. Rileggendo ora alcuni di questi autori ci siamo meravigliati nel constatare come la teoria dei pseudocon- cetti, che ci è sempre sembrata estranea al miglior pensiero del Croce, nasca invece in modo logico e naturale a un livello filo- sofico più basso. In questi autori che provengono dalle scienze particolari e dal positivismo rozzo e selvatico, l’affermazione di un elemento economico, attivo e formativo, è un primo segno d’inurbamento. Troviamo in questi autori una mentalità a cui non siamo più avvezzi. Essi confondono continuamente la indagine gnoseolo- gica e trascendentale (cioè quella che ricerca le condizioni a priori dell’esperienza) con le analisi della psicologia empirica, oppure ritengono che la fisiologia possa dirci qualche cosa di conclusivo sul valore della conoscenza e sull’essenza del- l’attività spirituale.^ 1) Non occorre avvertire che per prammatismo intendiamo qui soltanto quella tendenza gnoseologica che considera i concetti intellettuali come funzioni economiche e pratiche. 2) Il Mach per esempio esprime la speranza che « gli sforzi combinati della psicologia e della fisiologia possano un giorno chiarire il mistero deirio. » Erkenntnis u. Irrtum, (trad. Dufons, Parigi 1908),. p. 385. 226 Sarebbe cosa agevole esporre distesamente, raggruppare e cri- ticare queste teorie. Ma non lo faremo. Quando si passa dallo studio di un vero filosofo alla lettura di autori come questi, si ha l’impressione di passare da un’opera d’arte a un roman- zetto di amena lettura, facile e anche piacevole, ma a lungo andare insulso. Ci limiteremo a rilevare in due o tre di questi autori i caratteri più significativi della loro gnoseologia. Anzitutto è da notare che si suol parlare in due sensi diversi Significati diversi di una « funzione economica » dei concetti intellettuali. Alle « funzione economica ». volte s’intende dire che l’ufficio essenziale dell’intelletto è di servire alle nostre azioni, di aiutarci a tener presente una si- tuazione di fatto per poterla modificare secondo i nostri scopi. Noi, insomma, pensiamo per agire. Altre volte invece si intende dire che i nostri concetti intellettivi sono per sé stessi un atto pratico che modifica la conoscenza integrale. Questi due significati si trovano spesso confusi nello stesso autore come se fossero equivalenti. 11 C. che accetta per buono il secondo significato, ha il merito di averli distinti chiaramente l’uno dall’altro. Egli nota che il ser- vire all’azione è un carattere di ogni conoscenza, anche di quella filosofica e storica, nel senso che ogni azione presuppone una conoscenza della realtà. La ragione per cui quei due significati possono essere equiva- lenti per i prammatisti è assai strana. Quegli autori partono cioè, più o meno chiaramente, dal presupposto che ogni cono- scenza sia un impoverimento e una falsificazione della realtà. A questa conclusione erano già arrivati gli scettici greci e ogni realismo deve arrivarci fatalmente. Se la realtà esiste per sé stessa al di là dello spirito, e se la mente che conosce interviene in un momento posteriore, a cose fatte, cercando di rispecchia- re quella realtà ontologica, è certo che la realtà in tal modo ri- specchiata non sarà mai più quella genuina: la realtà « vera » è passata ormai nella mente e ne ha subito le inevitabili de- formazioni. Nessuno specchio — dice candidamente uno di que- 227 145 Presupposto rea- listico del pram- matismo. 146 Prammatismo e terminismo sco- lastico. sti scrittori — è cosi terso e puro da non modificare in’ qualche modo ciò che riflette. Tale è, confessato o no, il punto di partenza da cui si arriva legittimamente alle gnoseologie prammatistiche. Si presuppone che la verità debba essere qualche cosa di dato oggettivamente, ma insieme ci si accorge che la Verità scientifica non è mai un dato che la mente possa accogliere passivamente senza metterci nulla di proprio, e si conclude che bisogna dunque negare il valore conoscitivo delle costruzioni scientifiche. È questo, come abbiamo detto, il primo atteggiamento dello spirito che esce dall’ingenuità dommatica, ed è per l’appunto lo stesso motivo che ha portato lo Hume al suo scetticismo. Lo Hume infatti si av- vide che il dato sensibile non ci dà mai una connessione neces- saria, e che la connessione fra i fenomeni è posta da noi, ma poiché anch’egli presuppone che la verità debba essere data oggettivamente e che l’attività soggettiva del nostro pensiero non possa essere che un’alterazione della realtà, non gli resta altra via che quella della rinuncia al pensiero. I prammatisti possono dunque vantarsi di essere idealmente dei precursori di Kant. Al motivo realistico si aggiunge quel motivo anti-intellettuali- stico, a cui abbiamo ripetutamente accennato. Sorge in questi autori la coscienza dell’astrattezza dei concetti intellettuali e l’aspirazione a un modo di conoscere superiore. Questo presen- timento della conoscenza speculativa fa talvolta somigliare la loro posizione di pensiero a quella dello Jacobi. Avvicinare il prammatismo alla filosofia del 1700 significa con- siderarlo con benevolenza; per molti riguardi esso appartiene invece al pensiero medioevale ed è evidente la corrispondenza fra queste moderne teorie e il terminismo scolastico. Anche TOc- cam, p. e., parte dal presupposto che la vera realtà sia quella delle cose individuali, che esistono in sé fuori della coscienza. Ed ecco la teoria: quando la cosa mi appare, la mia intuizione è un segno naturale della cosa stessa. Io vedo e mi rappresento un dato animale: il rapporto fra la mia rappresentazione e Tin- 228 dividuo realmente esistente è di prima intenzione e mi dà la conoscenza più perfetta; ora io posso creare un termine, p. e. la parola « gatto », o un’altra sigla qualunque, una lettera o una figura per significare quella mia rappresentazione. Questo è il rapporto di seconda intenzione. Come la mia intuizione si rife- risce all’individuo reale, cosi la parola « gatto » si riferisce alla mia intuizione; ma mentre il primo rapporto era naturale, que- sto secondo è di pura convenzione (ad placitum) e la cono- scenza razionale che esso mi dà non ha che un valore arbitrario. Il concetto è un semplice espediente per richiamare la rappre- sentazione immediata. La teoria medioevale corrisponde in alcuni punti essenziali alle gnoseologie prammatistiche, cioè: 1. NeH’attribuire maggior verità alla rappresentazione che al concetto. - 2. Nell’aff ormare la insufficienza del concetto e non quella della rappresentazione immediata, per cui si riconosce che il concetto non è niente sen- za l’intuizione, ma non si riconosce che le intuizioni sono inaf- ferrabili e insussistenti senza i concetti. - 3. Nel considerare la rappresentazione non come un valore spirituale e reale, anzi essa stessa come segno che indica una realtà esteriore. La con-' seguenza logica di tale posizione è stata anche allora la svalu- tazione della scienza e l’agnosticismo. L’analogia e, insieme, la differenza tra la posizione dello Hume e quella del nominalismo scolastico è questa: il nominalismo ri- conosce l’insufficienza del concetto astratto e presente l’esigenza del pensiero naturalistico; Hume svela l’insufficienza del con- cetto empirico (del principio di causa) e annuncia l’esigenza del pensiero trascendentale. Vediamo ora di seguire più da vicino i motivi che confluiscono nelle gnoseologie prammatistiche. Una delle ragioni, per cui quei critici ritengono che i concetti intellettuali sono arbitrari, è basata sull’osservazione che ogni concetto è relativo a un dato punto di vista. Dice p. e. il Le Roy: « da un solido all’altro v’ha discontinuità per il tatto, continuità per la vista: perché pre- 229 147 Il carattere nomico e nalìtà. ferire la prima indicazione alla seconda se non perché questa è meno comoda e utile di quella? » ^ In altre parole qui si viene a dire: noi possiamo raggruppare in un concetto tanto le impressioni A.B.C. quanto quelle M.N.O. Perché preferiamo le prime? Cioè: perché preferiamo un con- cetto a un altro (o a innumerevoli altri supposti possibili)? Ora, mentre il carattere « economico » dovrebbe essere peculiare delle scienze intellettuali, è evidente che quella domanda si può porre con lo stesso diritto a proposito di qualunque attività uma- na. Perché un artista « preferisce » un’immagine a un’altra? Per- ché uno storico studia piuttosto la biografia di Napoleone che quella del suo cameriere? Anche dell’artista e dello storico si può dire, in questo senso, che sono mossi da considerazioni pratiche; eco- ma che cosa si direbbe con ciò? Niente altro che questo: che la ® finalità è essenziale in ogni atto umano, e che ogni conoscenza è spontaneamente produttiva e non dipende in modo meccanico da un mondo dato. Ma il dire che lo scienziato sceglie gli ele- menti dei suoi concetti include un equivoco realistico, poiché lo scegliere presuppone che vi sieno elementi esistenti in sé an- . tenori al nostro concetto. Lo stesso equivoco si. ritrova in tutti gli autori di questo indi- rizzo. Inventare una nuova formula matematica — dice il Poincaré — « significa costruire delle combinazioni utili, che sono un’infima minoranza e non costruire invece quelle inutili. Creare dunque vuol dire scegliere. Le combinazioni sterili non si presenteranno nemmeno alla mente di un vero matema- tico ».^ Anche qui si deve chiedere: se le combinazioni sterili non si presentano nemmeno alla mente, allora dove sono? Esi- stono nell’iperuranio? E se non esistono per noi, come si può dire che sono sterili? Altrove il presupposto realistico è anche più evidente: non solo i concetti intellettuali impoveriscono il. dato sensibile, ma le sensazioni stesse (il rapporto di prima intenzione!) sono già un 1) Scienza e Filosofia, Trad. Paresce (ed. Carabba), p. 39. 2) Science et méthode (Flammarion 1908), p. 48. 2S0 impoverimento e un’alterazione della realtà integrale. I nostri sensi non sono capaci di afferrare tutti gli avvenimenti della supposta realtà esteriore, ma ne colgono solo una media ap- prossimativa. Dice il Bergson: « I quattrocento trilioni di avve- nimenti fisici distinti che la scienza moderna ha rilevato in una luce rossa, in un secondo, richiederebbero ad una coscienza che volesse discernerne la sfilata un’attenzione protratta^ per 750 secoli. L’occhio condensa questo enorme periodo e non ne af- ferra che una media ».^ ue Dunque la vera realtà sarebbe quella che non si può percepire Le percezioni mai. È strano che avendo combattuto tanto contro le astrazioni impercettibili 1 TI 1, . . 1 . oel Bergson. dell intelletto, rautore non si sia accorto che quei quattrocento trilioni di percezioni impercettibili non sono che una supposi- zione intellettuale. Non altrimenti si esprime il Poincaré: « se lo scienziato dispo- nesse di un tempo infinito, (cioè dei suddetti 750 secoli per ogni secondo) non ci sarebbe che da dirgli: osservate e tornate a osservare ».^ Ma il tempo è limitato e les faits vont plus vite, que nous; mentre lo scienziato scopre un fatto, se ne producono dei miliardi in un millimetro del suo corpo ».^ Per questo l’in- telletto deve fare una scelta dei fatti e lasciarsi guidare da un « criterio economico ». Come se la sua professione di realismo non fosse abbastanza esplicita egli aggiunge: « volere che la natura sia contenuta nella scienza sarebbe un voler far entrare il tutto nella parte »."* Il tutto, insomma, è la natura, cioè gli animali, le piante, le terre e i mari, le quali cose evidentemente non possono trovar posto, dentro alla cassa cranica dello scienziato. « Le cerveau du savant, qui n’est qu’un coin de Vunivers, ne pourra jamais contenir Vunivers tout entier A questo livello filosofico la 1) Matière et Mémoire, cap. IV, p. 233. 2) Op. cit. p. .1. 3) Op. cit. p. 8. 4) Op. cit. p. 8. 5) Op. cit. p. 20. 231 149 Ingenuità tiche. gnoseologia prammatistica è a suo posto e non nella Filosofia dello Spirito di Benedetto Croce. Stabilito che la scienza non può accogliere integralmente tutta la realtà, ‘ma deve scegliere i fatti e le relazioni più utili, l’au- tore si domanda quali sieno questi fatti più interessanti. E ri- sponde: i fatti più interessanti per la scienza sono quelli che pos- sono rinnovarsi: «noi abbiamo la fortuna di nascere in un acri- mondo dove ci sono dei fatti che si ripetono. Supponiamo che in luogo di sessanta elementi chimici ce ne fossero sessanta miliardi e distribuiti uniformemente nel nostro mondo. Tutte le volte che volessimo osservare un ciottolo, ci sarebbe una grandissima probabilità che esso fosse formato da qualche so- stanza sconosciuta; tutto ciò che noi sapremmo degli altri mi- nerali non varrebbe nulla per quello; davanti ad ogni oggetto nuovo noi saremmo come il bambino appena nato. In un mondo simile non vi sarebbe scienza; forse il pensiero e la vita stessa non vi sarebbero possibili ». Per fortuna — conclude l’A. — il nostro mondo non è cosi. Ora si può notare che, con buona pace dell’autore, per trovare un siffatto mondo non occorre avventurarsi negli spazi siderei ma basta restare sulla terra. È questo il mondo delle nostre sensazioni e intuizioni, in quanto si suppongano non ancora con- cettualizzate dal pensiero. È questo il mondo puramente quali- tativo in cui nulla si ripete, in cui due sfumature dello stesso colore non esistono, ma sono inconfrontabili fra loro, in cui non esiste l’aritmetica perché un bacio e una locomotiva non fan- no due. Ma insieme bisogna affermare che un cosi fatto mondo non solo non è il nostro e non esiste, ma non potrebbe esistere. Sup- poniamo di arrivare in un mondo in cui i nostri fisici non tro- vino nessuno dei corpi che conoscono, ma innumerevoli corpi nuovi. Ogni sasso raccolto appare loro tanto diverso dal pre- cedente come p. e. il platino dall’azoto. Ma che perciò? Non ha cominciato cosi la scienza fisica nel nostro mondo? E comin- cerà cosi anche in quello. I fisici cominceranno a dividere e ca- 232 talogare, da prima in modo grossolano, secondo la consistenza più apparente (p. e. terra, acqua, aria, fuoco), poi in modo più sistematico, e creeranno una scienza fisica sempre più perfetta. Ma questo è da tener presente: le sensazioni e intuizioni che si avranno in quel mondo come nel nostro non potranno mai essere, nemmeno per un momento, senza alcuna identità fra runa e l’altra, perché l’assolutamente non identico è per defi- nizione indistinguibile, e inafferrabile dalla scienza. Infatti il Poincaré ha pur visto che in quel supposto mondo il pensiero e la vita stessa non sarebbero possibili, ma, partendo da una concezione metafisica realistica, egli ammette che un mondo pos- sa esistere anche se si definiscono le condizioni della sua esi- stenza in modo da escluderne la percettibilità. ^5^ Questo atteggiamento del Poincaré è del tutto analogo a quello Origine humiana dello Hume. Il Paulsen, che malgrado la sua cultura kantiana prammati- ha una mentalità simile a quella dei prammatisti, ha preso in- fatti la difesa di Hume contro Kant. A ragione — egli dice — Hume afferma che l’intelletto privo di esperienza non conosce alcuna legge; nemmeno la legge causale che é la prima e la più universale delle leggi naturali. Prima di apprenderlo dal- l’osservazione, Adamo non avrebbe potuto sapere che a una certa modificazione della realtà ne dovrà necessariamente se- guire una data altra. E se, osservando attentissimamente, si vedesse che, in circostanze perfettamente uguali, un determi- nato urto fosse seguito ora da questo ora da quell’effetto, noi dubiteremmo del principio di causa e finiremmo per abbando- narlo. Questa sarebbe certo una ben grave decisione, giacché sul presupposto della regolarità del decorso naturale si fonda la nostra possibilità di fare dei calcoli intorno ai fenomeni. Ma questa possibilità non è niente di più che un « fortunato accidente ».^ La confusione che il Paulsen fa qui tra le leggi naturalistiche e i principi trascendentali, il suo parlare d’un intelletto privo 1) F. Paulsen, Kant, trad. Sestan. (Ed. Sandron), p. 179. 233 151 Il presupposto che la connessio- ne fra i fenomeni debba essere data. di esperienza, cioè privo di sé stesso, il suo chiamare « ben grave » la decisione di abbandonare il principio di causa, vale a dire la decisione di pensare senza intelletto; tutto ciò non è privo di involontario umorismo. E anche qui è da ripetere quello che abbiamo detto del mondo sidereo del matematico francese. Quel mondo senza regolarità di fenomeni in cui Ada- mo avrebbe potuto risvegliarsi tamquam crapulatus a vino, sognando a occhi aperti e non distinguendo la realtà dal sogno, esso è il mondo del vero Adamo, cioè il mondo della soggetti- vità fantastica. In quel mondo noi viviamo continuamente, e continuamente ne usciamo, e ne usciamo appunto in forza del principio di causa, cioè dell’atto trascendentale che pone e crea la connessione tra i fenomeni. Le stesse confusioni si riscontrano nel Mach. Anch’egli parte dal preconcetto che la connessione debba essere qualche cosa di dato e non sa decidersi né a dire che una connessione sta- bile esiste fra i fenomeni, né ad affermare che se ne può fare a meno. Dice: « Anche quando non riconosciamo la stabilità, essa c’è sempre». E sùbito dopo: «Noi supponiamo che esi- stano certe permanenze ma ciò non implica che questa suppo- sizione sia infallibile. Al contrario, lo scienziato deve sempre aspettarsi una delusione. Egli non sa mai se ha tenuto conto di tutte le relazioni che avvengono in un dato caso ». (Inutile chiedere che cosa possano essere delle relazioni che nessuno conosce). E dirà ancora: «Un 'fatto d’esperienza non si ripete mai due volte esattamente nelle stesse condizioni ». E poi: « La scienza non è possibile senza una certa stabilità dei fatti, forse non vi è una stabilità perfetta, ad ogni modo essa è sufficien- te per poter costruire una scienza utile ».^ « L’uomo, vivendo sempre nello stesso ambiente, incontra spes- so dei corpi che gli procurano certe sensazioni, sempre le stes- se, associate fra loro. Per un’abitudine istintiva egli ammette 1) Erkenntnis p. Irrtum, p. 277 e segg. passim. 234 la costanza di queste relazioni, e ciò diventa un fattore impor- tante del suo sviluppo biologico ».^ Come si vede, questi autori presuppongono pur sempre che la connessione fra i fenomeni possa sussistere per sé, in non so quale mondo di oggetti materiali, oggettivamente collegati fra loro. E si noti che il Mach ha riconosciuto che il concetto di corpo è una costruzione nostra. Qui però se l’è dimenticato. Il suo punto di vista è in questo caso inferiore a quello di Hume. Altrove la sua concezione è meno grossolana: « Nella fìsica noi badiamo a idealizzare e schematizzare i fatti osservati. Se noi consideriamo un pendolo matematicamente, allora certa- mente la millesima oscillazione è come la prima; allora non v’ha alcuna traccia del passato, perché noi ne facciamo astrazione; ma il pendolo reale logora il suo filo, si riscalda per attriti interni ed esterni, e nessuna oscillazione, esattamente conside- rata, somiglia all’altra ».^ Ma qui egli non s’avvede che il fatto in quanto é osservato, è già necessariamente idealizzato e schematizzato e che la realtà concreta è quella storica, cioè quella del nostro pensiero; ma presuppone invece una realtà oggettiva che verrebbe rispec- chiata dalle nostre sensazioni. Quello che questi autori non vedono mai è l’atto spirituale, o, in quanto lo vedono, lo considerano come una illegittima mo- dificazione della realtà pura, presupposta anteriore al concetto. Il Le Roy, per es., dice che è inevitabile per il pensiero di cir- coscrivere degli elementi stabili, perché senza qualche cosa di costante esso non può affermarsi. Ma naturalmente il pensiero è qualche cosa di inessenziale. « Noi pratichiamo dei tagli, n pensiero come isoliamo dei gruppi, stabiliamo delle uniformità, fissiamo per- illegittima modi- manenze ». Nei concetti c’è « un nostro intervento elaboratore, mediante il quale abbiamo introdotto nella realtà percepita 1) Ihid. p. 373. 2) E. Mach, Analisi delle sensazioni, trad. Vaccaro e Cessi (ed. Bocca, 1903), p. 273. Il corsivo è dell’autore. 235 degli accomodamenti e delle semplificazioni ».^ E si sottinten- de sempre che qualunque intervento elaboratore non possa essere che una alterazione della realtà integrale. Quando questi autori si sono accorti che i concetti intellettuali non hanno valore assoluto, hanno concluso che l’intelletto non ha valore di verità. Noi invece affermiamo: i concetti astratti ed empirici non sono niente di assoluto, ma la nostra attività che pone tali concetti è una assoluta necessità della mente, e non un atto arbitrario. Lo stesso problema si ripresenta nella vita morale: ogni singolo precetto è contingente e varia nei diversi tempi e paesi, ma il principio morale stesso: « agisci secondo dovere e coscienza », esso non varia. E quando certi filosofi si furono accorti che i singoli precetti morali non sono assoluti e oggettivamente dati una volta per sempre (o, come si diceva, che non sono innati), hanno anche allora creduto di poter concludere che il principio stesso della morale è ar- bitrario. E c’è un’altra analogia: quando fu scossa la fede dog- matica nei singoli precetti morali, i filosofi prekantiani (e quelli di mentalità prekantiana) invece di ricercare il fondamento della morale in una forma superiore, cioè nell’autonomia dello spirito, credettero di poterlo trovare in quelle inferiori: negli interessi e negli istinti. La stessa cosa avviene a questi teorici della conoscenza: scossa la fede nella assolutezza oggettiva dei concetti intellettuali, non cercano il fondamento della verità in un concetto superiore, ma nelle forme inferiori della co- scienza intuitiva e delle sensazioni. Già il Ravaisson (come, a suo tempo, lo Jacobi) aveva contrap- posto al metodo intellettualistico la « riflessione vivente » della filosofia. Questa facoltà superiore di conoscere era per lui « l’in- tuizione, cioè ciò che si chiama comunemente la fede, il senti- mento o il cuore ».^ Il Bergson, il Le Roy e gli altri hanno conti- nuato su questa via, guardando verso il basso invece che verso 1) Le Roy op. cit., pp. 35-50, passim. 2) Cfr. E. Boutroux, La philosophie de F. Ravaisson, in « Rev. de Mét et de Mor. », nov. 1900. 2S6 Tallo, illusi di poter superare le astrazioni intellettuali con delle astrazioni peggiori. Perchè di questo non si sono accorti, e in certo senso non se n’è accorto nemmeno il Croce, che le intui- zioni, in quanto sieno considerate fuori delTintelletto e della ra- gione, sono astrazioni anche più povere dei concetti intellettuali. Il pensiero umano è uscito dopo lungo e oscuro travaglio .dal predominio delle ottuse sensazioni e delle intuizioni estatiche alla chiarezza del pensiero astratto. Questa fatica si è conclusa con la filosofia^ greca. Ora questi filosofi ci vogliono far ritornare allo stupore della coscienza orientale. Il Le Roy per esempio ci invita ad accogliere le impressioni senza reagire, come delle rivelazioni dell’Essere e descrive la cono- scenza superiore cosi: « Eccoci sdraiati in aperta campagna in una calda giornata d’estate, in quella particolare disposizione di spirito, pigra ed abbandonata, nella quale la nostra coscienza sembra dissolversi sotto il molle alito della vita universale: ci sentiamo accecati, schiacciati, affogati sotto il flusso incessante delle immagini abbaglianti e sentiamo al tempo stesso svanire, insieme al desiderio di. qualsiasi attività, i limiti precisi che sminuzzano la natura alla nostra vita ordinaria ».^ Queste filosofie sono il cupio dissolvi dell’intellettualismo fran- cese: la vera conoscenza è quella confusa e indistinta del bam- bino e delTanimale. « Al suo nascere, il fanciullo che vede una macchia rossa su un fondo bianco non distingue la macchia dal fondo che la circonda; ma per mezzo di una semplice intui- zione, egli coglie la complessa apparenza che gli si presenta, e prova piuttosto un’impressione di generale divenire al quale egli stesso partecipa che non una sensazione di obiettiva per- sistenza. Ecco il dato puro ».^ Di queste vere conoscenze lo stesso autore cita più d’un esem- pio: « Ascolto due interlocutori conversare in un linguaggio a me sconosciuto. Che cosa sento? Un continuo, sonoro — fug- 153 Le intuizioni alogiche sono astrazioni piu povere dei con- cetti intellettuali. 1) Op. cit. p. 40. 2) Ibid. p. 35. I 237 gente e ritmico — nel quale non so nulla distinguere; tale è la continuità mobile deirintuizione primitiva ».^ Dunque: la conoscenza vera è quella dove non si capisce nul- la. Anche gli animali del dottor Moreau, di cui il romanziere Wells ci racconta che furono prematuramente evoluti al lin- guaggio umano, — sentivano una irresistibile nostalgia deH’ori- ginaria animalità, e si concedevano ogni tanto delle orgie di suoni inarticolati, e chiamavano quelle grida incomposte: il grande parldre. Ma, a dir vero, le lezioni di questi intuizionisti sono tutte scritte in piccolo parlare; cioè in buona e chiara lin- gua francese. Essi lodano il mare e si attengono alla terra e la loro pratica smentisce la. loro teoria. Se la vera, la reale, la concreta conoscenza è quella delle intuizioni indistinte, essi dovrebbero assumere innanzi ai loro problemi l’atteggiamento imbambolato proprio di chi abusa di stupefacenti. Questi autori si accontentano invece di abusare dei concetti e i loro libri sono pieni proprio di quelle costruzioni intellettuali e di quelle astra- zioni psicologiche contro cui muovono in guerra. Anche per il Mach la vera conoscenza è quella dei sensi e della rappresentazione. Conoscere un fenomeno fìsico, per es: un ter- remoto — egli dice — significa ascoltare con l’immaginazione il rumorio sotterraneo, risentirne l’oscillazione, ecc. Dopo aver descritto e quasi rievocato il fenomeno, egli conclude: « ora io conosco tutto ciò che potevo desiderar di sapere. Tutte le rappresentazioni sussidiarie, le leggi, le formule, sono sol- tanto la misura quantitativa della mia rappresentazione. Questa (la rappresentazione) è lo scopo, quelle (le formule e i concetti) 154 sono i mezzi ».^ La supposizione È evidente qui la tesi nominalistica. per cui i concetti non sono metafisica delle ^Yì.e segni, nomi, simboli per richiamare le rappresenta- re». zioni immediate. Ora si doveva esaminare se le rappresentazioni stesse sieno concepibili senza i concetti, o se invece il conside- 1) Op. cit. p. 91. 2) Analisi delle sens. pp. 363-4. 238 rarle cosi prive di concettualità non sia un’astrazione. Biso- gnava vedere se una « sensazione pura » non sia un’entità me- tafisica inafferrabile, e insomma se il pensiero sia o no essen- ziale all’uomo e alla realtà. Il Mach vuol portare degli esempi per mostrare che il pen- siero non è essenziale: « Se l’uomo fosse essenzialmente un puro logico invece di essere sopratutto un psicologo (intende dire: un essere semplicemente senziente), egli sarebbe arrivato in un modo molto facile all’astrazione che conduce al principio dell’inerzia. Poiché si è riconosciuto che le forze sono delle circostanze le quali determinano l’accelerazione, ne segue che senza forza non si possono immaginare che dei movimenti sen- za accelerazione, cioè dei moti rettilinei e uniformi ».^ Prescindendo dal fatto che il Mach presuppone qui la scoperta di Galilei, prima di quella scoperta, è da notarsi che l’esempio addotto dimostra appunto che l’uomo è essenzialmente logico. Difatti, il punto di vista pre-galileiano, il quale diceva: la forza è ciò che determina il moto e senza forza il corpo cessa il suo movimento; questo punto di vista non esprime una semplice sensazione, anzi un concetto e una legge. Ed è questo che im- porta affermare contro tutte le teorie economiche: senza un certo « schema », senza un qualche atto logico, nessuna rap- presentazione è possibile. Quando si dice: questo è rosso, que- sto è dolce, si creano già dei concetti. Nemmeno è possibile per- cepire la più semplice impressione senza uno « schema » che dia una qualche unità a ciò che sentiamo. Conforme alla tendenza nominalistica, il Mach accetta l’antica critica che nega al sillogismo il potere di scoprire una nuova verità. (Egli attribuisce questa critica al Mill; mentre, come è noto, il Mill non ha fatto che ripetere anacronisticamente una critica sorta nella filosofia ellenistica, e svolta, a lor tempo op- portunamente, dai pensatori del Rinascimento). Dopo aver detto che il sillogismo non estende la nostra conoscenza e che 1) Ibid. p. 147. 239 SI tratta appunto di veder da dove si ricavi la maggiore (« tutti gli uomini sono mortali » dell’esempio tradizionale), egli, rie- cheggiando un’osservazione del Galilei, assomiglia il sillogi- smo alla induzione completa (homo id est omnes homines dice- vano i nominalisti). Se io so che non esistono che tre U, cioè: Uj, Uo, U3, e se conosco per esperienza che Ui, U2, U3, sono m, allora posso dire: tutti gli U sono m. Il giudizio è dunque rica- vato dall’osservazione empirica.^ A ciò si deve opporre: che il sillogismo, infine, non è che uno schema logico il quale collega insieme certe rappresentazioni, e che nessuna osservazione em- pirica è possibile senza un tale collegamento. Quando giudi- chiamo: « Uj è m (o « Pietro corre » dell’esempio galileiano) abbiamo già sillogizzato; In altre parole: il concetto empirico implica il concetto astratto. È verissimo che dalla pura logica formale non si ricaverà mai una verità d’esperienza (non si arriverà mai per es. a sapere se la peste sia o no contagiosa); ma ugualmente è vero che non si può sperimentare senza logica. Il Mach riduce lui stesso all’assurdo la sua tesi affermando che le proposizioni matematiche sono « fatti d’esperienza e che nella geometria abbiamo parecchi casi di induzione completa.^ Per es. — egli dice, equivocando fra induzione empirica e indu- zione matematica — quando Euclide dimostra il teorema rela- tivo al rapporto dell’angolo al centro e dell’angolo iscritto alla circonferenza, egli distingue tre casi per ciascuno dei quali la dimostrazione è differente, e il teorema non viene enunciato in modo generale che quando è stato dimostrato per ciascuno dei tre casi possibili. È veramente strano che uno scrittore, il quale ha pure fami- liarità con la scienza, non si sia avveduto che i tre casi che Euclide considera partitamente, sono pur sempre dei casi matematici, cioè ognuno è già per sé universale e non 1) Erk. u. Irrt., p. 301. 2) Ihid. p. 302. 3) Ibid. p. 305. 240 particolare; altrimenti nessuno al mondo potrebbe cavarne una dimostrazione matematica. iss Ma basti di ciò. Quella che abbiamo esaminata è una filosofia II dogmatismo da dogmatici disillusi ed è finita come doveva: nel dadaismo disilluso dei ° prammatisti. estatico e nella goffaggine empirica. Il Croce ha portato la teoria della « funzione economica » del- l’intelletto a tutt’altro livello. Egli non parte da presupposti realistici, non sostituisce la descrizione psicologica all’indagine filosofica e ritiene che la vera conoscenza sia quella storica e speculativa e non certo quella delle intuizioni e delle sensa- zioni. Ma appunto perciò la teoria dei pseudoconcetti è fuori di posto nel suo sistema. In una filosofia che considera ogni conoscenza come produzione spirituale, la gnoseologia pram- matistica non ha nemmeno quel valore di presentimento della verità che può avere per gli intuizionisti e per gli empirio- critici. ■ 156 6. Considerazioni storiche. ' Lo svolgimento storico dei prò- Corrispondenza blemi corrisponde allo svolgimento dialettico dei momenti spi- [o^g/orico^e^^llo rituali. Questa corrispondenza diventa misteriosa soltanto se dialettico, si considera la storia ontologicamente, come un dato inattuale, mentre riesce naturalissima quando si consideri (come ha fatto il Croce), che anche la storia antica è pur sempre la storia con- temporanea del nostro pensiero, e però è naturale che quando le nostre teorie sieno incoerenti e arbitrarie, esse vengano smentite dai fatti storici, cioè dai nostri stessi concetti. La teoria prammatistica ci dà insieme una cattiva gnoseologia e una falsa prospettiva storica, che impedisce la comprensione di quella mirabile razionalità che è immanente nello svolgi- mento storico del pensiero. Questo svolgimento si delinea cosi: in sede gnoseologica all’in- tuizione fantastica si oppone il concetto astratto e da questo si passa al concetto naturalistico e quindi a quello trascenden- tale; in sede storica al mitologismo fantastico dell’età preelle- nica si oppone il pensiero astratto dei Greci, e da questo, dopo 241 16 157 Decisiva influen- za della matema- tica sul raziona- lismo greco. il ricorso medioevale, si passa al naturalismo del Rinascimento e quindi all’idealismo di Cartesio e di Kant.^ La grande gesta del pensiero greco è la scoperta del metodo matematico. Se non si tien conto di ciò non si comprende il carattere proprio di quella filosofia. I primi filosofi greci furono spesso matematici insigni, e il metodo di quella scienza, che col valore universale dei suoi risultati si oppone al variare im- preciso delle intuizioni individuali, ha esercitato una decisiva mfiuenza sulla loro mentalità. Per i sognatori e veggenti dell’età anteriore, il mondo dell’im- mediata intuizione era la vera realtà; ma i filosofi greci consi- derano quel mondo come un errore da superare, dichiarano ingannevole il senso, e a quella pura parvenza contrappongono ‘ la vera realtà del mondo intelligibile. Il razionalismo si può definire come quell’indirizzo che consi- dera il metodo deduttivo, proprio della matematica, come som- mo modello del procedere scientifico. Mathesis significa infatti cognizione, scienza senz’altro, e il concetto astratto rappre- senta per quei filosofi l’assoluto conoscere. Come il matematico deve partire da assiomi o postulati indi- mostrabili, cosi, in ogni tempo, la mentalità razionalistica ricer- cherà un sommo principio che sia evidente per sé stesso. È questo il primo problema di Parmenide: trovare una propo- sizione cosi universale che nessuno possa metterla in dubbio, una proposizione che sia implicita in tutto ciò che si possa affermare. Ora chiunque affermi che esiste l’acqua o l’aria, o altro, dovrà pur ammettere che: qualche cosa esiste; questo qualche cosa è l’Essere, oggettivazione dell’astratto concetto. La matematica, e in generale la scienza non sono possibili senza una esatta definizione di concetti. Sorge quindi l’esi- 1) Quando, verso il 1911, io vidi per la prima volta che il momento in- tuitivo e individuale dell’arte si contradice e che ad esso si oppone dia- letticamente quello astratto del pensiero matematico, e quando riconobbi in seguito a ciò che il concetto empirico si deve considerare come loro sintesi, non mi ero ancora accorto che lo svolgimento storico corrisponde a questa relazione concettuale. 242 genza di trovare per ogni concetto uno più esteso che lo com- prenda, sicché infine si forma una serie che dal più particolare va al più generale: Socrate, greco, uomo, essere vivente, essere. È cosi che sorgerà in Aristotele l’idea delle categorie come supreme classificazioni del reale, ed è cosi che sorge il con- cetto di Essere in Parmenide. Per un pensiero che si basi sull’esperienza, la maggiore realtà spetta al concetto più individuale. Infatti se qualcuno chiede a chi io pensi, egli ne saprà di più se rispondo che penso a Socrate, e meno se rispondo che penso ad un uomo. Indeter- minatissima sarà la risposta che io penso ad un essere. iss Caratteristica del razionalismo è la concezione opposta. Il con- La negazione cetto più generale è quello che ha la massima realtà e chi lo defihndividuah- pensi veramente, pensa insieme tutti i concetti particolari che del razionalismo, vi sono compresi, anzi le determinazioni particolari non sor- gono che per negazione di una parte di quella totalità: omnis determinatio est negatio. Con questo procedimento si giungerà ai realismo medioevale, che è il razionalismo di quella età, e a quella famosa identifica- zione di Dio con l’Essere realissimo. Questo realismo condurrà poi logicamente al panteismo spinoziano: se l’Essere realissimo include tutto ciò che esiste, le cose singole non possono venir considerate che come aspetti parziali della sua essenza infinita. Parmenide, che fu talvolta considerato come fondatore del- l’idealismo, è il più reciso affermatore di quel realismo di tipo medioevale, il quale afferma che noi non potremmo pensare un concetto, se ad esso non corrispondesse una essenza univer- sale esistente in sé, e che dunque tutto ciò che noi logicamente pensiamo ha realtà oggettiva. Questo è il significato della sen- tenza: essere e pensiero sono uno e medesimo; ed è contro questa mentalità realistica che polemizza Aristotele quando afferma che « resistenza di una cosa non può appartenere alla natura stessa del concetto ».^ 1) Anal. post. II, 7. 243 L’obiezione di Aristotele, che precorre quella di Gaunilone e di Kant contro l’argomento ontologico, ha il merito di rivendi- care i diritti della realtà empirica di fronte alle astrazioni del razionalismo, ma perderebbe ogni forza ove fosse mossa contro 159 la identificazione idealistica dell’ideale e del reale. L’identificazione L’identificazione moderna è antirealistica e quindi opposta a queUa Idealistici Parmenide, alla quale invece è analoga l’identità affer- di essere o pen- mata dallo Spinozai ordo et connexio rerum idem est ut ordo et ®*^*'®* connexio idearum. Il razionalismo non è ancora giunto all’em- pirismo, la filosofia moderna invece lo ha superato; il primo può ritenere che con un astratto ragionamento si possa rag- giungere la realtà oggettiva, il secondo invece si avvede che l’oggettività dell’esperienza è posta dal pensiero. Abbiamo detto che il concetto astratto è l’antitesi dell’intui- zione, e ogni antitesi presuppone e insieme nega la tesi. Que- st’antinomia si può notare in tutti i grandi sistemi razionali- stici, i quali pretendono di basarsi sul puro ragionamento e di non dare alcuna importanza all’intuizione, ma intanto non pos- sono fare a meno di partire da certe definizioni o postulati che appaiono intuitivamente evidenti. Si nega l’intuizione ma su essa si costruisce il proprio edificio concettuale. Evidentissima sarà questa fatalità razionalistica in Platone. Nessun concetto può derivare dalla diretta contemplazione del- l’oggetto, anzi l’oggetto sensibile non sarebbe da noi compreso se non ne avessimo già prima l’idea. Ma se poi si chiede come quell’idea sia in noi, Platone risponde che c’è perché l’abbiamo contemplata neH’iperuranio. Esaminiamo l’idea della perfetta eguaglianza. Nessun oggetto sensibile vi corrisponde poiché non vi sono due cose perfetta- mente identiche; eppure nessuna proposizione logica, nessun giudizio è possibile senza questo postulato dell’identità. Se dunque il concetto delVuguale è in noi e non ne possiamo fare a meno, e se esso non ci può derivare dall’osservazione sensibile, Platone ne conclude che dobbiamo averlo contemplato in una vita anteriore. 244 I : Il razionalismo ritiene di poter ridurre la connessione causale al principio d’identità, confonde cioè le verità di fatto con le verità di ragione e tende a spiegare i fenomeni naturali per mezzo di una pura analisi logica. Sentenze occasionali contro la confusione di concetto logico e realtà empirica si trovano qua e là negli antichi; quello che manca in tutti è la coscienza sistematica della distinzione, ciò che è naturale in un tempo in cui non esisteva una scienza na- turale nel nostro senso. Aristotele stesso adopera la parola causa persino per indicare le premesse di un sillogismo, come se il concetto logico fosse una forza efficiente che produce meccani- camente il suo effetto. i6o Uno degli esempi più evidenti di questa indistinzione per cui i L’indistinzione Greci adoperavano la stessa parola tanto per significare la causa razionalistica fra ^ ^ x- o ragione logica e efficiente come la ragione logica, è quello di Sesto Empirico causa empirica. (Adversus mathematicos Lib. IX). Egli vuol dimostrare la vali- dità del principio di causa e ragiona cosi: se uno afferma che non esiste alcuna « causa ( aiTiov ), o non ha alcuna ragione (aiTiov) per affermarlo o invece ne ha una. Nel primo caso la sua affer- mazione non ha maggior valore dell’affermazione contraria; nel secondo egli smentisce col fatto la sua tesi.^ Per Platone è naturalissimo il dire per esempio che il 3 e il 2 sono la causa del 5. Nel Fedone Socrate rimane perplesso di fronte a questo problema: com’è possibile che l’unità A aggiunta all’unità B, da 1 che era diventi 2? Com’è possibile che nello stesso tempo A che era pure 1 avvici- nato a B diventi 2? ^ 1) Si confrontino in proposito le osservazioni contenute nel cap. II della Quadruplice radice di ragione sufficiente (di cui mi sono giovato); os- servazioni che son forse la parte migliore se non la più apprezzata di quella dissertazione dello Schopenhauer. 2) « Insamma io non riesco a capire in che modo, finché ciascuna di codeste unità era indipendente una dall’altra, realmente, allora, ciascuna fosse una e non fossero due e poi, per il solo fatto che si avvicinarono runa all’altra, proprio questa abbia da essere la causa per cui diven- tano due, cioè, dico, questo trovarsi insieme, che non è altro se non 245 Per comprendere come egli poteva porsi un simile problema, dobbiamo tener presente che Platone considera razionalistica- mente le determinazioni numeriche come se fossero qualità fì- siche dei corpi. Quando egli dice: L’unità A è una, egli lo dice nello stesso senso come noi potremmo dire: il corpo A è rosso. Quindi nasce il problema: se il corpo A, considerato per sé stesso, è rosso, e il corpo B, considerato per sé là nell’altra stanza, è pure rosso, come avviene che messi insieme, A e B non sono più ros;si ma blu? Ed è stato A la causa di questo mutamento oppure B? Su codesta indistinzione fra proprietà matematiche e qualità sensibili si basa pure il famoso esperimento del Ménone. Che un giovane intelligente possa anche senza l’aiuto della troppo compiacente arte maieutica di Socrate, giungere a riscoprire con le sole forze del suo ragionamento un teorema di geometria, è certamente possibile, perché il matematico non fa altro che rendere esplicite le proposizioni contenute nelle premesse. Ma per Socrate, il fatto che lo schiavo, che non aveva mai studiato geometria, abbia scoperto da sé la relazione fra i cateti e l’ipo- tenusa, è altrettanto meraviglioso come se, dalla sola vista di un liquore sconosciuto, egli ne avesse indovinato il sapore. Se non l’aveva mai assaggiato, come poteva conoscerlo? E se è provato che in questa vita nessuno gliene aveva mai parlato, non è que- sta una prova che egli deve averne fatto esperienza in una vita anteriore? Nello stesso Fedone, Socrate si mostrerà disilluso delle spiega- zioni naturalistiche e dirà che chi voglia trovare la causa di cia- scuna cosa dovrà ricercare quale sia il suo modo migliore di es- sere, e il modo migliore sarà quello che corrisponde al concetto logico della cosa, come il modo migliore di essere di un triangolo l’essere state collocate l’una vicina all’altra. E neanche riesco a per- suadermi che, se si taglia a mezzo una unità, abbia da essere ancora questa la causa, cioè questo taglio, che l’uno sia diventato due. La quale è proprio tutto l’opposto di quella onde diventò due allora ». Fedone,- XLV, 97. Trad. Valgimigli (Laterza 1925). 246 è quello che corrisponde alla sua definizione geometrica. Ma nessuna cosa sensibile corrisponde perfettamente all’idea. Nessun oggetto è perfettamente uguale ad un altro, nessun cer- chio è perfettamente circolare: le cose di questo mondo aspi- rano invano alla perfezione. Abbiamo cosi da una parte le idee intelligibili, prive di ogni contaminazione sensibile; e dall’altra le cose particolari che non corrispondono mai alla loro idea assoluta. Abbiamo cioè: dei vuoti concetti non rappresentabili e delle rappresentazioni cosi particolari e cosi mutevoli nella loro individualità da non poter essere afferrate dal pensiero. Aristotele intravvederà un nuovo mondo affermando che il ve- ramente reale è il particolare stesso determinato mediante la sua forma. Ma anche egli crede, non meno di Platone, nell’esi- stenza oggettiva, per quanto non separata, delle idee o forme delle cose. Pur avendo affermato che la vera realtà non sono le idee astratte, ma gli individui concreti, egli cade poi — come già notarono gli stoici — nella contradizione di non ammettere altra scienza che di ciò che è generale, una scienza dunque ne- cessariamente astratta. Il sillogismo aristotelico è come il mo- dello schematico del procedere razionalistico; ma se il generale contiene in sé il particolare, i principi generalissimi e non gli individui dovrebbero essere la vera realtà. Il misticismo cristiano si afferma da prima in opposizione all’in- tellettualismo greco, e in questo senso il pensiero medioevale si può considerare come un ricorso storico della mentalità orien- tale. Ma l’ideale razionalistico, chiaramente formulato in Boe- zio, quando espresse il proposito di costruire tutta la scienza de- duttivamente per concetti secondo il modello dei matematici, si diffonde attraverso la scolastica ed avrà come suo tipico rappre- sentante Anseimo d’Aosta.^ Come Parmenide partiva dalla definizione dell’essere, cosi An- 1) Sul rigore matematico nel formalismo scolastico cfr. De Wulf, Int. à la Phil. néo-scol. 1904, p. 33 segg. 247 161 Il razionalismo come errore eterno. selmo parte dalla definizione di Dio e da essa deduce resistenza, l’unicità, l’onnipotenza e costruisce more geometrico l’edificio della sua teologia. La matematica, che esprime la coerenza del nostro pensiero con le premesse da cui siamo partiti, è forma eterna, costitutiva della mente umana. Appunto perciò il razionalismo che rappresenta un’estensione metafisica e quindi un abuso del metodo matematico, è un er- rore eterno. Durante il Medio Evo la cultura occidentale perde il contatto con la scienza classica e gli studi matematici decadono. Dopo il Rinascimento la matematica rifiorisce e il 600 è il secolo d’oro di questa scienza, e di nuovo, com^ al tempo dei Greci, spesso i filosofi sono insieme dei grandi matematici. Già s’era affermata la nuova scienza della natura e la filosofia deH’empirismo; l’astrattismo dei Greci era dunque superato, tuttavia la mentalità razionalistica si riafferma coi grandi sistemi di Cartesio, di Spinoza e di Leibniz. Questi ritorni hanno qual- che cosa di fatale e chi segua i progressi compiuti nel nostro secolo dalle discipline matematiche, può legittimamente preve- dere il risorgere del vecchio dogmatismo razionalistico, di che già s’intravedono non pochi indizi. Formulare dei concetti generali astraendo dal particolare e ne- gandone il contenuto empirico, e poi pretendere di ricavare dalle vuote generalità che in tal modo si sono ottenute, tutta la mol- teplicità delle cognizioni particolari: tale è l’interna contradi- zione del razionalismo, che fu già posta in rilievo dagli scet- tici greci. Criticando il sillogismo, gli scettici, non sapendo liberarsi vera- mente dalla mentalità astratta a cui si opponevano, negarono valore ad ogni pensiero. Quelle loro argomentazioni saranno poi riprese dai pensatori del Rinascimento con intento ben più positivo, cioè quello di opporre all’infecondità del sillogismo la fecondità dell’osservazione e deH’esperimento. La gnoseologia prammatistica, che considera il concetto astratto 248 e quello empirico come espedienti pratici e pseudo-concetti, non può render conto degli eterni errori del razionalismo e dell’em- pirismo né intenderne la genesi storica. La sua tendenza nomi- nalistica la rende pure incapace di valutare storicamente l’opera di Kant. Uno dei problemi principali della Critica teoretica è in- fatti questo: come è possibile la matematica e la fisica? Ora il prammatismo risponde che queste discipline non hanno alcun valore conoscitivo, sicché il problema di Kant verrebbe ad es- sere un problema falso e la Critica della ragion pura sarebbe • più che altro il frutto d’un equivoco. Il torto di Kant è però di aver avuto quasi sempre una fede senza esame nel valore delle scienze intellettuali.^ Egli avrebbe dovuto cominciare la sua indagine con la domanda se la mate- matica e la fisica pura siano possibili. In ciò il prammatismo, (cioè la posizione di Hume e quella di Jacobi) è superiore a Kant. In un altro punto fondamentale Kant è poco chiaro e incerto. Per superar davvero il punto di vista di Hume e del nominali- smo, occorre non soltanto affermare che i concetti sono neces- sari alla scienza, ma anche che essi sono sempre in qualche modo richiesti da ogni forma di vita spirituale; o in altre parole che ogni forma di vita è sempre in qualche modo scienza. Kant ha affermato bensì che le intuizioni prive di concetti sono cieche, ma per lo più egli sembra ammettere che esse possano pur sus- sistere in quella cecità. Nell’analitica trascendentale è detto ad esempio che noi pos- siamo avere la rappresentazione di un oggetto senza doverlo necessariamente pensare concettualmente.’ Anche se i fenomeni 162 La gnoseologia prammatistica è incapace di valu- tare storicamen- te il razionali- smo, l’empirismo e il criticismo. 163 Incertezza kan- tiana intorno alle intuizioni alogi- che. 1) Un valore che, s’intende, è limitato a quello che K. chiama il mondo fenomenico. E diciamo che egli ha avuto questa fede quasi sempre, non soltanto perché il suo pensiero contiene alcuni elementi che più o meno implicitamente negano questa fede,, ma anche per qualche accenno più esplicito. Per es. nella parte II dalla Deduz. dei Conc. puri (nel testo modificato dalla seconda ediz.) è detto al paragrafo 22 che i concetti matematici per sé non sono cognizioni. 2) « Die Kategorien des Verstandes stellen uns gar nicht die Bedin- gungen vor unter denen Gegenstaende in der Anschauung gegeben werden, mithin koennen uns allerdings Gegenstaende 249 fossero senza alcuna regola e unità concettuale, noi ne potremmo avere tuttavia una rappresentazione intuitiva perché l’intuizione non ha bisogno in alcun modo del pensiero.^ Altrove invece Kant sembra avvedersi che le intuizioni prive di pensiero sono insussistenti. I fenomeni senza connessione con- cettuale — egli dice — sarebbero delle rappresentazioni alogi- che e non mai delle cognizioni, e dunque non avendone noi co- gnizione alcuna, sarebbe lo stesso come se non .esistessero per noi.^ L’autocoscienza, egli afferma in un passo famoso, dev’essere presente a tutte le mie rappresentazioni, poiché altrimenti ci sarebbe in me la rappresentazione di qualche cosa di impensa- bile, ciò che significa che quella rappresentazione sarebbe o im- possibile o almeno inesistente per me.^ erscheinen, ohne dass sie sich notwendig auf Functionen des Verstandes beziehen muessen». (Parte II, Cap. I, par. 13). Lo spaziato è nostro. 1) « Es koennten wohl allenfalls Erscheinungen so beschaffen sein, dass der Verstand sie den Bedingungen seiner Einheit gar nicht gemaess faende, und alles so in Verwirrung lege, dass z. B. in der Reihenfolge der Erscheinungen sich nichts darboete, was eine Regel der Syntesis an die Hand gaebe und also dem BegrifEe der Ursache und Wirkung entspreche, so, dass dieser Begrifì also ganz leer, nichtig und ohne Bedeutung waere, Erscheinungen wuerden nichts desto we- niger unserer Anschaung Gegenstaende darbie- ten, denn die Anschaung bedarf der Functionen des Denkens auf keine Weise». (Ci potrebbero pur essere dei fenomeni di tal maniera da non poterli trovare conformi alle con- dizioni della nostra unità intellettuale. Ogni cosa potrebbe essere in tal confusione da non potersi trovare nella successione dei fenomeni niente che ci dia una regola di sintesi e 'che corrisponda perciò al concetto di causa ed effetto, di modo che il concetto di causa sarebbe del tutto vuoto, nullo e senza significato. Ma anche in questo caso i fenomeni offrirebbero tuttavia degli oggetti alla nostra intuizione poiché l’intuizione non abbisogna in alcun modo delle funzioni del pensiero). Ibidem. Anche qui lo spaziato è nostro. 2) «...mithin wuerden sie zwar gedankenlose Anschaung, aber niemals Erkenntnis, also fuer uns soviel als gar nichts sein ». Anal. trasc. libro I, parte II, Cap. IV della I Ed. 3) « Das Ich denke, muss alle meine Vorstellungen begleiten koennen; denn sonst wuerde etwas in mir vorgestellt werden was gar nicht ge- dacht werden koennte, welches ebenso viel heisst, als di Vorstellung 250 / £ poco dopo dirà che la sintesi a priori è condizione di ogni forma di conoscenza, non solo di quella oggettiva, ma anche di ogni in- tuizione, perché senza sintesi il molteplice non troverebbe la sua unità in una coscienza.^ Come si vede, il pensiero di Kant non è senza oscillazioni e qual- cuno potrebbe ammettere che anche per lui come per il Croce, indipendentemente dalla sintesi concettuale, vi possa essere una sintesi intuitiva alogica: eine gedankenlos.e Anschaung. Se ciò fosse avrebbero ragione i prammatisti e gli intuizionisti i quali ritengono che il pensiero non sia niente di essenziale e di ne- cessario. Se vi fossero delle intuizioni puramente soggettive, il principio di causa, (cioè la nostra attività che pone i concetti oggettivi) non avrebbe valore universale; in tal caso avrebbe ragione il Paulsen, il quale difende lo Hume e accusa Kant di essere caduto in un circolo vizioso. Dice il Paulsen: secondo Kant l’universalità del principio di causa è dimostrata dalla scienza. Se il principio di causa avesse una validità contingente non ci sarebbero delle scienze di vali- dità universale. Ma queste scienze ci sono (p. e. la fisica di Newton), dunque il principio di causa non è contingente. Ma quando poi Kant si domanda come sia possibile che la fisica abbia una validità universale, egli risponde: perché essa si fonda sul principio di causa, che è un principio a priori. Dunque: l’uni- versalità del principio di causa viene dimostrata con l’universa- lità della scienza e il valore della scienza viene a sua volta fon- dato sul principio di causa. Non occorre dire che in Kant c’è ben altro di ciò che il Paulsen vi ha visto, tuttavia c’è qualche cosa di essenzialmente giusto 164 Il circolo vizio- so fra Tuniversa- lità del principio di causa e quelle della scienza. wurde entweder unmoeglich oder wenigstens fuer mich nichts sein » (Ded. trasc. par. 16 nel testo modificato della II Ed.). 1) « Die Synthetische Einheit des Bewusstseins ist also eine objective Bedingung aller Erkenntnis, nicht deren ich bloss selbst bedarf um ein Object zu erkennen, sondern unter der jede Anschaung stehen muss, um fuer mich Object zu werden, auf andere Art und ohne diese Syn- thesis, dass Mannigfaltige sich nicht in einem Bewusstsein vereinigen wuerde ». (Ded. trasc. II, par. 17 del testo della II ed.). 251 nell’osservazione che abbianao riportata, e, secondo noi, la peti- zione di principio non si può evitare se non riconoscendo che l’attività scientifica oggettivante (che Kant ripete dal principio di causa) non può mancare in nessuna forma di coscienza, ma è costitutiva di ogni realtà. 252 DALL’ ANALITICA ALL’ ISTORICA CAPITOLO SECONDO 1. L'antitesi dell' esperienza: il concetto trascendentale} Nella filosofia del C. il concetto trascendentale o puro, è considerato giustamente come il momento metodologico della storia. Ma che cosa significa momento? Per noi, come per Hegel, la tesi e l’an- titesi sono i momenti della sintesi, e ogni momento ha un aspetto dialettico per cui nega il suo opposto, e un aspetto speculativo, per cui indica un valore positivo, distinto da quello indicato dalla sintesi, ma non esistente fuori della sintesi. Il termine « momento » non ha invece nel C. un preciso e uni- voco significato. Egli riconosce ad esempio che l’energia econo- mica è un momento dell’azione morale, e l’intuizione un mo- mento della conoscenza storica, e insieme attribuisce a quelle determinazioni un valore positivo diverso da quello morale, e rispettivamente storico, e considera anzi l’economicità come in- dipendente dalla moralità e l’intuizione artistica come autonoma 1) Gli argomenti di questo e del paragrafo seguente sono stati trattati nel cap. II della parte I. Qui si esaminano più particolarmente per ciò che riguarda il passaggio dialettico del concetto empirico a quello trascenden- tale e al giudizio storico. 253 165 Disconoscimento fuori della sintesi storica. Per contro egli non riconosce al mo- del valore auto- rnento trascendentale alcun valore proprio, alcuna sfera in cui nomo del concet- , „ to trascenden- ^^^so possa valere come predicato di un giudizio diverso da quello tale. storico. Egli considererebbe grave errore l’identificazione del momento economico con la morale, o quella dell’intuizione estetica col giudizio storico, mentre ritiene di poter senz’altro identificare il concetto puro con la storia e con la filosofia. Secondo noi si tratta di relazioni perfettamente analoghe, e come è falso considerare l’economicità e l’intuizione come concetti au- tonomi fuori della sintesi superiore che li comprende, e legit- timo invece affermare che essi indicano dei valori distinti dalla specifica moralità o storicità, altrettanto è falso identificare sem- plicemente il concetto trascendentale col giudizio storico, e le- gittimo distinguere il criterio col quale si giudica una ricerca trascendentale da quello con cui si giudica una narrazione storica. Questa imperfetta sistemazione deriva logicamente dalla teoria dei concetti distinti, ma il C. è stato impedito a definire con mag- gior precisione il concetto trascendentale anche dal suo disco- noscimento del concetto empirico. L’uno è infatti l’antitesi del- l’altro. Prima di arrivare al concetto empirico lo spirito non ha alcun oggetto innanzi a sé, ma solo delle immagini soggettive o degli schemi matematici senza concretezza. Il concetto empirico è il concetto dell’oggetto. Ora come è possibile che appaia un oggetto se non c’è il soggetto a cui appare? Di fronte all’oggettività della natura sorge cosi il concetto della spontaneità del pensiero, di fronte alla legge, quello di un’atti- vità legislatrice. Il concetto trascendentale sorge dalla critica del concetto empi- rico. Si disse: l’oggetto come mero oggetto è inconcepibile («la materia non esiste »), esiste soltanto il soggetto che pone l’og- getto. La filosofia critica si pose la domanda: come è possibile l’esperienza? E rispose che l’esperienza non è possibile che in 254 166 forza di un principio a priori. Il concetto trascendentale è Top- Il concetto puro, • posto del concetto empirico: l’uno è pura forma spirituale, Tal- ceu^ empirico.^ tro è puro contenuto naturale, l’uno è a priori, l’altro è a posteriori, l’uno è universale l’altro particolare. Un concetto empirico deve escludere con la sua definizione tutti gli altri concetti particolari, e ad esempio la definizione di un dato metallo non avrà un valore scientifico se nella stessa de- finizione può rientrare un’altra sostanza. Un concetto puro al- l’opposto è un predicato universale, cioè non ha valore che se nella sua definizione rientra ogni realtà. 11 criterio per giudicare se i concetti da noi esaminati (sensa- zione, memoria, intuizione, concetto astratto, ecc.) sono real- mente dei concetti trascendentali, è dunque questo: saranno a priori ove si possa dimostrare che nessuna realtà può mai sfug- gire alla loro determinazione, saranno semplici classificazioni ove risulti invece che riguardano una parte della realtà ma non tutta. Il concetto empirico spiega un fenomeno come effetto d’una causa, e questa a sua volta come effetto d’un’altra, e cosi via con infinito regresso. Esso ci manda da un concetto all’altro e non ha il coraggio di assumere una responsabilità e di attribuire a sé stesso un valore. Il concetto trascendentale è il concetto del valore. Il concetto empirico è inadeguato alla realtà: il suo principio pretende che a cause identiche debbano corrispondere effetti identici; ma la realtà è il vivere spontaneo e sempre nuovo del nostro spirito e non un meccanismo di cause ed effetti. La media mentalità dominante ai nostri giorni è ancora quella intellettualistica ed empirica; il concetto trascendentale fu affer- mato con più piena coscienza soltanto nella filosofia moderna e precisamente in quella di Kant. Il carattere della filosofia kan- tiana è quello di un’indagine critica che si mantiene in tutti i problemi da questo punto di vista formale e non metafisico. (Con ciò non si nega che lo stesso filosofo abbia poi in qualche modo 255 167 L’indagine tra- scendentale, mo- mento necessario di ogni filosofia. 168 Il concetto puro distinto da quello metafisico. affermato un principio speculativo superiore: lo Spirito come unità delle categorie, la libertà e la finalità). Potrebbe sembrare, ed è opinione ora diffusa, che questo mo- mento spirituale della trascendentalità altro non sia che una indebita idealizzazione e generalizzazione della posizione storica rappresentata da Kant. Una simile idealizzazione si ha quando un fatto storico, per es. Tilluminismo o il giacobinismo, viene assunto come tipo di altri fenomeni analoghi. Ma in tal caso non si può mai mostrare che tutte le istituzioni, anzi tutta la realtà debba essere necessariamente giacobina o illuministica; o quando si possa farlo vuol dire che quelle denominazioni non hanno più un significato storicamente circoscritto, ma indicano per antono- masia i momenti necessari di quella storia ideale eterna che è il processo spirituale. L’indagine trascendentale, momento necessario di ogni filosofia, si domanda quali siano i principi che dobbiamo ammettere come costitutivi dello spirito per poter concepire la realtà. I concetti puri non sono altro che questo: condizioni della concepibilità del reale. Da ciò deriva il loro valore universale: se un principio è definito come condizione assoluta di tutto ciò che è concepibile, è chiaro che non si potrà trovare alcuna realtà che sfugga alla sua de- terminazione. Kant non ha riconosciuto pienamente questo valore universale delle categorie. Egli sembra partire da una data disciplina e in- dagare quali principi la rendano possibile. Egli definisce cosi delle forme a priori che sembrano aver valore ognuna soltanto in una sfera limitata: nella matematica o nella fisica, nella mo- ralità o nella finalità naturale. L’indagine trascendentale non è la metafisica. La filosofia mo- derna ha unificato queste due discipline e vedremo in che senso sia necessario unificarle. Qui importa sostenere, contro l’opinione ora prevalsa, il diritto del concetto trascendentale di darci il cri- terio di una peculiare disciplina filosofica. Questa disciplina si può chiamare con un termine appropriato 256 psicologia pura. La denominazione usuale gnoseologia ha Tin- conveniente di accennare ad una critica che riguardi soltanto la conoscenza e non anche l’azione; mentre il principio kantiano dell’imperativo categorico è un principio trascendentale dello spirito pratico, come il principio di causa è un concetto trascen- dentale dello spirito teoretico. La metafisica ha « lo svantaggio » di non potersi riferire che a sé, di non potersi giustificare che in sé stessa; le categorie tra- scendentali hanno invece il vantaggio (che è dell’astrattezza) di avere un criterio di verità fisso e immutabile. I filosofi d’una volta, e non ultimi Kanfe Fichte, sentivano viva- mente il bisogno di conquistare una forma scientifica, un me- todo filosofico rigoroso e universalmente valido e con molta in- ,genuità ogni filosofo pretendeva d’aver trovato tale metodo per cui finalmente la filosofia avrebbe potuto procedere per la strada maestra. Confessiamo d’aver molta simpatia per queste ingenuità e per la serietà di pensiero di cui sono indice. Non è qui il luogo di esaminare in che senso la pretesa di una « scienza universal- mente valida » possa derivare da un modo ancora astratto di concepire la verità; ma importa invece affermare che la psico- logia pura, appunto per il suo carattere astratto e formale, ha la possibilità di diventare una scienza rigorosa come la matema- tica. Che per es. il principio di causa, definito come la condizione del conoscere empirico, non possa a sua volta essere ricavato dall’osservazione empirica, è una proposizione altrettanto sicura come il teorema di Pitagora (il ponte degli asini!). L’errore di Kant non è quello d’aver considerato il concetto tra- scendentale come una pura forma, ma d’aver negato che il pen- siero possa superare questa posizione. L’errore del criticismo consiste nell’assumere il concetto trascendentale come somma conoscenza umana. 169 Il criticismo as- sume il concetto puro come som- ma conoscenza. 2. Il giudizio storico. Il concetto trascendentale è una pura forma, una mera possibilità di conoscere. I concetti puri sono: 170 La contradizione del concetto pu- ro. 171 Le materia della storia sono i fatti e non le imma- gini. rintuizione artistica, la coerenza matematica, l’imperativo mo- rale, ecc. Ma in realtà non esistono tali entità trascendentali, bensì soltanto delle opere d’arte e di pensiero, storicamente de- terminate, non esiste la volontà in astratto, ma il volere una determinata azione. La filosofìa critica diceva: prima di adoperare il pensiero devo esaminare la possibilità e le condizioni della conoscenza, e però fu paragonata a chi volesse imparare a nuotare prima di entrare in acqua. Come si può separare l’io dalla sua esperienza? L’espe- rienza non ha valore se non ci sono io che la esperimento, ma io senza la mia esperienza non sono che una vuota capacità inat- tuale. L’unità del concetto puro e dell’esperienza è il giudizio storico. Lo storico illumina i fatti dell’esperienza con la spiritualità del concetto, e cosi li giudica. Secondo il Croce il giudizio storico sarebbe invece unità di intuizione e concetto. Quando ad esempio si giudica: « la rivo- luzione francese fu opera politica » il soggetto « la rivoluzione francese » ci dovrebbe esser dato in una immediata intuizione- Per parte nostra riteniamo d’aver già mostrato che l’immedia- tezza dell’intuizione è incomunicabile e inafferrabile. La materia che lo storico sottopone al suo giudizio sono dei fatti e non dell’e immagini. Ma, si dirà, la storia ha a che fare con una realtà vivente e spirituale e non con le astrattezze degli oggetti empirici. Non 10 neghiamo, ma riteniamo che il contenuto empirico diventi rigido e meccanico soltanto ove lo si consideri fuori dalla sua storia. L’intuizione artistica non ha ancora la rigidezza del con- cetto empirico, mentre la conoscenza stqrica non l’ha più perché l’ha superata. Nel giudizio storico il pensiero giudica il pensato, giudica cioè 11 suo oggetto; è naturale quindi che quando si faccia astrazione dal pensiero che giudica, non resti che un oggetto, quella mera oggettività che è appunto il concetto empirico. Se invece si fa astrazione dall’oggetto, non resta che il pensiero puro. 25S 172 I due momenti sono essenziali nella storia. Quando predomini il Dal concetto pu- concetto puro abbiamo la Critica (artistica, filosofica, morale, ro e dal concetto , , . ,, , empirico deriva- ecc.), quando predomina r esposizione dei fatti abbiamo la nar- no -due pregi e razione storica. . La coercizione, cioè il fatto di presupporre dietro a sé una forza esecutiva, come la matematica presuppone l’intuizione e la certezza filologica presuppone il documento. 4. L’equità, che è il predicato proprio dell’azione giuridica e che consiste nell’astratta, cioè spassionata e disinteressata, iden- tità del volere. 5. La necessaria corrispondenza con la volontà morale di cui, come vedremo ora, il diritto costituisce un momento astratto ma essenziale. 311 212 La contradlzione del concetto giu- ridico. 213 La carità come sintesi della vo- lontà individuale e dell’equità giu- ridica. 3. La carità. Non abbiamo bisogno di trattenerci per rile- vare la contradizione del momento giuridico, che è stata messa in piena evidenza dal Croce. La definizione stessa « volizione dell’astratto » è contradittoria, perché non si può volere in astratto, cioè senza sapere precisamente che cosa si voglia. Lo schema legislativo pretende di valere per una molteplicità di situazioni diverse, nega le particolarità del caso singolo, e tut- tavia non può sussistere sé non viene applicato nella determi- natezza del caso concreto. La giustizia della legge consiste nel- l’essere « uguale per tutti », cioè nell’assumere la stessa norma in casi definiti identici, ma poiché i casi non sono mai identici e un anno di prigione che può essere per l’uno una bazzecola può significare per un altro la rovina e la morte, il summum jus diventa summa iniuria. L’azione giuridica dev’essere imparziale, cioè deve prescindere da considerazioni personali, ma nessun giudice al mondo può spogliarsi dalla sua particolare umanità. L’astrattezza del diritto non corrisponde alla vita e gli uomini più giusti 'sono i più lontani dal feticismo legale, per cui è detto che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato. I due momenti antitetici, l’interesse senza giustizia e la giu- stizia disinteressata, non possono sussistere se non trovano la loro conciliazione in una sintesi che li superi entrambi. La sin- tesi della vo-lontà individuale e dell’equità giuridica è la carità, l’azione moralmente buona, che dev’essere appassio- nata come l’interesse e universale come la legge. Quella pas- sione individuale che veniva esclusa dal concetto giuridico ri- torna qui a nuova dignità e il bene di coloro che amiamo di- venta interesse nostro. II diritto prepara per cosi dire l’inquadratura schematica in cui si svolgerà l’azione virtuosa. L’imperativo giuridico, che è nega- zione di concretezza, si esprime più propriamente in forma ne-*^ gativa: non uccidere, non rubare, non fare ad altri il male. L’imperativo morale dice: ama il tuo prossimo! Amare significa propriamente questo: sentire come propri gli interessi altrui. Per questo si può dire che il diritto ha la forza esecutiva, cioè 312 ìa volizione economica fuori di sé, mentre la volontà morale deve averla in sé stessa. Se le più solenni istituzioni del diritto ci derivano da Roma, le più umane parole di carità ci vengono dal popolo ebreo che ne fu ripagato da tanto 'odio. Per comprendere fino a che punto la Bibbia e TEvangelo abbiano trasformato la nostra’ concezione morale, basti pensare che fra le virtù fondamentali rammentate dagli antichi troviamo la giustizia e la sapienza, la forza, la temperanza o la prudenza; non la misericordia. Nelle opere della letteratura classica poco si sa di carità umana. L’eroe an- tico è ardimentoso, astuto, duro ai colpi di fortuna, appassionato, capace di amicizia, di amor patrio e di affetti familiari. Ma non è un uomo buono in senso cristiano. 11 precetto cristiano dice: senti come tuo proprio il dolore altrui. Il filosofo stoico diceva invece: resta imperturbato nelle tue disavventure com.e se fossero quelle d’un estraneo. Se ti muore la moglie — sillogizza nel suo manuale Epitteto — devi ben considerare se il dolore che ne provi sia fondato su una necessità di natura o su tuo pregiudizio o debolezza. Ma se si trattasse di una necessità universale se ne dovrebbe addolorare anche quel- l’uomo che passa per la strada e invece egli rimane sereno. Vin- citi dunque e rimani imperturbato come lui. In nessuno degli antichi c’è una morale più elevata che in Pla- tone, pure vi sono passi nei suoi dialoghi che a una coscienza moderna riescono male^ comprensibili. Eutifrone ad esempio è messo in ridicolo perché accusa il padre di omicidio. A prima lettura restiamo perplessi: la situazione di quel figlio ci sembra dolorosa e non vediamo il perché di quell’intonazione canzo- natoria che si risente nelle parole del dialogo. Poi compren- diamo che quello per Platone non era un omicidio perché si trattava d’uno schiavo che era stato dal padre di Eutifrone mal- menato e ucciso. Quel caso pareva buffo al lettore greco, come chi dicesse oggi di ricorrere a’ tribunali per l’uccisione di un coleottero. 313 214 I due opposti pregi e difetti della volontà mo- rale. Due opposti peccati contro la carità ripetono la loro origine dai momenti costitutivi della sintesi: l’egoismo ingiusto e la fri- gida aridità del leguleio. Nello stesso senso sono fra loro op- posti i due tipici atteggiamenti della volontà morale: l’appassio- nata tenerezza dell’amore e l’austerità impersonale del dovere. Nella morale kantiana, la quale esalta il momento astrattamente universale a danno di quello individuale, la carità non ha il posto che le spetta. Tuttavia si può trovarne esattamente defi- nito il concetto nella seconda formulazione dell’imperativo: con- sidera tutti gli esseri ragionevoli come scopi a sé stessi, e non come semplici mezzi. Poiché non si tratta qui di una conside- razione semplicemente intellettuale ma di un atteggiamento volitivo, questo precetto comanda di fare propri gli scopi degli altri, di godere del bene altrui e di soffrire dell’altrui male, di rendere universale il nostro interesse. L’astrattezza della prima formulazione era qui inconsciamente superata. Diciamo incon- sciamente perché l’accento cade sempre sul moménto astratto, e nella Metafisica dei costumi il filosofo rimprovera al pre- cetto: « ama il tuo prossimo come te stesso » di offuscare la purezza della legge morale con un riferimento egoistico e di considerare « il nostro caro io » come primo termine dell’amore. Ma che cosa significa « amare »? Nient’altro che questo: volere insieme; e, poiché la volontà costituisce la nostra stessa essenza, sentirsi parte d’un tutto comune, sentirsi ed essere una sola essenza. Non amare sé stessi vorrebbe dunque dire non volere i nostri propri scopi, non essere noi. Non vi sarà mai troppa carità nel mondo; tuttavia questo mo- mento non esaurisce la moralità, e ove esso sia considerato come sommo bene, dà luogo a una concezione sentimentale, inade- guata alla dura realtà della vita. Ciò che il C. chiama azione morale è un concetto che supera la carità e di cui parleremo fra poco; della carità stessa egli rileva piuttosto l’aspetto negativo che quello positivo. Coloro che pongono la morale nella benevolenza, nell’amore, nell’altrui- 314 smo, nella compassione, cadono — egli dice — in una conce- zione materiale e utilitaria. « La morale richiede il sacrificio di me al fine universale; ma di me nei miei fini meramente indi- viduali, e perciò cosi di me come degli altri; essa non ha nes- suna particolare inimicizia contro di me, da volermi sacrificare a vantaggio degli altri ».^ « Il cieco e irrazionale attaccamento agli altri è in fondo attac- camento a noi stessi, ai nostri nervi, alle nostre fantasie, ai no- stri comodi, alle nostre abitudini. È utilità, non .moralità; per- ché la moralità ci vuole pronti a staccarci, quando sia il caso, cosi dagli altri come da noi stessi. In queste considerazioni due ordini di ragionamento s’intrec- ciano fra loro: l’uno che distingue la carità vera dalla carità falsa (che non è carità, ma debolezza ed egoismo), l’altro che accenna all’inopia del concetto stesso di carità, in quanto pre- tenda di valere come sommo ideale morale. La carità non va confusa, come si fa volgarmente, con l’istinto animale. Non già che l’istinto possa mancare in alcun nostro affetto, che anzi senza di esso verrebbe meno l’attualità stessa del nostro volere, e la storia ci mostra che le istituzioni in cui si fondono in unità l’istinto, la tradizione, l’interesse, il dovere, la carità e l’ideale sono quelle che sole durano nei secoli; ma le passioni in cui predomina con esclusiva forza l’istinto, come l’amore sessuale e il cieco attaccamento ai propri nati, sono tutt’altra cosa della carità cristiana. D’altra parte la carità stessa è un momento, necessario si ma insufficiente, dell’azione morale; il C. ne rileva l’insufficienza e non ne riconosce la necessità. Egli la considera o come morale falsa, o tutt’al più come una classificazione empirica di certi tipi di azioni morali. È verissimo che la morale non c’impone il sacrificio di noi stessi a favore di. particolari interessi altrui, che anzi abbiamo il dovere di ri- L d 1) Pratica^, p. 281. 2) Pratica^, p. 283. 216 La carità è un momento essen- ziale di ogni vo- lizione. spettare e far rispettare non soltanto i diritti altrui ma anche i nostri, vale a dire che non si deve mancare di carità nemmeno verso sé stessi. Data la natura umana, non c’è, a dir vero, un pericolo urgente che gli uomini esagerino in questo senso, e per questo i mora- listi battono sul precetto opposto. Ma appunto il fatto che .la carità verso sé stessi è altrettanto legittima e doverosa come quella verso la famiglia, o verso la patria o verso rumanità, è una prova che non si tratta di una determinazione empirica e contingente. La volontà dell’uomo è fatta per amare, tant’è vero che se qual- cuno si proponesse: non voglio amare nessuno, voglio disinte- ressarmi degli altri e vivere da egoista, egli riaffermerebbe pur sempre l’amore, e sia pur quello verso la sua cara persona. Come abbiamo detto: noi possiamo rendere il nostro amore più ristretto e meschino ma non possiamo farne a meno (che è proprio lo stesso di ciò che avviene per la filosofia: si può dire a parole che non serve a niente e proporsi di farne a meno, — Keine Metaphysik mehr! — ma ciò che si fa effettivamente in questi casi è pur sempre una filosofia, per quanto più angu- sta e volgare). La carità e sollecitudine verso sé stessi non è, come si potrebbe credere, volontà economica, perché non corri- sponde a una determinata situazione di fatto, ma è veramente amore, perché si indirizza a un oggetto che si svolge attraverso a situazioni diverse e include una molteplicità di interessi, di norme e di doveri. È se qualcuno, abbandonato ogni scrupolo e preoccupazione per i suoi propri interessi, decidesse di la- sciarsi andare a una vita di sperpero e di bagordi, rovinandosi nella salute dell’anima e in quella del corpo, anche in questo caso il termine della sua volontà sarebbe un amore, amore del suo vizio e della sua vitaccia, ma pur sempre un amore, che in- cluderebbe una molteplicità di volizioni, di norme e di sacrifici, perché l’atomicità dell’attimo fuggente è inafferrabile. Se il C. ci avesse tenuto a mantenere una più stretta concor- danza sistematica fra teoria e pratica, egli avrebbe potuto, come S16 abbiamo accennato, elaborare una teoria delle « pseudo-voli- zioni », corrispondente alla sua teoria dei pseudi-concetti, e avrebbe potuto allora distinguere le volizioni universali ma prive di concretezza del diritto, da quelle concrete, esclusive e prive di universalità dell’amore. Secondo noi, come il concetto matematico e quello naturalistico non sono pseudo-concetti, cosi il diritto e la carità non sono pseudo-volizioni ma determinazioni necessarie della volontà. Come il concetto empirico (o concetto di classe) raccoglie una molteplicità di rappresentazioni nell’unità di un concetto astratto, cosi l’amore, cioè la solidarietà del gruppo sociale (o volizione di classe) raccoglie una molteplicità di interessi nel- nell’unità di uno stesso diritto. O meglio si deve dire che tanto gli interessi, considerati nella loro pura economicità, come il diritto puramente astratto, non sono che momenti analitici di quella sintesi a priori volitiva che è il nostro amore. Nei Saggi di Estetica il C. ci ha offerto una nuova rettorica, cioè una più viva esemplificazione e classificazione dei pro- blemi particolari della Poetica; ugualmente nei saggi di Etica e Politica egli ci dà una nuova « dottrina delle virtù » e una più moderna casistica. Col doppio vantaggio, in tutti e due i casi, di non perdere mai di vista che il giudizio particolare non ripete la sua forza dall’astratta classificazione, bensi dal suo riferimento al concetto filosofico, e di svecchiare quegli schemi riempiendoli di un contenuto più attuale. Per questo i suoi saggi si rileggono con interesse. Nel capitoletto « Compassione e giu- stizia egli tratta dei concetti che abbiamo considerato in queste pagine, ma non riconosce che la giustizia si riferisce più particolarmente al concetto giuridico (o al carattere che il mo- mento giuridico impone all’azione morale, di cui è costitutivo), e la compassione alla carità, e giunge all’identificazione adialet- tica dei due concetti secondo il ragionamento che conosciamo: non vi può essere vera giustizia senza compassione, né compas- 217 Corrispondenza fra la solidarietà delle rappresen- tazioni nella leg- ge scientifica e la solidarietà degli interessi nella carità. 218 L’ identificazione adialettica di giu- stizia e carità. 1) Etica e Politca, p. 73. 317 4 219 L’inopia della ca- rità. sione senza giustizia, dunque i due concetti sono uno solo. Egli ritiene che se presso alcuni filosofi quei concetti sono posti come distinti e talvolta fra loro contrastanti, ciò derivi da una concezione poco unitaria della 'moralità, che lascia sussistere diversi principi etici non armonizzati fra loro. Noi invece rite- niamo che la simpatia umana o carità sia un principio distinto e superiore alla semplice giustizia, per cui dobbiamo essere giu- sti anche verso coloro che combattiamo, e in certi casi si ri- chiede, come ben si dice, una giustizia spietata; mentre la ca- rità comprende in sé la giustizia come suo momento essenziale. 4. L’imperativo ideale. La ragione logica per cui il C. ha considerato la carità come un pseudoconcetto morale è da ri- cercarsi neH’inopia stessa di questa determinazione. L’amore, che dovrebbe essere superamento della particolarità dell’egoi- smo, è, per sua natura, particolare ed egoistico esso stesso. Non si può amare genericamente tutto e tutti, ma Si ama e si lotta per la propria famiglia o nazione, per una istituzione concreta a cui sentiamo di appartenere. Ma per difendere gli scopi del nostro gruppo ci opponiamo necessariamente ad altri gruppi e dal nostro stesso amore rinasce l’odio. Questa fatalità delle op- poste determinazioni risulta evidente nel più sacro e feroce dei nostri amori, nell’amor di patria. Si può credere che giovi dilatare sempre più quel nostro col- lettivo egoismo, e veramente vi sono dei momenti storici che ci fanno obbligo di passare da un più ristretto a un più vasto amore, come i nostri padri sono passati dalla solidarietà feudale e comunale a quella della nazione. Ma l’amore è di sua natura esclusivo e l’Eterno non si raggiunge sommando quantità a quantità. I giainisti indiani, che pretendono di amare ugualmente tutto ciò che vive e sorvegliano ogni loro passo per non schiacciare un insetto, si inaridiscono nel formalismo più sterile e disu- ‘ mano. E, per prendere un esempio da cose a noi più vicine, la Lega delle Nazioni, che volle includere nella sua tutela tutte 318 le razze dell’orbe terraqueo, si rivelò poi incapace di difendere i diritti dei più vicini popoli europei. Il particolarismo nazionale non si supera con un generico co- smopolitismo, bensì rispettando in tutti l’ideale della patria; imperitura non è questa o quella città in cui la nostra mamma ci ha partorito, ma solo quella Roma onde Cristo era romano. La carità mi comanda di considerare come miei propri gli scopi del mio 'prossimo, ma vien pur da domandarci che cosa avrà guadagnato il mio ideale se passerò dall’egoismo mio a codesto egoismo per conto altrui. Al precetto che prescrive di conside- rare ciascun uomo come scopo in sé stesso e non mai come sem- plice mezzo, il C. contrappone giustamente l’affermazione che dobbiamo considerare e noi stessi e gli altri, nella loro partico- larità, come mezzi per uno scopo ideale. L’ideale esprime non uno scopo contingente che io possa volere e tu no, ma uno scopo universale ed eterno. Questa universalità aveva in mente Emanueld Kant quando distinse l’imperativo categorico dagli imperativi contingenti, ma egli ebbe il torto di riferire talvolta l’universalità del precetto a un contenuto particolare, che non può essere che contingente. All’afferma- zione kantiana che se tutti si rifiutassero di restituire il depo- sito loro affidato, non vi sarebbero più depositi, Hegel obiettò perciò giustamente: che importa allo spirito universale che vi sieno o no dei depositi? Infatti si può ben concepire una società senza depositi bancari e senza proprietà privata. Rispetto al contenuto particolare, tutti gli imperativi, anche Imperativi quelli della virtù, sono ipotetici; e però i singoli precetti va- riano secondo i tempi e i paesi. Il precetto « restituisci il depo- sito che ti è stato affidato » è subordinato all’ipotesi: « se desi- deri far parte di una società in cui sia rispettata la proprietà». Rispetto alla forma della volontà invece, tutti gli imperativi, anche quelli della prudenza, sono categorici. Il precetto: « sii coerente nella tua volontà economica, cioè agisci in modo utile » non ha nulla d’ipotetico e contingente, ma è un principio altret- tanto universale come quello morale, anzi esso è veramente un momento del precetto morale. L’ideale invece è un imperativo assoluto perché il suo contenuto è una pura forma. Ai concetti puri della Critica teoretica corrispondono qui gli scopi a priori. Ideali per antonomasia sono le forme costi- tutive dello spirito: la Bellezza, la Verità, la Libertà, la Giu- stizia; che sono gli scopi Itessi di Dio, i fini che la storia va rea- lizzando nel suo faticoso cammino. Io amo Roma, ma* ammetto che altri ami Cartagine, e posso stimare chi combatte per di- struggere Roma; non posso invece ammettere che altri non ami la Verità e la Giustizia, non posso stimare coloro che sembrano mettersi contro gli scopi essenziali dello Spirito. L’ideale è ciò che non può non essere voluto. Non si può imporre l’amore che ha carattere d’individualità, ma si esige il rispetto all’idea; e una vita che non sia illuminata da uno scopo supe- riore alle contingenze materiali, è priva di dignità. Quando un uomo sente di dover seguire il suo ideale, ogni suo particolare affetto tace e gli diventa estraneo. È questo il senso di quelle dure parole di Gesù: « donna, che cosa v’è di comune fra te e me? » E di quell’altre: « lasciate che i morti seppelliscano i loro morti »; parole che ci ispirano tanto maggior rispetto, in quanto le troviamo nello stesso libro da cui ci parlano le più sante pa- 221 role di carità. La fede nell’i- Poiché non SÌ tratta di beni contingenti, ma di scopi eterni che non possono non realizzarsi, l’ideale esige da noi la fede. È merito della filosofia cristiana di avere esaltato questa virtù teologale contro ogni obiezione intellettualistica. Diceva con troppo semplice dilemma il Voltaire: O una cosa mi risulta falsa e non posso prestarci fede, o mi risulta vera e non ho alcun merito a crederla. L’obiezione è valida contro chi ritenga che ci sia un merito a mandar giù a occhi chiusi delle dottrine che fanno a pugni con la ragione, è valida cioè contro i misti- ficatori della fede, ma la fede nell’ideale, di cui qui si discorre, è un atteggiamento della volontà che fa propri i fini della prov- videnza, ed è sostenuta anche nei momenti più oscuri della vita. 320 r dalla certezza che il male non può prevalere. Non contano le contrarie apparenze del momento, poiché « mille anni sono innanzi ai Suoi occhi come il giorno di ieri che è già trascorso L’opposto della fede è lo scetticismo morale, sempre pronto a deridere ogni magnanima aspirazione, sempre incline ai facili accomodamenti e alla vile acquiescenza di fronte agli effimeri trionfi deH’ingiustizia e della menzogna. Scetticismo che finisce fatalmente in quella disperazione morale che i teologi chia- mano con termine appropriato un peccato contro lo Spirito santo. L’etica del C. è tutta illuminata da una luce ideale. La sua polemica contro la precettistica, cioè contro coloro che vorreb- bero ridurre la morale alla materialità di determinate « azioni virtuose » (e che corrisponde, in altro campo, alla sua pole- mica contro l’estetica del contenuto), ha appunto questo signir ficato: oggetto della volontà morale non possono essere degli scopi contingenti, ma solo uno scopo universale. Pochi sono gli autori con cui possiamo consentire cosi pienamente come col . , Croce moralista, ma la sua sistemazione logica dei concetti ci sembra in più punti inadeguata; come talora ci avviene di am- mirare il gusto artistico d’un critico, ma di dissentire dalla mo- tivazione teorica dei suoi giudizi. 222 Egli dice, ad esempio, che secondo alcuni filosofi il principio della identificazione morale sarebbe il dovere, secondo altri l’ideale, o la gioia del astratta ^del do- bene, o la virtù, ecc. E tutti costoro sarebbero nel torto perché. e^^^dell’idLleT e colgono la volontà morale non nel suo concetto, ma in uno o abbassamento di altro dei suoi aspetti empirici; e tutti avrebbero in qualche principi a modo ragione perché quelle definizioni non sono che delle si- empiriche, neddochi che lumeggiano lo stesso concetto.-^ Secondo noi quei concetti non hanno significato empirico ma filosofico, e non riguardano uno stesso concetto ma concetti distinti. Il do- vere per esempio si- riferisce alla legge giuridica (e talora al- l’imperativo ideale), la gioia del bene e la virtù si riferiscono 1) Pratica^, pp. 135-136. 321 :21 ' alla carità, e l’ideale al concetto che abbiamo procurato di de- finire in queste ultime pagine. Nel Gap. XIV di Etica e Politica ^ il nostro autore esamina il conflitto che può sorgere tra il « cuore » e la « ragione », e lo considera come un contrasto fra due volontà morali, l’una più alta e l’altra più bassa. Secondo noi il conflitto qui delineato può essere di due maniere: o fra la ragione giuridica e la carità, oppure fra la carità e la ragione ideale. Nel primo caso deve vincere il cuore, perché la carità ha già in sé la giustizia e la supera. L’uomo dalla fredda ragione è in questo caso il lega- lista che si attiene alla lettera della legge e al quale convien rispondere che la legge è fatta per l’uomo. Nel secondo caso deve vincere la ragione, cioè l’imperativo assoluto, perché nes- sun particolare affetto può essere superiore all’ideale. Dice il Croce: Nel seguire il vostro cuore in contrasto con la vostra ragione « voi provate una sorta d’inquietudine e di ri- morso, avvertite che un affetto più basso vi seduce a chiudere gli occhi al vero, il quale l’affetto più alto vi consiglia d; guar- dar ben fiso; e nel tendere a far prevalere l’affetto più basso al più alto, nobilissimo che sia anche il primo riguardato da solo o in condizioni diverse dalle presenti, voi cedete a un cuore che è il vostro cuore individuale, alla vostra compiacenza e, in 223 fondo, al vostro egoismo ».^ Il conflitto fra la Qui è adombrato il contrasto fra la carità e l’ideale, la carità tà'^rquello^ra^a ^ Sentimento generoso, ma che deve cedere di fronte a carità e l’ideale, un dovere più alto. Nelle parole seguenti, invece, il termine « ragione » non significa più l’ideale, ma la giustizia, o meglio oscilla fra i due significati: verso coloro che hanno resistito al cuore e fatto prevalere la ragione — egli dice — il sentimento che proviamo « assai di rado è ammirazione (benché poi, quando diventa ammirativo, salga addirittura a quel culmine che 1) Op. cit. pp. 68-72. 2) Op. cit. p. 69. 322 chiama venerazione), ma di solito sta tra la freddezza e la dif- fidenza ».^ È chiaro, ci sembra, che noi non ammiriamo gli uomini della fredda ragione quando dubitiamo che in essi prevalga il senti- mento del dovere e della giustizia per scarso fervore di carità, che se invece,' in alcuni pochi casi, la nostra ammirazione di- venta venerazione (come per le parole del Vangelo che ab- biamo ricordate), si è perché allora non abbiamo dubbio che la carità ci sia, ma sentiamo che l’amore ideale supera quello terreno. Abbiamo detto che il C. definisce la volontà come volizione del- l’universale, per cui il suo concetto etico coincide con l’afferma- zione degli scopi eterni di cui abbiamo ora parlato. Ma egli identifica poi questo concetto con quello della virtù, che è un momento inferiore e con quello dell’azione etico-politica che è, come ora vedremo, un concetto distinto dall’imperativo ideale e ad esso superiore. ' 224 5. La Politica. I grandi assertori dell’ideale, i profeti e apo- inattualità del stoli, si oppongono superbamente alla vita. Si dice che un agita- ideale, tore russo, a chi lo rimproverava di mettersi contro la realtà, abbia risposto: tanto peggio per il reale. E con uguale coscienza della contradizione disse l’antico: victrix causa diis placuit, vieta Catoni. La contradizione consiste nel considerare l’essenza dalla vita come negazione della vita, per cui talora si è portati a disperare per aver troppo sperato. Al concetto puro della gnoseologia corrisponde l’ideale puro nella filosofia della Pratica, e come il concetto puro non diventa attuale che nel giudizio storico, cosi l’ideale morale non acqui- sta realtà che nell’azione civile. In realtà non esiste l’ideale del Vero, ma solo quella determinata verità per il trionfo della quale lottiamo. Non esiste la' Libertà, ma esistono le battaglie 1) Op. cit. p. 70, 323 \ ) 225 Definizione del- l’azione politica. combattute da un determinato popolo per conquistarsi la sua libertà. L’amore fattivo provvede al bene di un dato gruppo o di una data istituzione, l’apostolo si affisa in un ideale eterno che tra- scende ogni gruppo e ogni istituzione; compito dei costruttori di storia, dei politici in alto senso, è la realizzazione dell’ideale nelle concrete istituzioni. Non basta all’azione civile l’amore per una data nazione, ma occorre realizzare nella nazione che amia- mo un ideale universale di potenza, di giustizia e di civiltà. Per questo gli eroi della storia ci appaiono secondo l’espres- sione di Hegel come « gli uomini d’affari dello Spirito assoluto », e i popoli che hanno coscienza della propria missione storica considerano sé stessi come popoli sacerdotali e le loro gesta come adempimento di una volontà superiore: Gesta Dei per Francos. Per quanto una cattiva letteratura e un’equivoca morale ab- biano screditato questi concetti, si deve affermare che c’è nella volontà eroica qualche cosa di inesorabile e di spietato, e un vero e proprio superamento dell’amore; poiché si tratta di rea- lizzare dei fini tali per cui è giusto sacrificare le persone e le cose da noi amate. Forse per questo si è dato un eccessivo ri- lievo alla forza, e si è creduto che questo sia l’elemento essen- ziale alla politica, come il documento è essenziale al giudizio storico, cioè come il corpo è necessario allo spirito. È degno di nota questo fatto che nella storiografia, cioè nella piena attività teoretica, il riferimento al documento sensibile, cioè al più semplice e più basso momento della conoscenza, acquisti un’importanza fondamentale, per cui ogni storico che si rispetti raccoglie con lunga e assidua fatica il materiale docu- mentario sul quale costruirà il suo lavoro, guidato dalla co- scienza che a nulla varrebbero le sue concezioni più geniali se fossero smentite dai documenti. Analogamente nella Politica, cioè nella più complessa attività pratica, il riferimento alla forza violenta, che è la più semplice e più bassa determinazione della volontà, assume un’importanza preminente e ogni uomo 324 di Stato sa che i suoi ideali più sacri saranno condannati a re- stare delle pie intenzioni, s’egli non avrà predisposto la forza necessaria al loro trionfo. Meglio una cronaca sicura che una pretesa genialità senza fondamento, meglio la positiva realiz- zazione di scopi modesti che un’apparente magnanimità ideale campata in aria. Con ciò tuttavia non si giustifica né uno storico che volesse ridurre la sua opera a una^ mera constatazione di fatti, né un politico che limitasse la sua azione a una manifesta- zione di potenza senza scopo ideale. Abbiamo parlato finora dell’azione economica, giuridica, mo- rale, ecc.; avremmo dovuto dire: dell’aspetto economico, giuri- dico e morale dell’azione. A rigor di termini l’azione civile è azione senz’altro, cioè l’unica manifestazione concreta dello spirito pratico. Poiché l’ideale è ciò che si realizza sempre, esso è immanente in ogni nostro fine particolare. Come il più comune dei nostri giudizi implica pur sempre una concezione storica e filosofica, cosi anche la più semplice delle nostre azioni è sempre in qual- che modo azione civile. Anche quella del rivendugliolo che compera la sua merce per dieci e la rivende per dodici, e in tal modo rifornisce il mercato e provvede alla sua famiglia che è parte dello Stato e del consorzio civile. L’individuo può averne una più o meno chiara coscienza, ma ogni azione effettiva serve 226 ai fini della provvidenza. Gli uomini — dice il Vico — credono u omo politico di unirsi per la rapina e fondano gli Stati. Ora vi sono alcuni pochi, che più consapevolmente votano la loro vita alla realiz- nenti della storia, zazione di codesti scopi della provvidenza e sono gli eroi della storia, gli uomini politici in alto senso. Il desiderio di gloria che anima ogni uomo politico — e che è tanto diverso daH’istrio- nismo della vanità — esprime la coscienza che la sua opera non mira a fini contingenti, ma attende il consentimento di coloro che il nostro tempo chiameranno antico. Al nostro concetto si può contrapporre il concetto della politica come pura economicità, affermato dal Croce, notando che la realtà della vita smentisce la nostra concezione e convalida 325 quella opposta. Dove sono questi uomini politici che si pro- pongono di realizzare degli ideali eterni? La sola parola fa ri- dere i nostri politicanti, i quali ritengono che gli ideali vanno adoperati finché possono esercitare qualche suggestione sulle folle, e quando non servono più vanno relegati in soffitta. Un uomo di governo del nostro tempo, infastidito per le « vocife- razioni libertarie », ebbe a dire che nei suoi frequenti contatti con le masse popolari gli era spesso accaduto di sentirsi chie- dere delle strade, degli acquedotti, delle tariffe protettive e delle rivendite di tabacchi, ma che nessun postulante si era mai presentato a chiedere un bene cosi metafisico come la libertà. Ebbene: anche se si potesse dimostrare che la maggior parte degli uomini politici del nostro tempo poco si cura dell’ideale e molto dell’utilità, noi affermiamo che l’elemento utilitario per sé non é ciò che caratterizza l’azione politica. Si obietterà che con ciò la nostra concezione si confessa antistorica, poiché non sente il dovere di aderire a quella realtà, in cui l’anima 227 irascibile e l’anima appetitiva hanno il sopravvento suH’anima L’essenza e l’ap- razionale. Noi non chiudiamo gli occhi e ben vediamo codesta pare n za della realtà che ci stringe da presso, ma per essa non dimen- politica. tichiamo la realtà più profonda. L’unà risulta da una superfi- ciale considerazione quantitativa, l’altra dall’essenza stessa dello spirito. Se badiamo semplicemente al numero dei lavori che si spac- ciano per opere d’arte, dovremmo dire che l’elemento sensa- zionale o edonistico è essenziale alla bellezza. Ma il filosofo ri- sponderà che la quantità dei cattivi esempi mon è normativa di fronte ai pochi capolavori, e che anzi tutto ciò che v’è di vera- mente sentito e di bello (e nessuna opera è del tutto priva di bellezza, poiché sarebbe in tal caso priva di realtà) smentisce l’estetica edonistica. La stessa cosa si può dire di tutte le manifestazioni spirituali: nella maggior parte delle religioni abbondano elementi magici e fantastici, non per questo la nostra fede deve farsi supersti- 326 ziosa; la maggior parte dei giudizi umani sono incoerenti, ma non per questo Tincoerenza è norma della logica. Possono i falsi artisti, i falsi sacerdoti appellarsi alla realtà fin che vo- gliono, noi non vogliamo saperne della loro realtà, e ben sap- piamo che essa non può prevalere. Essa appare ma non è. In quanto la storia riguardi un morto passato, la filosofia è anti- storica, o meglio metastorica, poiché essa non riguarda soltanto ciò che è stato, ma ugualmente ciò che sarà, non soltanto l’es- sere, nella sua empirica apparenza, ma anche quel dover essere, che costituisce l’essenza del divenire reale. 228 Ma esaminiamo più da vicino la teoria del nostro autore e La dottrina poli- vediamo se essa corrisponde veramente alla realtà. L’azione ^ politica ^ — dice il Croce — non è altro che azione guidata dal senso dell’utile, essa è indirizzata a un fine di mera utilità e per sé non può qualificarsi né morale né immorale.^ Attività politica e attività economica sono concetti coestensivi e non è possibile addurre alcun carattere che distingua la prima nel- l’orbita della seconda.^ La richiesta che spesso si fa dell’'« onestà » nella vita politica è manifestazione di volgare inintelligenza ^ (simile a quella di chi richiedesse dalla poesia non l’impeto lirico ma il rigore delle argomentazioni scientifiche). Quando si tratta di sottoporsi a un’operazione chirurgica, ci si rivolge a un medico, onesto o disonesto che egli sia nella sua vita privata, purché fornito di occhio clinico e di abilità operatoria, cosi nel governo della cosa pubblica quello che importa èvil genio politico e non l’onestà. Le pecche che possa eventualmente avere un uomo dotato di capacità politica, lo renderanno inadatto in quelle sfere, ma non già nella politica.'^ La cerchia della politica è quella degli affari, dei negoziati, delle lotte ora insidiose ora aperte, della forza e della guerra; e in 1) Etica e Politica, p. 213. 2) Etica e Politica, p. 215. 3) Op. cit. p. 165. 4) Op. cit. p. 166. 327 questa continua guerra individui, e popoli e Stati stanno vigili contro individui, popoli e Stati, intenti a mantenere e promuo- vere la propria esistenza, rispettando l’altrui solo in quanto giovi alla loro propria, e, in ogni altro caso, assaltando e di- struggendo l’altrui o rendendosela soggetta.^ Le lotte politiche non sono lotte morali, e gli Stati in quanto lottano tra loro non sono individui etici ma individui economici. L’individuo morale è tenuto a serbare la sua dignità, e perciò gli è vietato cedere alle disoneste minacce, ma gli è altrettanto vietato ostinarsi in un proposito riconosciuto ingiusto ed è suo obbligo riconoscere il proprio errore. La dignità degli Stati è tutt’altra cosa: è una dignità che consiste nell’asserire la forza senz’altro limite che questa forza stessa e il più conveniente e utile modo di usarla. Onde lo Stato non riconosce mai, in nes- sun caso, un proprio torto; ma, d’altra parte, cede alle minacce quando sono veramente pericolose. La sua è una forma di di- gnità che trova riscontro in quella dell’uomo prepotente, che non si piega se non al prepotente più forte o più fortunato di lui. Ma mentre l’individuo prepotente talvolta preferisce la rovina e la morte all’onta della sottomissione e rende cosi un omaggio indiretto alla coscienza morale, lo Stato invece, non può nemmeno ciò, non può preferire la propria rovina e morte alla salvezza, quale che sia, della vita, cosicché, se fosse un individuo morale, sarebbe da dire vile. E vili (se tale parola fosse adoperabile nel caso, come non è, perché lo Stato non si aggira nella cerchia etica) sono i suoi procedimenti: le sue lu- singhe verso quelli di pari forza, e il suo timoroso rispetto verso i più forti, la sua mancanza di riguardo verso i deboli.^ Questa è la realtà che conviene affisare spregiudicatamente, se non si vuol cullarsi in vane e pericolose illusioni. Ma gli uomini amano la dolce pigrizia e non sanno rassegnarsi all’idea che la vita è lotta e che la pace perpetua non si può avere se non nella tomba. Di qui il detto volgare che « la politica è cosa sudicia », 1) Op. cit. (appendice) p. 357. 2) Op. cit. (L’antieroicità degli Stati) pp. 176-177. S28 cioè la negazione della politica, che è la più vistosa manifesta- zione della lotta umana; di qui il desiderio assurdo di farla finita con ogni lotta, accarezzando a parole l’ideale della pigri- zia: la giustizia sociale e internazionale, l’eguaglianza, la fra- tellanza, l’accordo tra le classi, la lega dei popoli. Gli uomini politici poi, non potendo mutare a loro beneplacito 10 stato d’animo del volgo, fingono di approvarlo a parole pur negandolo negli atti, e, talora, per mancanza di chiarezza filo- sofica, finiscono per restare irretiti nei loro sofismi oratori, e si sentono allora come costretti a fare il male che non vorrebbero, a esercitare l’inganno quando proverebbero grande soddisfa- zione nel parlare a cuore aperto; cioè sono travagliati dalla coscienza (senza dubbio, fallace) di vivere contro morale e contro natura. 11 pregiudizio contro la politica è talmente diffuso che la gloria del Machiavelli, che coraggiosamente ne teorizzò la reale na- tura, ne rimase offuscata, e il suo nome proprio diede origine a un nome comune, cht, suonò sinonimo di perfidia e nequizia. E il popolo tedesco che, nella prima guerra mondiale, per bocca dei suoi uomini di Stato, ha procurato di svelare gli arcana imperii e di rendere trasparente e consapevole l’azione politica, è stato coperto dall’orrore morale del mondo intero. Errore suo, indubbiamente, ma di polìtica e non di teoria, e che lo ha mostrato fornito di sapienza teorica superiore a quella di altri popoli, e di coraggio del vero, ma sfornito di quel senso poli- tico che invita a tener arcani gli arcana imperii, e a lusingare e illudere chi non chiede se non di essere lusingato e illuso.^ Ognuno sente, crediamo, che in questa dottrina (che abbiamo riferita con le parole stesse dell’autore) c’è una visione reali- stica che non si può disconoscere, ma c’è insieme qualche cosa di falso, contro cui si ribella il nostro intelletto e la nostra co- scienza. Che nella realtà storica gli Stati si comportino al modo descritto 1) Op. cit. (La nausea per la politica) pp. 169-172. 329 229 (^)uale è la ragio- ne per cui le azioni politiche si giudicano con diverso criterio da quelle private? 230 L’azione politica ha la sua morale in sé. 231 I precetti morali basati su un con- tenuto determi- nato sono o tauto- logici o falsi. dal C. è un fatto che non si può negare, come non si può negare che anche uomini di grande rettitudine si giovano, a servizio della patria, di espedienti a cui nessun galantuomo ricorrerebbe a scopo privato. Ma quale è la ragione per cui le azioni politi- che si giudicano con diverso criterio da quelle private? Secondo il C. la ragione è questa: che l’azione politica è azione economica e va quindi giudicata con criterio utilitario e non morale. Moti- vazione poco plausibile, perché anche l’industria è attività eco- nomica, ma non per questo si approverebbe l’industriale che assoldasse delle spie fra gli impiegati di un concorrente, cer- casse di corromperne gli operai per sabotarne il lavoro o facesse collocare delle macchine infernali per rovinarne gli impianti. Secondo noi la ragione è precisamente opposta a quella addotta dal Croce: si ritiene lecito al politico ciò che non sarebbe lecito all’uomo particolare, non perché la politica sia un momento inferiore alla morale (come è l’economia) ma anzi perché essa è un’attività superiore, che ha già la sua morale in sé. Ciò è confermato dal fatto che noi ci facciamo più intransigenti e spietati nelle nostre lotte, quanto più alta è la causa per cui combattiamo. Se è vero, come scrive qualche antico, che Dante Alighieri fu uomo poco sollecito del benessere della sua fami- glia, nessuno di noi si sentirebbe di censurarlo, e questo non . già perché lo consideriamo « uomo economico » (nel qual caso anzi lo censureremmo) ma perché egli fu un eroe dello spi- rito che dedicò la sua vita a un’opera civile, per la quale è giusto sacrificare sé stessi e gli altri. Le censure di immoralità che volgarmente si muovono agli uomini grandi derivano per lo più (non diciamo sempre) da uh modo materiale e « contenutistico » di concepire la morale. Per i bisogni spiccioli della vita quotidiana si foggiano dei precetti empirici: « non rubare, non uccidere, non commettere adul- terio ecc. » che ogni onest’uomo tiene istintivamente presenti come direttive nella sua azione, e che gli fanno dire: queste cose si fanno e quest’altre no (e guai se cosi non fosse!). Ma nell’ap- plicazione al caso determinato quei precetti si rivelano o ina- 330 deguati e falsi (perché anche uccidere un uomo può essere, in certi casi, azione moralmente giusta) o tautologici e vuoti, in quanto si sottintenda che quelle azioni son da condannarsi sol- tanto quando sieno compiute ingiustamente. Ora, quando si tratti di giudicare un’azione di portata storica, l’inadeguatezza di quei preconcetti risulta con particolare evidenza, per cui si suol dire che l’azione politica non va giudicata secondo i precetti della morale, mentre si dovrebbe dire che nessuna azione uma- na va mai giudicata secondo la materialità di quei precetti. Si confrontino a questo proposito le belle pagine del C. nel cap. Ili di Elementi di Politica,^ in cui egli distingue il punto di vista moralistico da quello dello storico etico-politico. Il moralista, egli dice, è un pratico correttore o censore, che mira a tener saldo e inflessibile l’ideale morale esaminando la cor- rettezza delle singole azioni e la maggiore o minore bontà dei singoli individui; mentre lo storico si volge a ricercare il passato in tutte le sue relazioni, e come l’interesse suo è più largo di quello della pedagogica individuale, còsi più largo è il suo sguardo e il suo giudizio e diversa la scala d’importanza .alla quale egli si attiene. Il C. paragona l’uno al grammatico o maestro di lingua e di stile, e l’altro al critico di poesia; il primo dei quali scrutina severamente la proprietà e perfezione delle espressioni, e loda le perfette e condanna le imperfette, laddove il secondo accetta le imperfezioni pur di vedersi dinanzi un’opera di vera e grande poesia. E come i grammatici spesso approvano le opere mediocri in cui ritrovino proprietà e purità e sono proclivi a respingere le opere ricche di virtù e non povere di difetti, onde famose sono state le loro avversioni a Omero, a Dante e a Shakespeare; cosi i moralisti lodano i mediocri ma onesti e fanno il viso ar- cigno ai grandi e colpevoli, agli Alessandri, ai Cesari e ai Na- poleoni. Qui, come si vede, il C. non contrappone più il supposto uti- 1) Op. cit pp. 273-277. 331 l. 232 L’inefficienza del diritto interna- zionale e il mal- costume politico. litarismo puro della politica alla moralità, ma distingue tra una morale più angusta e una più vasta e più alta. Le considerazioni ora svolte ci possono spiegare la ragione del criterio particolare con cui si giudicano le azioni politiche, ma non ci spiegano perché gli Stati si comportino l’un verso l’altro in quel modo belluino che il C. ci descrive e che richiama alla mente il mostro biblico da cui lo Hobbes ha intitolato la sua opera. Dire che gli Stati sono enti economici non spiega nulla, perché non è detto che gli enti economici abbiano a comportarsi da belve feroci; ma c’è fra gli istituti economici e gli Stati questa differenza: che i primi svolgono la loro attività entro la cornice di un sistema giuridico saldamente costituito, e i secondi no. Non si può dire propriamente che manchi ogni forma di diritto tra gli Stati (e se il diritto è, come noi sosteniamo, una categoria universale, esso non può mancare in nessuna forma di convi- venza umana), non manca, tanto è vero che si concludono con- venzioni e patti e alleanze, tutte cose che non avrebbero senso senza il riconoscimento di un diritto; ma vero è che il diritto internazionale è la forma più malsicura e imperfetta di diritto; una funzione che non ha saputo ancora crearsi l’organo adatto. Non c’è diritto senza forza esecutiva e senza sanzione, e anche nelle relazioni internazionali la sanzione c’è, se non altro nel fatto che uno Stato che mancasse regolarmente ai suoi impegni si screditerebbe di fronte all’opinione pubblica e non troverebbe più contraenti; ma ognuno vede quanto sia platonica ed evane- scente una istituzione giuridica come l’opinione pubblica. Il diritto è, come abbiamo detto, momento preparatorio ed in- sieme elemento costituitivo della morale, ed è inevitabile che la mancanza di un diritto certo corrompa il costume e ne abbassi 10 stile, anche in uomini che abbiano una non ottusa sensibilità morale. Se la diffamazione e le offese all’onore sono di loro na- tura materia male disciplinabile per via giuridica, è naturale che 11 cittadino provveda a farsi giustizia da sé secondo un illegale codice cavalleresco, col congiunto rischio di uccidere un uomo- per una parola disavveduta; se la legge che vieta il contrabbando 332 e il « mercato nero » resta per lo più lettera morta, è naturale che anche le persone per bene finiscano per ricorrere a quei commerci illegali. Se domani il furto non venisse più affatto punito e l’istituto della proprietà decadesse, anche gli onest’uo- mini dovrebbero acconciarsi a una vita di rapina, e se vigesse la regola che chi non uccide resta ucciso, ogni buon padre di famiglia dovrebbe procurare di sparar lui per primo. Essendo di tal genere le relazioni tra gli Stati, avviene natu- ralmente che le convenzioni giuridiche che pur sussistono ven- gono via via infrante, e che il modo di agire degli Stati vada sempre più avvicinandosi all’ideale della « pura economicità ». Vige la convenzione che il territorio di un popolo neutrale non debba venir invaso dai belligeranti; ma se c’è il pericolo che il nemico non rispetti quella convenzione e acquisti con ciò un vantaggio decisivo su di noi, non sarà nostro dovere prevenirlo? E se anche quel pericolo fosse piuttosto problematico, ma l’inva- sione di quel territorio fosse l’unico mezzo per la salvezza della patria, o comunque un mezzo sicuro di procacciar vantaggio alla nostra parte e di risparmiare le vite dei nostri soldati, do- vremmo rinunciarvi per l’ubbia di un diritto campato in aria? E poiché l’aver nome di aggressori ci nuocerebbe, non sarà op- portuno protestare che l’aggressione era stata preparata dal ne- mico e che noi l’abbiamo dovuto prevenire per difenderci? C’è la convenzione che non si bombardano le città aperte; ma se questo è un mezzo per vincere o per abbreviare la guerra,, per- ché si dovrebbero rispettare le vite dei vecchi, delle donne e dei fanciulli, mentre muoiono al campo i giovani più validi? Si di- struggeranno dunque le città nemiche, ma protestando che i nostri non colpiscono che obiettivi militari o ricorrono soltanto a delle giuste rappresaglie per rintuzzare le barbare sopraffa- zioni degli altri. C’è la convenzione di rispettare gli ospedali, di non massacrare i feriti e di trattare umanamente i prigio- nieri; ma se, mascherando da ospedale coi segni convenuti della croce rossa una posizione chiave, si potrà avere qualche van- taggio, non si mancherà di farlo, tanto più che quand’anche il 333 s nemico se ne accorgesse e la colpisse coi suoi obici, si potranno poi pubblicare le fotografie dell’ospedale colpito acuendo in tal modo la volontà combattiva dei nostri. Se uccidendo i prigio- nieri feriti si guadagna tempo per le operazioni militari, si uc- cideranno; e se torturandoli si potrà avere qualche utile infor- mazione, si tortureranno. Il nemico certamente farà altrettanto, e allora, per rappresaglia, si tratteranno in modo disumano tutti i prigionieri, o si fucileranno in massa, col vantaggio di rispar- miare trasporti, viveri e alloggi, ed indurre i nostri a una dispe- rata resistenza, per non subire a loro volta la stessa sorte dalla ferocia nemica. E poiché v’è pure il pericolo che vi sieno delle anime sentimen- tali tra i nostri concittadini che male si adattino al nuovo co- stume, sarà bene premunirsi a tempo, instaurare un regime forte anche alTinterno, abolire le garanzie costituzionali, istituire dei giudizi statari, reintrodurre di fatto se non di nome la tortura nelle procedure inquisizionali, e possibilmente scegliere un grup- po inoffensivo di concittadini, attribuir loro un potere tenebroso, fabbricare documenti per accusarli d’ogni nefandezza, dichia- rarli fuori legge e aizzare contro di loro l’odio delle folle; con- seguendo in tal modo il vantaggio di abituare gli altri cittadini a un costume aggressivo, di far loro tollerare ogni sorta di re- strizioni e angherie con la coscienza d’essere pur sempre dei privilegiati, e di aver pronto un capro espiatorio per ogni eve- nienza. Quando infine si fosse ottenuta la meritata vittoria e il nemico fosse a nostra discrezione, non si vorrà commettere l’er- rore di lasciargli l’indipendenza e con ciò la possibilità di pre- pararsi alla riscossa, ma si seguirà una politica più accorta e virtuosa, sterminando con metodiche carneficine e con una scientifica sterilizzazione i popoli che non si possono tener sog- getti, e destinando gli altri al rifornimento di un mercato di schiavi, secondo l’antica usanza dei padri. Queste sono le magnifiche sorti e progressive della vita politica (e non avremmo saputo ricavarle dalla nostra fantasia). Di so- lito se ne attribuisce la responsabilità a coloro che più degli 334 I altri hanno contribuito ad abbassare il costume politico, infran- gendo per primi delle norme fino allora consacrate dalla con- suetudine, e non vogliamo dire che questa responsabilità non sussista affatto. Ma la responsabilità l’abbiamo noi tutti uomini del nostro tempo, che non abbiamo saputo costituire un diritto e una forza tali, che possano salvare la nostra civiltà dalla ro- vina. 233 O si riuscirà a costituire in una qualsiasi forma un non piato- Esigenza di un nico diritto armato internazionale, o saranno inevitabili i pe- mterna- riodici, immani, macchinosi macelli e il progressivo abbruti- mento del costume, onde sarà giusto dire che la politica è cosa infame. Il C. schernisce l’idea di una organizzata solidarietà tra i popoli e di una giustizia internazionale, e la chiama l’ideale dei pigri, che non sanno rassegnarsi al fatto che la vita è lotta; come se non ci fossero lotte più degne di quelle che si fanno a colpi di cannone, come se fosse un segno di pigrizia desiderare di lavorare senza ammazzare il prossimo, come se la vita sol- datesca fosse l’ideale della laboriosità! È vero che il mondo è stato sempre pieno di progetti pacifisti ingenui e. strampalati, come è vero che i tentativi pratici finora fatti, dalla Santa Alleanza alla Lega delle Nazioni, sono stati particolarmente infelici, ed è verosimile che i nuovi tentativi, che pur si dovranno fare, ripeteranno i difetti dei precedenti e, mettendo nello stesso mazzo bianchi, neri e gialli, creeranno de- gli organismi d’apparenza universalistica ed egalitaria, che do- vranno servire in sostanza agli interessi particolari degli Stati più forti; oppure, senza maschera, si costituirà un ordinamento ad esclusivo beneficio dei vincitori. Ma anche gli istituti giuri- dici e gli Stati ora esistenti, che si sono svolti attraverso lotte di millenni, hanno avuto origine dalla cupidigia e dalla rapina ed hanno servito e servono a interessi di classe, e tuttavia tutti diciamo che vai meglio un cattivo governo che nessun governo. Sopraffazioni, patimenti, errori, possono diventare stimoli co- struttivi di miglioramento, soltanto con lo scetticismo non si costruisce mai nulla. Ciò che oggi ci fa spasimare d’angoscia ci 335 apparirà forse domani un processo di risanamento, e forse gli storici futuri vedranno nelle due guerre che hanno devastato il nostro mondo, le prime tappe verso la costituzione di un nuovo Diritto. Ritornando al primo detto, cioè al problema dal quale siamo partiti e che riguarda l’identifìcazione crociana della politica con l’economia, si potrebbe obiettare che quanto abbiamo ora notato intorno al modo effettivo di comportarsi degli Stati, armati l’un contro l’altro nelle loro reciproche competizioni, conferma la tesi sostenuta dal Croce e da noi combattuta. A ciò si deve rispondere che anche due santi, in quanto lottano tra loro, sono individui economici, ma non per questo è lecito identificare la santità con reconomia. C’è un m.omento economico in ogni attività umana, ed esso non è altro che il momento della lotta, per cui giudicare la forza e l’abilità con cui un uomo combatte nelle sue lotte, si- gnifica giudicarlo dal punto di vista economico. Ma come non si combatte per il puro gusto di menar le mani, cosi l’attività economica è sempre un mezzo e non mai uno scopo. Fu detto che il fine giustifica i mezzi, ma se con ciò s’intende dire che dei mezzi disonesti vengono giustificati dalla moralità dello scopo, si deve dire piuttosto che i mezzi, in quanto mezzi, non possono essere né morali né immorali, ma semplicemente adatti o disa- datti allo scopo; e quando sembra che ci sia conflitto tra la moralità del fine e l’immoralità dei mezzi, il conflitto è vera- 234 mente fra due scopi o ideali diversi. La «politica este- Il fatto che quando si parla di azioni politiche ricorrono facil- ra» rappresenta ^le^te al pensiero le più vistose manifestazioni della politica il momento eco- , , „ T . , „ , i nomico della estera, 6 una delle ragioni che possono far sembrare plausibile politica. l’identificazione della politica con l’economia. Politica estera di- venta naturalmente sinonimo di attività economica se chiamia- ' mo relazioni verso l’estero quelle in cui lottiamo per gli inte-' ressi nostri o del nostro gruppo, prescindendo dalla solidarietà verso altri gruppi. Da questo punto di vista ogni azione umana ha due facce, l’una 336 di politica interna e l’altra di politica estera. Si dice ad esempio che il commercio e Tindustria sono attività economiche, ma se consideriamo l’atteggiamento dell’uomo d’affari verso la sua fa- miglia, cioè nella sua politica interna, dovremmo dire che la sua industria è un mezzo e il benessere della famiglia è lo scopo. E se egli ama il lavoro al quale s’è dedicato e si unisce ad altri per migliorarne le condizioni e lotta contro altri rami di pro- duzione che abbiano interessi opposti, la sua industria diventa il campo della sua politica interna (cioè lo scopo che egli ama), e la sua lotta contro gli interessi contrastanti diventa la sua po- litica estera (cioè un mezzo per quello scopo). Cosi noi diciamo che la guerra è azione economica, in quanto la consideriamo come azione rivolta contro il nemico esterno, ma se badiamo al soldato che sopporta i disagi della guerra e si sacrifica per il , bene della patria, non possiamo giudicarlo uomo economico. È chiaro dunque che quando si considera soltanto la forza e l’abilità di un uomo d’azione, si guarda una sola faccia della sua azione, mentre non può essere indifferente al nostro giudizio il sapere per quali scopi quella forza e quella abilità siano state impiegate. Qual’è il criterio con cui si giudica l’uomo politico? È suffi- ciente alla nostra approvazione il dire che egli ha provveduto accortamente a interessi suoi, oppure si richiede che egli metta la sua forza al servizio di una causa civile? Il C. dice in un in- ciso, come cosa che s’intende da sè, che le azioni politiche non si compiono per soddisfare la propria sete di potere o altra pri- vata ambizione o passione, bensi per la sacra tutela della causa ideale che la storia ci ha affidato.^ Se dunque si vuol chiamare «utile» l’azione del politico, conviene soggiungere: utile non per sè ma per la sua causa. Ma, per ricordare altre parole dello stesso Croce, quando si opera mirando all’utile che non è l’utile dell’individuo, ma quello che lo comprende sotto di sè e lo tra- scende, si è già oltrepassata la mera coscienza economica, si è 1) Etica e Politica, p. 215. 337 235 L’azione politica oltrepassa sem- pre la sfera eco- nomica. riempiuta questa di un contenuto morale, si è data all’attività pratica la forma etica. ^ Secondo questa definizione l’azione politica oltrepassa sempre la sfera economica. L’economicità è un momento dell’azione poli- tica, come la rappresentazione documentata è un momento del giudizio storico, momento necessario, ma non sufficiente a co- glierne l’essenza. La natura utilitaria della politica risulterebbe, secondo il C., anche dal fatto che laddove l’uomo morale ha, in dati casi, il dovere e il diritto di sacrificare la sua vita, lo Stato^è di qua da questo dovere e da questo diritto. Chi esercita opera politica deve unicamente avvisare alla salvezza dello Stato, col quale si identifica in quell’atto, e compiere ogni sforzo e adoperare ogni mezzo che a ciò conduca. La storia, la quale non conosce eroi i quali abbiano sacrificato la loro patria a un’idea, conosce in- vece coloro che hanno meritato biasimo per aver sottoposto gli interessi dello Stato a un’idea o a un sentimento morale, gene- roso, ma estraneo al determinato dovere politico.- Da queste considerazioni si deve trarre, secondo noi, la conclu- sione precisamente opposta: la Politica è un compito superiore alla volontà virtuosa, e perciò appunto l’ideale politico non deve venir sacrificato a nessun particolare affetto o sentimento, mentre sarebbe falso dire che non si devono sacrificare degli interessi economici per considerazioni morali. Lo Stato è dunque di là e non di qua da questo dovere. Se fosse vero che in grazia del suo carattere economico lo Stato non va mai sacrificato, si do- vrebbe concluderne che nemmeno un’azienda commerciale si debba mai sacrificare per ragioni ideali. Vedremo nelle prossime pagine che il sentimento religioso si può considerare come un momento superiore alla Politica, e chi cosi lo consideri, sentirà il dovere, ove il suo sentimento po- 2) Pratica^, p. 353. Il C. dice veramente: « Si è già oltrepassata la mera coscienza giuridica», ma, come sappiamo, per lui coscienza giuridica e co- scienza economica sono termini equivalenti. 2) Etica e Politica, p. 345. 338 litico venisse in contrasto col suo ideale religioso, di sacrificare il primo al secondo. Che non è una supposizione immaginaria ma una realtà storica in tutti coloro che, in tempi lontani e in tempi a noi vicini, si sono distaccati dalla loro gente e dalla terra dei padri e hanno strappato la loro patria dal loro cuore, quando la patria terrena esigeva il rinnegamento della loro fede. L’identificazione del valore politico con quello economico ci sembra uno dei più gravi errori in cui sia incorso il nostro au- tore, ma fa piacere poter constatare che, a differenza di tanti altri, il C. ha predicato male ma ha agito bene; per cui si può dire: non fate come egli dice ma fate come egli fa. Quando il C. ha sentito il dovere di agire politicamente, egli non ha mai seguito il « criterio economico », non ha perseguito l’utilità, nem- meno la mera utilità della patria, ma ha seguito un imperativo ideale, e soprattutto egli ha avuto coscienza di compiere opera politica con tutta l’opera sua,^ che fu opera di studioso e insieme di uomo, sollecito non di un’utilità contingente ma di un valore universale. Questa è l’azione politica come noi la in- tendiamo e come dev’essere intesa, che potrà esplicarsi in campi assai diversi, ma in cui non potrà mancare quello che è il suo carattere distintivo: la volontà implacabile di lasciare dietro a sé un mondo in cui pulsi una vita più intensa e più alta. La teoria della Politica come economicità avrebbe dovuto far aderire il C. a quelle dottrine che pongono nella forza e nell’au- torità l’essenza dello Stato; con felice inconseguenza egli consi- dera invece l’autorità statale come sintesi di forzaedi con- senso, di autorità e libertà. Il dilemma — egli dice — se lo Stato si fondi sulla forza o sul consenso, e il que- sito se legittimo sia lo Stato dovuto alla forza o solo quello do- vuto al consenso, vanno risolti nel senso che forza e consenso, sono in politica termini correlativi e dov’è l’uno, non può mai mancare l’altro. E forse meglio avrebbe detto: dove manca l’uno 1) Cfr. Contributo alla Critica di me stesso in Etica e Politica, p. 388. 236 Considerando la politica come unità di forza e conserfto, il C. ne smentisce il ca- rattere economi- co. 237 Il diritto come momento essen- ziale dell’azione politica. manca di necessità anche l’altro. Infatti una forza che non tro- vasse alcun consenso, sarebbe una pura violenza che si strugge- rebbe in sé stessa; e un consenso, privo di ogni forza, resterebbe una pia intenzione senza capacità di attuazione. Ma il C. non si è accorto che il consenso è precisamente l’oppo- sto dell’economicità. Azione economica significa un’azione con- siderata nella sua assoluta individualità, e quindi nella sua op- posizione contro le volontà avverse, il momento economico è quindi il momento del dissenso e della lotta. Consenso significa invece solidarietà di interessi, unione di più volontà in uno scopo comune, cioè superamento della volontà individuale. Dire che la volontà politica è, com’è certamente, unità di forza e di consenso, significa negarne il carattere puramente economico. È ben vero che anche dei banditi possono unirsi fra loro a scopo di preda, ma la loro società avrà carattere « economico » verso gli altri (nella loro « politica estera »), mentre, finché dura il consenso, non potrà mancare nelle relazioni fra loro né la giustizia né una certa generosa solidarietà. Economia, diritto e azione politica, che sono concetti distinti, come l’arte, la matematica e la storia, vengono astrattamente identificati dal Croce, ciò che gli toglie, fra altro, di riconoscere la funzione del diritto come momento della Politica. Tale fun- zione consiste nell’unire i vari individui o gruppi individuali di uno Stato sotto una comune volontà giuridica. Il C. vede il significato economico e quello morale dello Stato, ma non ne vede il significato giuridico che è forse quello storicamente più importante: lo Stato come soggetto della volontà legislatrice. Questo disconoscimento della funzione giuridica induce il C. a un atteggiamento incomprensivo di fronte all’esigenza dell’ugua- glianza. Dopo avere accennato ad alcune teorie politiche uni- laterali come il democratismo, il giacobinismo, ecc., egli osserva: « Le teorie politiche finora respinte perché teorie unilaterali, hanno perciò stesso almeno questo merito, di fondarsi sopra un aspetto o momento reale e di ricordarlo enfaticamente nei casi in cui si tende a dimenticarlo o a negarlo. Ma c’è una S40 teoria politica che non possiede nemmeno simile merito e non si fonda su alcun momento della relazione politica, ed è tuttavia quella che vanta forse maggior numero di seguaci, la teoria che, per evitare fraintendimenti, chiameremo non già democratica e neppure giacobina, ma, quale essa è, e g u a 1 i t a r i a ».^ « Il democratismo sarà, nelle circostanze date^ plausibile o no,, e il giacobinismo sempre pochissimo plausibile, ma l’uno e l’altro non sono intrinsecamente impossibili e assurdi com’è invece la teoria egualitaria ».^ Secondo noi quella teoria ha un significato ben legittimo ed esprime la sacrosanta esigenza dell’uguaglianza di fronte alla legge, che non è poi altro se non l’esigenza di passare da uno Stato basato sull’arbitrio a uno Stato basato sulla lega- lità. Non si chiede che i cittadini sieno uguali nel senso di avere tutti lo stesso tenor di vita, gli stessi onori e gli stessi diritti, anche quando abbiano attitudini, funzioni e doveri di- versi; non si tratta di- livellare le diversità individuali, ma anzi di farle valere togliendo di mezzo privilegi arbitrari e trattando tutti i cittadini con uno stesso criterio giuridico. Non si chiede (o almeno non si dovrebbe chiedere) che il soldato e il generale abbiano lo stesso trattamento, ma che vi sieno delle leggi che stabiliscano il trattamento dei soldati e quello dei generali, si chiede che ogni soldato, se abbia la preparazione e la capacità richieste, possa diventar generale, e che nell’assegnare un ufficio non si domandi se il candidato sia ben visto presso la Corte o presso gli alti gerarchi del partito dominante, ma si badi a sce- gliere l’uomo più capace e più adatto a quell’ufficio. « La legge è uguale per tutti » non significa altro che questo: che la legge deve essere legge e non arbitrio. Connessa con questa (e forse identica) è l’esigenza che vi sia un codice unico per tutti i cittadini e che la stessa infrazione non abbia da essere giudicata in modo diverso per l’aristocratico, il 238 La teoria eguali- taria esprime l’e- sigenza di un governo basato sulla legalità e non sull’arbitrio. 1) Etica e Politica, p. 224. 2) Ibid., 225. 341 sacerdote e il plebeo. Si può sostenere che quesvt 'ultima esigenza non è identica a quella deirequità giuridica, perché, in determi- nate circostanze, vi può essere la codificazione di diversità di trattamento secondo la diversità della nascita, senza che ciò contradica al concetto di legge. Ma, a rigore, non sf avrebbe in quel caso un solo Stato giuridico, ma piuttosto la simbiosi di piu Stati. Comunque non si deve dimenticare che il diritto non è che un momento astratto della coscienza morale e la coscienza euro- pea degli ultimi secoli (prima dell’oscuramento morale e giu- ridico dell’ultimo ventennio) si è andata sempre più orientando verso il principio che gli uomini si giudicano dalle loro azioni e non dalla loro nascita; e ci sembra desiderabile che l’assetto economico e sociale della nostra civiltà continui a svolgersi verso questo ideale dell’uguaglianza, il quale esige che a ciascun citta- dino sia offerta la stessa opportunità di mettere le sue energie 239 al servizio della causa comune. L’indifferenza Connessa con la teoria economica della Politica è la veduta ideoVo^L aH’indifferenza teorica delle ideologo di partito, tiche. ^ Le teorie o pseudoteorie dei partiti sarebbero nient’altro che espedienti pratici di cui i partiti si servono (a quanto pare, legit- timamente) per suscitare la parvenza di avere a sé alleate la ragione e la scienza, mentre ragione e scienza stanno per tutti e per nessun partito. Le teorie con le quali i partiti ragionano i loro programmi possono essere, prese per sé, corrette e vere, ma non hanno alcun legame col partito in quanto volontà poli- tica. Altre volte sono false o tutt’al più esprimono in forma di apparenza logica i sentimenti e le tendenze pratiche del partito, non di meno adempiono anche in questo caso (né più né meno di quando sono vere) al loro ufficio, che è ufficio oratorio e stru- mentale e non logico.^ Ciò che il C. dice qui può avere il merito di ammonirci a non prendere troppo sul serio certe pseudo-teorie politiche che ven- gono divulgate a scopo di propaganda, a non perdere il nostro 1) Ibid. (Politica « in nuce ») p. 238. 342 tempo a confutarle ma a badare, nel giudicare i partiti e gli uomini politici, più alle azioni che alle parole. Ma se il passo che abbiamo riferito fosse da prendersi alla lettera si stabilirebbe un hiatus fra teoria e pratica e fra economia e morale, e la di- stinzione di valori diventerebbe (secondo la tendenza che ab- biamo spesso notata) distinzione di atti, e quindi separazione dei valori. Da quanto egli dice potrebbe sembrare che per un galan- tuomo che si decida a collaborare a un partito, abbia da essere indifferente se i presupposti teorici di quel partito gli sembrino ben fondati o no. Supponiamo che un industriale, sapendo per sua esperienza che i dazi protettivi giovano ai suoi affari, abbia appoggiato un partito che aveva nel suo programma Tintensifì- cazione della politica protezionistica, e lo abbia fatto ritenendo che quello fosse il modo migliore di dare incremento a tutta la produzione, procacciare lavoro ai disoccupati e aumentare la ricchezza nazionale. Se poi, con un po’ di studio e di riflessione, egli si convincesse che quelle misure protettive ad altro non conducono che a diminuire la capacità produttiva della nazione e ad aumentare la disoccupazione e la miseria, dovrebbe egli, se- condo il C., concludere: le ideologie non contano, poco importa che sieno vere o false, io bado ai miei interessi e continuo ad appoggiare quel partito? La verità è che il C. ha appoggiato in pratica proprio quel partito che gli parve basarsi su un’ideo- logia filosoficamente e storicamente plausibile, e cosi fanno tutti i galantuomini, perché non c’è fra teoria e pratica alcuna scis- sione, bensì, come il C. ha riconosciuto altrove, reciproca im- plicazione, che vuol dire unità dialettica. Nei passi che abbiamo riferiti (e in tanti altri) il C. esclude l’istanza morale dalla valutazione dell’azione politica, e sembra accettare come realtà ineluttabile il modo brutale che hanno gli Stati di comportarsi nelle loro reciproche relazioni. Ma la sua coscienza morale non resta soddisfatta della sua teoria. Egli vede (come tutti vediamo) le difficoltà e i pericoli dei tribunali internazionali e di istituti come la Società delle Nazioni, ma ag- giunge: « E non di meno il genere umano non rinuncia alla sua 343 brama e alla sua domanda di un mondo più giusto e più mite e più civile, ossia più umano, in cui tutti i diritti sieno protetti, in cui ogni opera buona trovi aiuto e incitamento, in cui via via diminuiscano gli affanni e i dolori o vengano portati in più alta sfera che non sia quella dello iugularsi a vicenda, in cui sia abo- lita la guerra, non la guerra metafisica che è intrinseca al vi- vere stesso, ma la guerra che continua il costume barbarico del sangue, delle stragi, delle crudeltà e dei tormenti. E non solo non rinuncia a questa brama e a questa domanda, ma neppure alle premure e alle speranze che gli Stati se ne facciano inter- mediari e strumenti, e accolgano tra i compiti loro e pongano in cima agli altri il compito di civiltà innalzandosi a « Stati etici » o « Stati di cultura » : la quale civiltà o cultura è cosi legata alle condizioni del mondo intero che non può assicurarsi o pro- muoversi se non con una politica internazionale anch’essa di civiltà e di cultura ».^ Egli ritiene che questa richiesta della coscienza umana sia le- gittima e non contradica alla sua teoria. Il momento dello Stato e della politica (il momento economico) è un momento neces- sario, ma la coscienza morale è un altro momento non meno necessario. « Il secondo non distrugge il primo, si invece riopera perpetuo sopra esso, batte in perpetuo alla sua porta e in per- petuo si fa ascoltare e accogliere, pur conformandosi alla legge che regna in quella sfera ». Il politico, che non conosce se non interessi e utilità, si trova dinanzi nuovi interessi e nuove uti- lità, sorte da nuovi bisogni morali e non può respingerli e deve fare i conti con loro. Da ciò si ricava la pratica conseguenza che non basta invocare dagli uomini politici opere di pregio mo- rale, chiedendo ad essi sforzi che debbono essere compiuti da noi, ma bisogna aiutarli con le effettive modificazioni indotte nelle menti e negli animi. Se gli intelletti si liberassero più largamente dagli stolti concetti delle razze e delle nazioni privi- legiate, se, con ringentilimento degli animi, si accrescesse la 1) Etica e Politica, pp. 346-347. 344 reciproca simpatia tra le famiglie umane, gli uomini di Stato non potrebbero poi seguire quei concetti e quelle avversioni e valersene nella loro opera pratica, e una politica più umana s’imporrebbe col fatto. ^ Il modo tenuto qui dal C. per trarsi d’impaccio nel contrasto fra la sua sensibilità morale e la sua teoria politica non ci sem- bra né realistico né logico. Non logico, perché se è vero, come il C. ha detto e ridetto, che non per poca sensibilità morale ma per la natura stessa del suo ufficio, l’uomo politico deve provvedere con qualsiasi mezzo alla salvezza e potenza dello Stato, e non ha diritto di sacrificare gli interessi che gli sono affidati per considerazioni morali, è chiaro che un maggiore ingentilimento degli animi (augurabile e augurabilissimo per sé) a nulla gio- verebbe nelle competizioni internazionali. E non realistico, per- ché se dobbiamo aspettare che si formi una coscienza pubblica di tal forza da obbligare gli uomini politici, i quali dispongono dell’organizzazione militare, a mutare radicalmente i loro me- todi, c’è il rischio che nel frattempo la civiltà europea sia per diventare un ricordo storico. Che aggredire senza provocazione un paese neutrale, spogliarlo delle sue risorse, ridurlo a campo di battaglia e devastarlo, co- stringere i suoi cittadini a collaborare con gli aggressori e trat- tarli da ribelli quando vi si rifiutino, che tutto ciò non sia cosa ben fatta, è sentimento anche oggi sufficientemente sentito dalla coscienza comune. Tanto è vero che gli uomini politici dei nostri giorni non ripetono l’errore commesso dai tedeschi nel ’14 col dichiararsi francamente aggressori del Belgio, ma ricorrono a quella ipocrisia che è pur sempre un omaggio che la politica rende all’opinione pubblica; Mille fatti stanno a dimostrare il contrasto grandissimo e tut- tavia inefficace fra la sensibilità morale dei cittadini e il modo di agire dei politici. Pochi anni fa un tribunale tedesco doveva pronunciarsi nei riguardi di un tale che aveva violentato una 240 L’ingentilimento degli animi può influire da sé sui metodi della po- litica internazio- nale? 241 Impotenza della coscienza morale disarmata. 1) Ihid. pp. 347-349. 345 242 La coscienza del- la comune uma- nità deve diven- tare una co- scienza armata. giovinetta ebrea, e i giudici, ispiratisi a considerazioni politiche, assolsero Timputato da quell’accusa con la motivazione che il fatto per sé non costituirebbe reato, e lo condannarono invece per Rassenschande cioè per aver fatto offesa alla purità della razza tedesca con un connubio infamante. Riteniamo che la media sensibilità umana di nessun popolo d’Europa (nemmeno quella della Germania nazista) sia mai scesa al punto da non risentire sgomento e indignazione di fronte a simili fatti, ma ognuno vede quanto ciò abbia potuto in favore di quei milioni di uomini, di donne e di fanciulli che furono metodicamente se- viziati e massacrati in questi anni.* In un tempo in cui il potere politico dispone dei mezzi di repres- sione di cui dispone oggi, non si può sperare che il buon cuore dei cittadini disarmati possa opporsi efficacemente alla volontà armata dei governanti: i duecento citrulli diranno (o pense- ranno) di no e i quattro indiavolati faranno di si. L’elevamento della coscienza morale e religiosa resta certamente essenziale, ma questa coscienza della comune umanità deve diventare una coscienza armata. In quale forma questa esigenza] potrà realiz- zarsi lo sapranno coloro che la realizzeranno; la forma che a me, oggi, pare meno utopistica di altre, è questa: che si formi una unione di potenze, non un’alleanza con eserciti autonomi ma una unione effettiva, cosi forte da poter imporre a tutte le nazioni la propria legge. L’imperio sarebbe certo esercitato aper- tamente o larvatamente a favore dei più forti, ma è probabile che, nel proprio interesse, le nazioni dominanti finirebbero per concedere la parità a tutte le nazioni civili, come fecero in certi casi Roma antica e l’Inghilterra moderna. Concludendo le nostre considerazioni sulla teoria della poli- tica, possiamo notare che, essendo l’azione civile la più alta attività pratica, si assommano qui tutte le divergenze che ab- biamo via via rilevato fra il nostro modo di concepire i momenti dello spirito pratico e quello del nostro autore. Il dissenso concerne più particolarmente i seguenti punti: 346 Divergenze prin- cipali fra la teoria politica del C. e la nostra. 2) L’autonomia dal C. attribuita all’attività economica. Per noi l’economicità non è un fatto ma un valore, e ciò significa che non esistono in sé azioni economiche, ma che ogni azione può essere giudicata secondo il . criterio economico. Data la ten- denza del C. ad oggettivare i valori, egli presuppone che vi sieno da una parte delle azioni puramente economiche e dall’altra delle azioni economico-morali. Ove si considerino come azioni politiche più particolarmente quelle della politica estera, l’iden- tificazione di politica ed economia diventa certamente plausi- bile, purché non si dimentichi che la politica estera non è che un aspetto dell’azione politica: si combatte contro il nemico esterno perché si ama la patria, e la politica estera non è dunque che un mezzo della politica interna, come in genere l’azione eco- nomica non è che un mezzo per raggiungere uno scopo che in sé non può mai essere puramente economico. 3) L’imperfetta definizione dei concetti del diritto, della ca- rità e dell’imperativo ideale, e il disconoscimento della funzione di questi concetti come momenti essenziali dell’azione politica. Mentre la carità e l’idealità trovano poi un riconoscimento im- plicito nel concetto etico-politico, la funzione del diritto nello Stato non viene affatto riconosciuta, ciò che contrasta con una dèlie più solenni rivendicazioni dell’età moderna. 1) L’identificazione del criterio economico con quello politico. A questo proposito è interessante notare che il C. s’è fermato nella sua teoria politica a uno stadio analogo a quello da cui egli era partito nella sua prima teoria della storiografia. Egli aveva creduto allora di poter ridurre la storia sotto il concetto generale dell’arte, mentre la meditazione ulteriore, e in parte rinfluenza del Gentile, lo hanno poi indotto a identificare la storia con la filosofia. Per la Politica invece è mancato questo svolgimento ed egli è rimasto alla semplice identificazione della più alta con la più bassa attività pratica. 347 244 Quella che il C. chiama azione etico - politica non è azione mo- rale, ma politica. 245 Accordo della nostra definizio- ne della politica con la concezione crociana del li- beralismo. La nostra concezione della Politica, come realizzazione dei fini immanenti nel divenire storico ha poca probabilità di venire accettata nel nostro tempo, e forse il Croce, che ha teorizzato < la dottrina opposta, è ancora l’autore da essa meno lontano. Infatti la sua definizione dell’azione etico-politica, come voli- zione fattiva di uno scopo universale, corrisponde quasi per- fettamente alla nostra definizione della Politica, per cui il dis- senso, più che sul concetto stesso, verte sul contenuto determi- nato che a quel concetto possa riferirsi. Secondo noi il criterio con cui giudichiamo l’onestà privata non è quello etico-politico, non richiediamo da un buon padre di famiglia che egli realizzi in modo eminente un fine universale di civiltà, ma chiediamo che non conduca una vita viziosa e sregolata, che provveda al bene, dei suoi senza ledere con la violenza e con la frode gli interessi altrui. Nell’uomo politico invece scuseremo le intemperanze, la cupidigia e la durezza, purché egli serva la causa della civiltà. Come il C. ha ricono- sciuto una storia in certo modo privilegiata fra le altre, 'che è appunto la storia etico-politica o la storia della civiltà cioè la Storia senza aggettivi, ci sembra che si debba riconoscere che il contenuto di codesta Storia altro non è che l’azione civile o politica, cioè l’Azione senz’altro, poiché l’azione economica e quella morale non sono che suoi aspetti parziali. La dottrina che abbiamo delineata ci sembra quella che meglio si accorda con la concezione liberale come la intende il Croce, ^ vale a dire con l’idea di una cooperazione di volontà libere e giuridicamente disciplinate, cioè rispettose della libertà altrui, che tutte concorrano alla realizzazione incessante del progresso spirituale; mentre la dottrina economica ci sembra piuttosto accordarsi con la concezione autoritaria, secondo cui l’essenza dello Stato consiste in una volontà che s’impone con la forza. 1) Cfr. Etica e Politica, pp. 284 segg., che sono fra le più belle pagine del nostro Autore. 348 246 DaH'inopia della volizione economica abbiamo visto sorgere la necessità della volizione giuridica. La volontà economica si definisce come volontà che corrisponde a una determinata, indi- viduale situazione di fatto; ma l’oggetto del volere non è mai qualche cosa che corrisponda a una situazione puramente indi- viduale, esso è invece sempre qualche cosa di costante nel va- riare di situazioni diverse. Il soggetto che vuole non è un atomo immobile, ma una personalità che si svolge e, se egli non man- tiene fermo il suo scopo, la sua azione fallisce. La volontà che prende e mantiene un impegno è l’opposto della volizione individuale; essa è la volontà giuridica, generale e astratta, che mantiene lo stesso scopo in situazioni diverse. Quando si dice che un individuo deve, per suo stesso vantaggio, tener fede agli impegni presi, non si cade, come il C. ritiene, in un’etica utilitaria, ma si rileva la contradizione della volontà economica da cui sorge l’esigenza del Diritto. Questa necessità, insita nel concetto e immanente nella storia, per cui lo spirito non può affermarsi in una determinazione senza rendere esplicita l’affermazione opposta, è ciò che il Vico chiamava la Provvidenza. Attribuire ai singoli momenti concet- tuali una indebita autonomia, significa quindi negare la dia- lettica concreta, cioè negare l’idea della Provvidenza. La volizione economica che si definisce come volontà che trova i mezzi adatti alla situazione presente, è in sé la forza esecutiva; la volizione giuridica, che, come volontà generale e astratta, non combacia con la situazione presente, è in sé priva di forza ese- cutiva e la ripete da una volontà passata. La pressione esercitata dalla volontà legislativa, col prestabilire delle condizioni di fatto tali da indurre la volontà economica a coincidere con la volontà giuridica, è ciò che si dice la forza coercitiva. Esaminando la filosofia del diritto del Croce abbiamo visto che in essa si mette in rilievo la contradizione del momento giuri- dico e insieme si afferma che quella volizione impossibile è tanto necessaria che non si può concepire alcuna società senza leggi, ciò che avrebbe dovuto far riconoscere la dialetticità di Ricapitolazione del capitolo ter- zo. 349 quel concetto. Abbiamo notato a questo proposito che mentre i concetti puri del C. ci offrono un criterio per distinguere il bello, il vero, l’utile e il bene dai concetti opposti, le sue teorie sulla cronaca, sulla matematica, sulla scienza naturale e sul diritto non ci danno i criteri corrispondenti dell’esattezza filologica, della coerenza formale, della realtà sperimentabile e dell’equità giuridica. Chiedendo, come fa il C., se la legge abbia carattere economico o morale, si pone un problema insolubile, come chi chiedesse se la matematica abbia carattere poetico o empirico. La legge ha il carattere giuridico suo proprio, che sorge come antitesi ne- cessaria del volere economico e prepara gli schemi al volere morale. Secondo il C. la volizione del legislatore e quella del giudice appartengono a sfere diverse, perché la prima ha per suo oggetto un fine generale, mentre la seconda si applica al caso concreto. Ma noi abbiamo notato che la posizione'è identica: anche l’azione del giudice, in quanto azione giuridica, ha come suo oggetto un fine generale, cioè afferma un diritto e non un interesse; tanto è vero che la sentenza può diventare elemento costitutivo della legge stessa. Il C. identifica la volontà giuridica con quella economica, iden- tificazione che merita di venir ricordata come esempio di quel metodo, che abbiamo più volte illustrato, col quale si può dimo- strare che ogni concetto è identico a qualsiasi altro. Secondo quella definizione ciò che si richiede dal buon giudice dovrebbe essere lo stesso di ciò che si richiede dall’abile uomo d’affari, cioè che egli provveda accortamente ai suoi interessi. A codesta filosofia del diritto, che ci sembra altrettanto inade- guata quanto la gnoseologia crociana delle scienze, abbiamo con- trapposto una concezione diversa, secondo cui i caratteri della volizione giuridica sono: la sua universalità categorica, la cor- rispondenza con l’utilità (da cui il diritto sorge per antitesi), la coercizione (cioè il fatto di presupporre dietro a sé una forza esecutiva), l’equità (cioè la disinteressata identità del volere), 350 e il riferimento alla volontà morale, di cui il diritto è un mo- mento astratto. Abbiamo visto che i due momenti antitetici, l’interesse senza giustizia e la giustizia disinteressata si conciliano nella sintesi dell’azione virtuosa, che dev’essere appassionata come l’inte- resse e universale come la giustizia. La deficienza dell’uno o dell’altro momento caratterizza anche qui due opposti peccati: l’egoismo ingiunto e la frigida legalità che vien detta farisaica. La carità virtuosa è un momento necessario ma insufficiente della fenomenologia pratica, e il C. ne rileva piuttosto l’aspetto negativo che quello positivo. Noi ne abbiamo rilevata la neces- sità mostrando che anche chi volesse disinteressarsi dei suoi simili e vivere da egoista, riaffermerebbe pur sempre l’amore, e sia pure un amore angusto e poco generoso, come è quello verso sé stessi. Come il pensiero non può cogliere l’individuale (individuum inef abile) ma solo il Concetto, cosi il termine della volontà è sempre qualche cosa di generale. L’amore, come è qui inteso, si può definire volizione di classe, o solidarietà del gruppo sociale, e corrisponde a ciò che nella gnoseologia è il concetto empirico o concetto di classe; l’uno raccoglie una mol- teplicità di interessi nell’unità di uno stesso diritto, come l’altro accoglie una molteplicità di rappresentazioni nell’unità di un concetto astratto. L’amore, che dovrebbe essere superamento della particolarità, è, per sua natura, particolare esso stesso, coloro che dicono di amare ugualmente tutti gli uomini e magari tutti gli esseri viventi sono di sofito i più poveri di passione affettiva, poiché l’amore (come il concetto classificatorio), ^perde in determina- tezza ciò che sembra guadagnare in estensione. Il particolari- smo non si supera con un generico universalismo, ma negando il finito per affisare l’eterno. L’imperativo ideale è l’antitesi dell’amore; questo ci comanda d’immedesimarci con gli scopi altrui, mentre quello c’impone di distaccarci da ogni scopo contingente. La distinzione kantiana tra imperativi ipotetici e categorici non 3Ó1 vale a distinguere i precetti della prudenza da quelli della virtù, poiché ambedue sono ipotetici quanto al contenuto e categorici quanto alla forma; ma vale invece a distinguere quei precetti dall’imperativo ideale, che è assoluto perché il suo contenuto é la forma stessa dell’attività spirituale. Se il concetto economico esige la forza e la prudenza, e quello morale la giustizia e la' carità, l’ideale esige la fede e l’entusiasmo, cioè la dedizione assoluta ad un fine che non può non realizzarsi." L’opposto della fede è quello scetticismo morale, quel tedio di ben fare, che distoglie da ogni generosa iniziativa; atteggiamento caratteristico dei ben pensanti, per cui è stato detto che i pazzi, cioè gli uomini di fede fanatica, riescono là dove i savi falliscono. L’ideale morale che dovrebbe esprimere l’essenza eterna della vita, se non si realizza concretamente diventa negazione di vita. Come il concetto puro della gnoseologia non diventa attuale che nel giudizio storico, cosi il puro ideale resta un sogno campato in aria se non si realizza nell’azione politica. Uomini politici in alto senso sono coloro che rendono reali i fini immanenti nel divenire storico e popoli politici sono quelli che hanno coscienza di una loro missione universale. L’azione civile è l’unica manifestazione concreta dello spirito pratico, e i predicati economico, giuridico, morale ecc. non in- dicano che i suoi aspetti parziali. Abbiamo combattuto l’iden- tificazione crociana del valore politico con quello economico, pur riconoscendovi i seguenti elementi di vero: 1. La forza e l’utilità sono momenti essenziali dell’azione politica, elementi che ac- quistano tanto maggiore importanza quanto più alto è lo scopo che si deve realizzare. 2. La moralità dell’azione politica va giudicata con altro criterio che non la moralità delle azioni pri- vate; non perché la Politica sia un momento inferiore in cui l’esigenza morale non è ancora posta, ma anzi perché è un mo- mento superiore, che ha già in sé la sua morale. 3. Se per « po- litica » s’intende la « politica estera », l’identificazione, anzi la sinonimia, è pienamente giustificata; ma, ove si prenda il ter- 352 mine in questa accezione, non si deve dimenticare che la poli- tica estera non può mai essere fine a sé stessa, ma è sempre un mezzo per uno scopo di politica interna. La guerra ad esempio è azione di politica estera e quindi azione economica, ma la guerra è fatta dai soldati, i quali si sacrificano per il bene della patria e la loro azione non può venire apprezzata da un punto di vista puramente economico. Abbiamo visto poi che il modo feroce e ingeneroso che hanno gli Stati di comportarsi l’uno verso l’altro non deriva dalla loro natura economica, ma dal fatto che la politica estera non si svolge entro la cornice di un diritto certo. Quando manca la tutela e il freno di una salda organizzazione giuridica, la lotta per la vita tende naturalmente verso le sue forme estreme; e ciò indipendentemente dalla sensibilità morale dei singoli uo- mini politici, i quali, se seguissero delle considerazioni senti- mentali alle quali gli altri non si sentono legati, avrebbero la peggio e sarebbero eliminati. Il Croce, il quale ha riconosciuto che non per poca sensibilità morale, ma per l’essenza del suo ufficio, l’uomo politico non ha il diritto di sacrificare gli inte- ressi dello Stato per considerazioni morali, ritiene poi che un ingentilimento degli animi possa indurre gli uomini politici a mutare i loro metodi. Noi lo riteniamo possibile solo in quanto la coscienza morale diventi una coscienza armata, capace di imporre la sua volontà ai riluttanti. La mala identificazione fra Economia, Diritto e Politica, ha tolto al C. la possibilità di intendere il significato giuridico dello Stato, come soggetto della volontà legislatrice, e la funzione del diritto nella politica, ciò che lo ha indotto ad un atteggia- mento negativo di fronte a quelle che egli chiama teorie ega- litarie. Secondo noi quelle teorie, in ciò che hanno di legittimo, altro non chiedono che l’uguaglianza di fronte alla legge, chie- dono cioè che le relazioni fra il potere statale e i cittadini siano basate sulla legge e non sull’arbitrio. Che il C. non sia soddisfatto dalla sua teoria economica sembra risultare anche dal suo tentativo di concepire l’autorità statale 353 ■23 come sintesi di forza e consenso. Infatti il momento eco- nomico è quello della volontà che si oppone ad altra volontà, e quindi del dissenso e della lotta; e il consenso, cioè Tunione di più volontà in uno scopo comune, rappresenta il superamento della pura economicità. La teoria economica meglio si accorde- rebbe con le dottrine autoritarie che pongono l’essenza dello Stato nella forza, come la teoria da noi proposta ci sembra in accordo con la concezione del socialismo liberale, che considera la politica come cooperazione civile di volontà libere giuridica- mente disciplinate. 354 V L’ITINERARIO DELLA MENTE E E’ITINERARIO DELLA VOLONTÀ CAPITOLO QUARTO Secondo il C. le due « forme » dello spirito, la teoretica e la pratica, si corrispondono in tutto. Cosi nelTuna come nell’altra c’è creazione e genialità (geni dell’arte e del pensiero, eroi della politica e della moralità); cosi nelTuna come nell’altra la ri- produzione e il giudizio accadono allo stesso modo (gusto este- tico, gusto pratico, storia delle attività teoretiche e storia delle azioni pratiche); cosi sull’una come sull’altra è dato costruire concetti rappresentativi e regole empiriche.^ L’una e l’altra si svolgono attraverso due gradi: arte e filosofia, economia ed etica. Il primo grado ha carattere individuale, il secondo indi- viduale e universale insieme; il primo può stare senza il se- condo, ma il secondo implica il primo. L’espressione poetica è alogica, mentre il pensiero filosofico non può sussistere senza espressione, l’azione economica è amorale, ma l’azione morale non può esplicarsi senza energia economica. A dir vero questa armonia prestabilita fra teoria e pratica è affermata dal C. piuttosto come un dato di fatto che come una verità di ragione: la corrispondenza c’è e basta aver occhi per 2i7 La corrisponden- za fra Teoria e Pratica. 1) Cfr. Pratica^ p. 193. 355 vederla ed è naturale che ci sia. Ma se qualcuno chiedesse poi, per quale ragione quella analogia (che è cosi fondamentale nella vita dello spirito e ha una cosi importante funzione euristica) ci debba essere, il C. non potrebbe rispondere se non che le cose stanno cosi, perché stanno appunto cosi, e che non si vede per quale ragione una parte dello spirito dovrebbe obbedire a leggi diverse dalhaltra. Di più il C. non potrebbe dire, perché di codesto fatto egli non ha visto, come direbbe Vico, la guisa 2J3 del nascimento, cioè la genesi logica. Ragione logica La ragione logica della corrispondenza è, secondo noi, questa: di tale corrispon- tratta di gradì spirituali, ontologicamente intesi, bensì di momenti analitici di un unico concetto. Non esiste da una parte l’arte e la filosofia, e dall’altra l’azione eco- nomica e l’azione morale, ma si tratta sempre della stessa realtà spirituale di cui il nostro pensiero considera con lo stesso proce- dimento analitico, ora l’aspetto individuale, ora quello uni- versale. È lo stesso atto che nell’autocoscienza distingue il soggetto o la forma (la conoscenza storica), dall’oggetto o contenuto (l’azio- ne politica) e ottiene cosi i due concetti della Teoria, che è idealizzazione del reale, e della Pratica, che è realizzazione del- l’ideale. È lo stesso atto che, analizzando l’uno e l’altro di questi due concetti, ottiene poi la definizione di tutti i momenti dialettici, sia teorici che pratici. Nel giudizio storico distin- guiamo cosi il momento formale a priori dal contenuto a poste- riori. Cioè: se facciamo astrazione dai fatti ci resta il pensiero puro, il concetto trascendentale, il valore senza la cosa valutata, l’idea del Bello senza l’opera bella, l’idea del Bene senza l’opera buona. Se invece facciamo astrazione dal criterio valutativo, ci resta un puro dato di fatto e otteniamo il concetto di natura, il concetto dei fatti naturali che non si giudicano finalistica- mente, appunto perché abbiamo formato il loro concetto vol- gendo le spalle al criterio di valore. Nel concetto naturalistico distinguiamo un elemento individuale e rappresentativo che muta continuamente e un elemento formale che resta identico a sé stesso nel variare dei fenomeni. Cioè: astraendo dal con- tenuto otteniamo l’identità matematica e astraendo dal concetto otteniamo l’intuizione alogica. Infine, analizzando l’immagine, che è il ricordo del sentito, otteniamo da una parte il conte- nuto sensibile senza estensione, e dall’altra la pura estensione dell’atto memorativo: la sensazione priva di espressione e di responsabilità teorica, e la filologia impersonale privata di ogni sensibilità. Applicando lo stesso procedimento allo spirito pratico, vale a dire analizzando il concetto dell’azione politica, vi distingue- remo la forma, cioè l’imperativo ideale e il contenuto, cioè la passione con cui amiamo lo scopo che vogliamo realizzare. E via via otterremo i momenti del diritto e dell’economia, del costume e dell’istinto. Se le categorie spirituali non fossero predicati del nostro giu- dizio ottenuti con uno stesso atto, la corrispondenza fra Teoria e Pratica sarebbe altrettanto misteriosa come quella fra le due sostanze cartesiane o fra i due attributi dello Spinoza. Ma se la correlazione è dovuta a una necessità concettuale, convien perseguirla rigorosamente, poiché ogni disparità non può essere che indizio di errore. Ricorderemo perciò i vari punti in cui il Croce, forse per noncuranza di quelle che gli sembrano minuzie sistematiche, ha lasciato sussistere una certa discordanza fra la struttura dialettica dello spirito pra- tico e quella dello spirito teoretico. Questi punti sono: 1. Il contenuto del più semplice grado conoscitivo, cioè dell’in- tuizione, è costituito dai desideri, sentimenti o impulsi, cioè, se- condo il C., dall’attività economica, che è la più semplice cate- goria pratica. Il contenuto invece del più semplice grado pratico, cioè dell’azione utile, è costituito dalla conoscenza storica, che è il sommo e più complesso concetto teorico. Per salvare la corrispondenza si sarebbe dovuto dire: o che l’intuizione sorge dalla volizione economica, e l’azione dall’intuizione; oppure che 249 Discordanze fra Teoria e Pratica nella filosofia del C. 357 l’azione economica ha per suo contenuto la conoscenza storica e l’arte la volizione morale.^ Secondo noi il momento infimo della conoscenza, cioè la sensazione, e quello infimo della vo- lontà, l’istinto, non possono avere un contenuto analizzabile perché sono già in sé l’ultimo prodotto dell’analisi; non possono averlo almeno finché altri non riesca ad analizzarli ulterior- mente, nel qual caso i nuovi concetti cosi ottenuti sarebbero essi i momenti più semplici. La reciproca implicazione si ri- scontra invece soltanto fra il più complesso concetto teorico e il più complesso concetto pratico, fra l’azione politica che sorge dalla conoscenza storica e la storia, che ha come suo contenuto le azioni politiche. 2. Nella Teoria sono ammesse due specie di funzioni concet- tuali, i concetti astratti e quelli empirici, gli uni universali senza concretezza, gli altri concreti senza universalità. Nella Pratica il C. ammette invece una sola specie di « finzioni volitive »; le leggi, universali' senza concretezza. Manca dunque il corrispet- tivo del concetto di natura.^ 3. Nella Teoria è ammessa una terza formazione « pseudo- scientifica » (che ha tuttavia una funzione essenziale per la conoscenza): la cronaca, che ci dà le notizie accertate della filologia pura. Anche per questa categoria manca il corrispet- tivo nella Pratica.^ 4. Nella Teoria il concetto trascendentale o puro è riconosciuto come il momento metodologico della conoscenza storica. Ciò attenua l’astratta identificazione di filosofia e storia, e ci offre un modo, per quanto imperfetto, di distinguere il valore di una ricerca gnoseologica da quello di una ricerca storica. Nella Pratica non è riconosciuto alcun momento corrispondente. Il 1) Cfr. in questo volume pagg. 154-155. 2) Cfr. in questo volume pagg. 316-317 parag. 217. 3) Secondo noi alla tradizione mnemonica corrisponde la tradizione pra- tica, cioè il costume. Cfr. in questo voi. pagg. 284 segg. 358 concetto deirideale, che è veramente il momento a priori, cioè il momento profetico dell’azione politica, viene semplicemente identificato con l’azione morale, o negato come azione intenzio- nale e non effettiva. 5. Nella Teoria la storia è considerata come il sommo mo- mento teoretico, mentre nella Pratica l’azione politica viene relegata nell’etnica inferior, cioè viene identificata con l’azione economica (ciò che corrisponde, come abbiamo notato, alla pri- mitiva riduzione della storia sotto il concetto dell’arte). 6. Noteremo infine che alla identificazione della storia con la filosofia dovrebbe corrispondere nella Pratica o quella dell’im- perativo ideale con l’azione politica (se per filosofia s’intende la dottrina delle categorie), o l’identificazione della politica con la religione (se per filosofia s’intende il sommo concetto della realtà). In genere si può dire che mentre nella Teoria sono chiaramente distinti, per quanto imperfettamente definiti, il concetto astratto, il concetto empirico, il concetto puro e il giudizio storico, nella Pratica risultano assai meno chiare o mancano del tutto le distinzioni dei momenti corrispondenti: diritto, carità, impera- tivo ideale e azione politica. La corrispondenza invece c’è, ma in senso deteriore, per ciò che riguarda la filosofia ,e la religione. Come l’una è negata nella Teoria, l’altra è negata nella Pratica. Il disconoscimento della sintesi fra Teoria e Pratica ha tolto al C. la possibilità di rico- noscere il senso più profondo per cui religione e filosofia non sono concetti identici, ma concetti che perpetuamente s’iden- tificano. Per questa ragione egli è giunto alla negazione della filosofia, in quanto la filosofia sia qualche cosa di più che sem- plice conoscenza storica, cioè qualche cosa di più che un’attività teoretica. Per questa stessa ragione, quand’egli non identifica senz’altro la religione con la filosofia, la considera o come mero 359 Ì50 La religione e la filosofia come superamento pratico e teorico dell’antitesi fra volontà e cono- scenza. mitologismo fantastico o come irrigidimento dogmatico delle verità scientifiche. Ora la religione non è di certo un’attività teorica che possa identificarsi con la dottrina delle categorie o con la conoscenza storica, ma è il superamento dell’antitesi tra teoria e pratica, lo stesso superamento che è rappresentato dalla filosofia; ma mentre questa percorre l’itinerario della mente ricercando il Sommo Vero, l’altra percorre l’itinerario della volontà e ri- cerca il Sommo Bene. La volontà è spinta dalla sua stessa essenza a farsi altra da sé. Essa ha cercato il suo bene nell’edonismo dell’istinto, nel for- malismo rituale, nell’utilità economica, nell’imperativo ideale e nella lotta politica; è stata 'spinta di grado in grado e ha ele- vato il suo campo, ma non ha trovato appagamento. Quando l’eroe politico ha raggiunto il suo scopo, un’amarezza lo assale, come se la realtà lo avesse tradito: non è questo che egli aveva sognato! Se le forze non gli vengono meno la realizza- zione del suo ideale gli imporrà un compito sempre nuovo. Rursus sities: ogni fine ci rimanda a un altro fine, e se non tro- viamo quiete in un Sommo Bene che non sia a sua volta un mezzo per qualche cosa d’altro, se non troviamo imo Scopo che abbia in sé la sua ragione, non potremo che constatare la infinita vanità del tutto. Questo anelito verso uno scopo' assoluto, questa sete d’infinito che troviamo nei mistici dell’India e in quelli cristiani, è ciò che caratterizza lo spirito religioso: non le formule rituali e non la giustizia e nemmeno la carità. La precettistica morale avrà la sua importanza in altro campo, ma c’è più senso religioso nel tormento dell’Ecclesiaste che nei saggi ordinamenti del Deuteronomio; c’è un più vivo senso del mistero nel «Canto d’un pastore errante » che negli « Inni Sacri ». La coscienza della vanità del tutto o, come si . diceva, della nullità d’ogni fine mondano, rappresenta la crisi dello spirito, pratico. Questa crisi non si supera finché la volontà si protende verso ciò che non è, finché si distingue tra passato e futuro, tra 360 essere e volere. Giustamente affermano i buddisti che se l’es- senza della volontà consiste nel modificare la realtà e quindi nel negare ciò che è presente, la vita non può essere che continua negazione e dolore perpetuo. Bisogna invece riconoscere che non c’è se non ciò che si vuole, che non v’è dissidio fra trovare e cercare, fra azione e contemplazione; bisogna riconoscere che passato e futuro sono nell’eterno presente. Questa coscienza che è per cosi dire l’argomento ontologico della volontà, cioè il riflesso pratico della razionalità del reale, è ciò che si dice estasi o beatitudine. L’itinerario della religione e quello della filosofia sono diversi, ma la mèta è una; Dio, come verità assoluta e come scopo su- premo; il Creatore immanente nelle creature, il Dio che costi- tuisce il nostro stesso essere, che è interiore a noi più che noi stessi. Non è Egli il Dio del passato e non quello di un ignoto futuro, ma la sua essenza è l’eterno presente.^ 1) Con queste parole (« Sarvadà-vartamàna-svabhavàdvad ») e con pie- na coscienza della loro portata idealistica si esprime Sankara nel com- mento ai Brahmasutras II, 3, 1-7, che è forse il testo in cui l’idealismo indiano si afferma con più chiara e più profonda consapevolezza. 361 CONCLUSIONE DEI LAVORO NOSTRO CAPITOLO QUINTO Conclusione. Il pensiero filosofico che abbiamo considerato e discusso in questo saggio non è che un aspetto della molteplice attività del nostro autore, e abbiamo di proposito lasciato fuori del nostro quadro la sua opera di erudito, di critico e di sto- rico. Per intendere quanto vasta e profonda sia stata Tinfiuenza esercitata dal Croce sulla nostra cultura, basta ripensare a tanti suoi giudizi che a suo tempo si opponevano alTopinione comune e ora son diventati di dominio pubblico. È in gran parte merito suo se un pensatore come il Vico, il quale nella storia del pen- siero europeo figurava tutt’al più come uno spaesato strava- gante, va trovando il posto che gli spetta; se il De Sanctis, del quale si parlava con degnazione, come di un barbaro non privo d’ingegno, è stato riconosciuto storico della letteratura d’impa- reggiata genialità; se il Verga (il quale non era già rimasto ignoto ai suoi contemporanei, ciò che ancora si comprenderebbe, ma era noto e popolare come autore d’un fortunato soggetto d’opera, e quanto al resto era messo alla pari coi Rovetta, i Ca- puana ed altrettali) è oggi ammirato come il nostro narratore di maggior potenza epica; se il Di Giacomo non è più confuso- 362 ' coi facili verseggiatori di canzonette dialettali, ma ha il suo posto fra i pochi veri poeti. È merito del Croce — per ricordare una delle sue minori fatiche — se gl’italiani possono leggere, nel Pentamerone del Basile, una delle più belle e originali raccolte di fiabe che esistano al mondo, come è merito suo, per attenerci ancora al solo campo letterario, se la nostra critica artistica ha tutt’altro tono di quella di cinquanta anni fa, o se i commen- tatori di Dante non s’indugiano più tanto su questioni insolu- bili e inessenziali. Questa vasta opera genericamente culturale del C. è quella che più facilmente riesce accessibile al lettore di media cultura, ma la sua opera più propriamente filosofica, come è per sé la più importante, è anche la sola che ci permette d’intendere non su- perficialmente il suo punto di vista e il suo atteggiamento nelle varie questioni particolari. Dopo aver esaminato parte a parte il suo pensiero filosofico, vo- gliamo procurare di darne una caratteristica e una valutazione conclusiva. La prima cosa che colpisce nel Croce filosofo è la vastità e vivacità del suo interesse per i problemi critici e meto- dologici, e insieme il suo relativo disinteresse per la coerenza sistematica del suo pensiero e per il problema logico o meta- fisico (il Problema unico). Sembra che ci sia stata qui un’azione reciproca fra il temperamento e la dottrina dell’autore: il tem- peramento, aderente alla concretezza della vita e della storia, gli ha fatto sempre guardare con diffidenza quelle che gli sem- bravano generalizzazioni astratte; da ciò la sua dottrina più negativa che positiva, intorno alle scienze e al diritto, da ciò la sua identificazione della filosofia con la storia e il conseguente disconoscimento del problema metastorico o metafisico. A sua volta la dottrina in tal modo foggiata lo ha indotto a libito far lecito in sua legge, rafforzandolo nel convincimento che impor- tanti sono soltanto i problemi particolari, e distogliendolo da un più rigoroso controllo dell’unità e coerenza del suo pensiero, coerenza che egli considera come cosa più o meno approssima- tiva e come una più o meno provvisoria sistemazione. 363 Questa è, come abbiamo notato da principio, la ragione per cui a molti la sua opera è sembrata piuttosto quella di un erudito e di un maestro di cultura che non quella di un filosofo, e per cui la sua infiuenza è stata maggiore, almeno finora, nel campo della cultura generale che non in quello più propriamente filo- sofico. Certo è difficile trovare un altro filosofo cosi poco animato dalla passione metafisica, e cosi disposto a considerare questa nostra passione (cioè il bisogno di farci un concetto unitario del reale) piuttosto come qualche cosa di risibile che di sublime. Ma quidquid dicere tentabam versus erat, è vano proporsi di non fare della metafisica, la si fa pur sempre, e il solo risultato che possiamo ottenere col nostro disinteresse si è di accontentarci di una concezione più confusa e incerta. Se ora ci chiediamo quale sia la metafisica del Croce, vale a dire quale sia, secondo lui, l’essenza del reale, la risposta sembra semplice: la realtà è storia, cioè attività spirituale che si rea- lizza nel circolo delle quattro forme, passaggio perpetuo dal- rintuizione al concetto, dal concetto alle due forme dell’attività pratica, e da queste a nuove intuizioni. Risposta che sembrerà semplice e chiara ad altri, ma che a noi, per le ragioni che ab- biamo esposte, sembra assai confusa e incerta. Perché le forme , sono quelle e non altre? Perché lo Spirito passa via via dalla prima alla quarta e poi di nuovo alla prima? Che significato ha questa serpe che si morde la coda? E chi è questo Spirito che si svolge nella travagliata successione storica? Si tratta di tanti individui dotati di una comune essenza o di uno Spirito unico? Se sono molti, su quale fondamento affermiamo la loro esistenza esteriore alla nostra? E se è Uno che relazione c’è fra quell’Uno e noi che lo pensiamo? Siamo noi una sua manifestazione par- ziale, un’increspatura del Gran Mare, oppure tutto il processo della storia non è che un oggetto del pensiero nostro? Si, lo sappiamo, la spiritualità non è oggetto di numerazione, come non è un processo che si svolga nello spazio e nel tempo; ma si tratta di vedere se possa avere un qualsiasi significato r extra-temporalità di un processo, inteso (e cosi per lo più lo intende il C.) come un succedersi di avvenimenti storici. Il pensiero metafisico del C. sembra oscillare tra uno spiritua- lismo monadologico e uno storicismo panteistico, e di fronte a queste concezioni sono legittimi i nostri interrogativi; non lo sarebbero invece rispetto a una concezione ben diversa, che è pure accennata dal C. e che è implicita nella sua teoria della contemporaneità della storia. Secondo questa concezione, che verrebbe ad essere un panteismo trascendentale, la vera realtà non è quella dei molti individui, che non si sa dove sieno, né quella degli avvenimenti storici, sommersi neH’oscurità del pas- sato, bensì quella del Pensiero nostro che pensa la storia. Ma questo concetto (di origine gentiliana) non fa corpo con la rima- nente dottrina, contrasta con l’autonomia attribuita ai concetti distinti, ed è smentito dalla polemica contro il panlogismo. I.a concezione metafisica del C. non ha nemmeno il merito di rappresentare a netti contorni un errore tipico, per cui non ha esercitato e non potrà esercitare alcuna importante influenza su altri filosofi. Si comprende da ciò che quei pensatori che, come il Gentile, non fanno distinzione fra il problema metafi- sico e i problemi critici (fra la logica speculativa e la fenome- nologia), sieno portati a dare un giudizio puramente negativo di tutta la filosofia del Croce e gli « inibiscono l’immortalità ».^ Nella Logica trascendentale, invece, cioè nella dottrina dei con- cetti puri o delle categorie (che è disciplina non disgiungibile ma distinta dalla Logica speculativa), il contributo del C. ci sem- bra assai importante. La più netta distinzione dei concetti puri da quelli empirici e da quelli astratti costituisce un progresso, mentre la negazione dell’opposizione dialettica tra le determi- nazioni spirituali rappresenta un regresso rispetto alla filosofia hegeliana. Un progresso è anche l’eliminazione delle ingom- 1) L’espressione alfieriana è ricordata dal C. stesso in una polemica, se ben ricordo, col pur'us metaphysicus Carabellese. 365 foranti costruzioni della filosofìa della natura e della filosofìa della storia, che trattavano i fatti contingenti come se fossero concetti puri, ma il progresso sarefofoe maggiore ove si ricono- scesse quanto v’era di legittimo in quella concezione dialettica. Il concetto crociano più importante e fecondo in questo campo è la definizione della dottrina delle categorie come elafoorazione dei concetti critici necessari al giudizio storico, definizione che ha il merito di riportare i principi trascendentali dal cielo alla terra, e di indicare in che senso la coscienza storica debba es- sere sempre insieme coscienza filosofica. Come abbiamo più volte notato, i problemi critici meno feli- ce.mente trattati sono quelli della gnoseologia delle scienze e della filosofia del diritto: la gnoseologia prammatistica, presa a prestito dalFempirio-criticismo, appartiene a una mentalità pre- kantiana ed è una stonatura in una filosofia dello spirito; e la filosofia del diritto, che identifica la volontà ^uridica con la volontà economica, cioè due determinazioni che sono l’una la negazione dell’altra, può restare come esempio di quel pro- cedere adialettico col quale si può identificare ogni oggetto con qualsiasi altro. La Filosofia della Pratica e i saggi di Etica e Politica restano pur sempre tra i più bei libri del Croce, non solo per l’esperienza di vita vissuta che si risente nel fondo dei problemi trattati, ma anche per l’alto concetto morale che vi domina, per il definitivo superamento dell’etica contenutistica e per il fondamento spe- culativo dato al concetto dell’attività economica. La defini- zione filosofica del concetto economico, che raccoglie in chiara sintesi gli sparsi accenni dei moralisti, degli utilitaristi e dei teorici della ragion di Stato, e la distinzione della filosofia del- l’economia dalla scienza economica, è da considerarsi come una delle più importanti conquiste del pensiero crociano. Potrebbe sembrare che, avendo combattuta l’identificazione della volontà politica con quella economica, il nostro apprez- zamento sulla teoria politica del C. debba risultare negativo. Quella teoria ci sembra invece assai notevole e per il rilievo 366 dato a un momento essenziale dell’azione politica, e per il co- raggio teoretico e la conseguenza con cui vi troviamo netta- mente definito un errore tipico, ciò che per il progresso filosofico ha maggiore importanza che la imprecisa affermazione di una verità. Ma il campo in cui, per comune e ben fondato consenso, il pen- siero del C. ha esercitato una più profonda infiuenza, è quello dell’Estetica e dell’Istorica. Dei problemi di queste scienze egli si è assiduamente occupato dagli anni giovanili fino a quelli dell’età più matura, sgomberando pregiudizi tenacissimi, valo- rizzando il miglior pensiero anteriore e giungendo a nuove ve- dute, che egli ha poi illuminato e svolto giovandosi della sua esperienza di critico e di storico. Che la bellezza di un’opera d’arte non vada giudicata con criterio edonistico e sentimentale, o intellettualistico e pedagogico e moralizzante, che non sia compito specifico del poeta riprodurre fedelmente una realtà' data o fornire delle documentazioni psicologiche e sociologiche, questi e tanti altri concetti che appartengono ormai alla comune decenza culturale, provano che l’estetica moderna è e rimarrà legata al nome del Croce. Lo stesso carattere di dottrina classica va acquistando, ed è desi- derabile che acquisti sempre più, la sua teoria sulla storiografia, che rappresenta un ragionato superamento delle storiografie cronicistiche, oratorie ed edificanti, e di quelle naturalistiche e sociologiche. Chi confronti gli studi del C. coi migliori trattati di metodica e teoria storiografica che si avevano prima di lui, e nei quali ad ogni passo i precetti empirici, le osservazioni occa- sionali e le approssim.ative classificazioni si sostituiscono alla comprensione filosofica, può misurare il' progresso compiuto dal nostro autore. Uno dei suoi meriti è anche qui come nell’Estetica e nella Morale di averla fatta finita con le teorie contenutisti- che, che pretendono di definire il carattere di una disciplina non dalla sua forma spirituale, ma dalla materia che vi è stata ela- borata, come se si potesse prescrivere al poeta e allo storico di quali argomenti essi possano occuparsi e di quali no. 367 Nuoce all’Estetica del C. rautonomia che egli attribuisce aU’in- tuizione come agli altri concetti distinti, e quindi il modo onto- logico con cui è concepito il valore estetico. Il problema critico « che cosa è l’arte? » è legittimo solo in quanto si riferisca al giu- dizio nostro; e più correttamente lo si dovrebbe formulare cosi: « quale è quell’aspetto della realtà spirituale che noi giudi- chiamo come valore d’arte? » Esso diventa invece un problema privo di senso ove si supponga che esista, non si sa come, un’in- tuizione alogica in sé. Per il poeta, nell’atto di poetare, quella che potremo poi chiamare opera d’arte non può essere che la veridica storia deH’anima sua, ed egli non si proporrà di certo, come invece faranno i decadenti costruttori di decorazioni, este- tiche, di fare opera di « poesia pura », cioè priva di verità e di fede. Noi riteniamo che si debba accettare il concetto crociano dell’Estetica, pur apportandovi qualche chiarimento e svolgi- mento con raffermare il carattere di totalità dell’atto spiri- tuale autocosciente, negando l’autonomia ontologica dell’arte (senza perciò cadere nelle grigie identificazioni del valore este- tico con gli altri valori), e analizzando l’intuizione nei suoi mo- menti costitutivi, che sono la coscienza sensibile e l’atto memo- rativo. Alla teoria della storiografia nuoce il disconoscimento della cer- tezza filologica come momento necessario del giudizio, e la iden- tificazione adialettica della storia con la filosofia. Ma il buon senso del C. lo salva poi dal giudicare, come seguirebbe da quella identificazione, le opere degli storici col criterio con cui si giudicano quelle dei filosofi. Abbiamo più volte avuto occasione di notare delle contradi- zioni nel pensiero del nostro autore e in genere la maggiore im- portanza che egli attribuisce alla diretta intuizione dei problemi che di volta in volta lo occupano, piuttosto che alla coerenza sistematica dei suoi concetti. Potrebbe sembrare da ciò che la sua filosofia sia da considerarsi come una rapsodica giustappo- sizione di singoli problemi (ed è questa l’impressione che ne ebbe, ad esempio, il Gentile). Non si può negare che in quella 368 impressione vi sia qualche cosa di vero, ma, secondo noi, Tin- tima unità della « Filosofia dello Spirito » è assai maggiore di quanto possa sembrare a prima vista. Una conferma decisiva di questa unità ci sembra risultare dal fatto che abbiamo potuto dedurre tutti gli errori del Croce da un errore solo, cioè dal disconoscimento della opposizione dialet- tica fra le determinazioni spirituali. Da codesto disconoscimento sorgono infatti tre ordini di errori: 1. I momenti del Concetto vengono indebitamente considerati come autonomi. Si afferma un’arte alogica, una economia amo- rale, una pura teoria e una pratica pura; manca nelle catego- rie inferiori l’esigenza della sintesi superiore da cui sono astratte, e il passaggio fra una determinazione e l’altra non appare ne- cessario. Le categorie superiori perdono la loro universalità, perché di fronte a loro restano, indipendenti nella loro sfera, i concetti inferiori. I momenti concettuali prendono in tal modo l’aspetto di semplici classificazioni, per cui sembra che si pos- sano annoverare con lo stesso diritto innumerevoli altri pre- dicati oltre a quelli fortuitamente ammessi del bello, del vero, dell’utile e del giusto. E il vero, cioè l’atto del pensiero, viene a trovarsi par inter pares fra gli altri concetti, e non si vede come possa comprenderli e farne oggetto di filosofia, se essi non sono un contenuto suo ma gli sono giustapposti. Poiché il conoscere non è considerato come il Tutto ma come una parte dello spi- rito, si postula una realtà che trascende la conoscenza, che è di là dal conoscere e che però dovrebbe restare logicamente inco- noscibile. 2. Avendo misconosciuto il carattere dialettico proprio di ogni concetto filosofico, quando poi ci si accorga della contradizione insita in una data determinazione, si è portati a negarla sen- z’altro. In tal modo viene negata la necessità categorica della coscienza sensibile, della certezza filologica, del concetto mate- 369 24 matico e fisico, del diritto, e di altri momenti altrettanto legit- timi e in sé ugualmente contradittorii come quei quattro che si sono riconosciuti. 3. Se non si concepiscono le determinazioni categoriche come momenti di un unico Concetto, cioè come predicati del giudi- zio nostro, si è indotti ad attribuire a quei momenti una consi- stenza ontologica, come se esistessero in sé certe opere artistiche e certe altre economiche jo morali ecc. Ma poiché d’altra parte è facile rnostrare che in ogni opera concreta sono presenti tutte le determinazioni, si è portati a identificare tutto con tutto, secondo la formula: se in A c’è sempre anche B e in B c’è sempre anche A, vuol dire che A e B costituiscono una sola realtà e si equivalgono. Con questo ragionamento il C. è giunto a identifi- care l’intenzione con la volizione, la coscienza sensibile con la volontà, la filosofia con la storia, l’economia col diritto e con la politica e via discorrendo. Come gli errori del C. derivano tutti da una sola radice, cosi la diversa impostazione che ci sembra necessaria in molti pro- blemi particolari, ha anch’essa una ragione sola, cioè il modo diverso con cui riteniamo si debba concepire la relazione fra i concetti. Riprendendo il problema postkantiano della deduzione delle categorie, noi abbiamo riconosciuto che le singole determina- zioni non sono che momenti analitici dell’autocoscienza. Se non c’inganniamo abbiamo potuto in tal modo portare una nuova luce nei vari problemi critici, e in particolare nel pro- blema estetico, con la teoria sulla sensazione, sulla certezza filologica e sul mito; nella gnoseologia delle scienze, con la de- duzione del concetto astratto e di quello empirico; nell’etica inferiore con la teoria sull’istinto, il costume e la volontà ma- gica; e in quella superiore con la teoria del diritto e della politica. Ci auguriamo ché questi concetti • risultino degni di ulteriore 370 esame e di sviluppo, e che questo nostro studio contribuisca a far uscire l’idealismo italiano dal punto morto in cui si trova, dimostrando che l’affermazione della totalità spirituale non deve condurre alla soppressione del pensiero in un grigiore in- distinto; come, d’altra parte, la varietà e determinatezza dei problemi particolari non deve far perdere di vista l’unità logica e metafisica del reale. 371 24 bi8 INDICE dei NOMI Agnosticismo, 229. Albeggiani, 36. Alessandrini, 164. Alessandro, 90, 107, 331. Amendola, 7. Archimede, 93, 223, 263. Ariosto, 131, 156. Aristarco Samio, 263. Aristide, 41. Aristotile, 40, 50. 84, 90, 106, 126, 203, 243, 244, 245, 247, 310. Atomisti, 92. Attila, 224. Attualismo, Attualisti, 26, 37, 39, 55, 75, 80, 82, 94, 105, 106, 114, 117, 193. Bacone, 98, 99. Basile, 363. Beck H., 147. Berchet, 162. Bergson, 231, 236. Bibbia, 313. Bismarck, 57. Boccaccio, 71. Boezio, 247. Borchardt, 24. Borgese, 164. Boutroux, 216, 236. Brahmasutras, 361. Bruecke E., 133. Buddisti, 361. Buddho, 77. Callide, 77, 297. Capuana, 362. Carabellese, 365. Cardano, 281. Carducci, 157, 186. Cartesio, 25, 60, 71, 150, 215, 242, 248. Catone, 323. Cavour, 57. Cesare, 107, 331. Cesari, 180. Chamberlin, 297. Ciang-kai-scek, 295. Cicerone, 24. Cirenaici, 220. Condillac, 128. Conti, 159. Cratilo, 189. Cristianesimo, 263. Cristo, 319. Criticismo, 257. Cuvier, 212. Dante, 71, 164, 186, 187, 260, 330, 331, 363. Democrito, 83. De Sanctis, 165, 183, 184, 362. Deuteronomio, 360. De Wulf, 247. Dickens, 168. Di Giacomo, 362. Dolce, 164. Dostojewski, 168, 181. Ebbinghaus, 25. Ecclesiaste, 360. Empiriocritici, 220, 226, 262, 366. Empiristi, 120, 248, 260, 261, 263. Epitteto, 313. Eraclito, 189. Erasmo, 24. Euclide, 93, 201, 240. Fazio-Allmayer, 82. Fedone, 39, 245, 246. Fermat, 215. Fichte, 41, 50, 90, 93, 257, 274. Fischer Kuno, 128. 375 Fischer Ottokar, 133. Foscolo, 98, 99. Fraenkel, 23. Francesco (San), 98, 99. Fuelep, 133. Galilei, 57, 201, 215, 240. Gaunilone, 91, 244. Gentile, 36, 37, 87, 88, 90, 193, 221, 347, 365, 368. Gesù, 320. Giainisti, 318. Goethe, 186. Goldoni, 177, 181. Gorgia, 77. Guttinguer, 163. Hegel, 26, 30, 47, 49, 52, 56, 58, 59, 61, 64, 66, 71, 78, 83, 90, 91, 101, 102, 105, 106, 113, 120, 135, 147, 171, 197, 199, 200, 202, 203, 211, 220, 226, 253, 259, 260, 271, 275, 296, 319, 324, 365. Hegeliani, 52. Hegelismo, 52, 102. Heine, 83. Hobbes, 332. Hume, 71^ 205, 228, 229, 233, 235, 249, 251, 261. Ibsen, 181. Idealismo, 273, 278. Idealismo assoluto, 104. Idealismo hegeliano, 34. Idealismo indiano, 362. Idealismo italiano, 25, 113, 371. Idealismo postkantiano, 26. Illuminismo, 256. Intuizionismo, 87, 226, 251. Jacobi, 220, 228, 236, 249. Juleville, 163. Kant, 24, 25, 38, 50, 57, 58, 60, 68, 71, 88, 91, 93, 98, 106, 126, 127, 128, 131, 132, 150, 182, 205, 206, 207, 216, 217, 226, 228, 233, 242, 244, 249, 250, 251, 252, 255, 256, 257, 259, 260, 273, 274, 275, 319. Kropotkine, 98, 99. Lavoisier, 223. Leibniz, 84, 202, 215, 248. Lenin, 310. Le Roy, 141, 229, 235, 236, 237. Locke, 71. Loewy, 133. Lombardo Radice, 188, 189. Lorenzo il Magnifico, 187. Lotze, 64. Mach, 222, 226, 234, 235, 238, 239, 240. Machiavelli, 329. Manzoni, 144, 186. Mario Vittorino, 153. Materialismo, 277, 278, 279. Maxwell, 201. Ménone, 246. : Michelangelo, 164. Mill, 239. Misticismo, 277, 278, 279. Mnemosine, 131. Molière, 177. Mommsen, 59, 68. Moni, 25. Montaigne, 203. ' Muoni, 162, 163, 165. Napoleone, 90, 331. Naturalismo, 104, 105, 260. Neoplatonici, 146, 149. Newton, 212, 215, 223. Nietzsche, 298. Nominalismo, 109, 220, 229, 240, 261. Occam, 228. Omero, 162, 331. S76 Panlogismo, 87, 88, 106, 109, 110, 365. Panteismo, 243. Papini, 7. Pardo, 52. Parmenide, 83, 242, 243, 244, 247. Paulsen, 233, 251. Petrarca 24, 71, 157, 172. Petrocchi, 180. Pindaro, 162. Pitagora, 257. Pitagorici, 146. Platone, 25, 83, 90, 144, 199, 244, 245, 246, 247, 313. Platonici, 92. Platonismo, 116, 149. Poincaré, 207, 230, 231, 233. Poiignoto, 139. Postkantiani, 61, 84. Pragmatismo, 87, 141, 152, 221, 226, 228, 229, 248, 249, 251, 262, 263. Principe (II), 39. Racine, 163. ' Ravaisson, 236. Razionalisti 105, 243, 248, 260, 261. Realismo, 89, 92, 243. Riehl, 133. Rosenkranz, 127. Rosmini, 128, 216. Rousseau, 58. Rovetta, 362. Sankara, 90, 362. Sankhya, 147. Scetticismo, 228, 248, 352. Schelling, 71, 220, 274. Schopenhauer, 56, 245, 274, 275. Sensisti, 120. Sesto Empirico, 245. Shakespeare, 163, 331. Sociologismo, 265. Socrate, 77, 90, 198, 199, 243, 245, 246. Sofocle, 162. Solipsismo, 107. Spaventa, 275. Spinoza, 24, 60, 68, 84, 215, 244, 248, 260, 357. Spirito 76. Staèl, 163. Stein, 98. Stendhal, 163. Storicismo, 104, 105, 106, 109, 260. Tolomeo, 263. Tolstoi, 168. Tommasi, 43. Twain, 178. Vaihinger, 216. Vangelo, 313, 323. Vauquelin de la Fresnaye, 162. Verga, 172, 362. Vico, 33, 49, 114, 153, 176,^ 204, 226, 260, 283, 296, 325, 349, 356, 362. Virgilio, 187. Voltaire, 320. Vossler, 178. Wagner, 174. Wells, 238. Whitney, 180. Wundt, 180. Yoga, 147. Zenone, 113. ■ 377 X [Finito di stampare in Milano il 6 giugno 1946 «elle officine dell’ I. E. I. su progetto grafico di V Giampiero Giani DATE DUE « ! GAYLORD B FANO. 3611+ .C7!ì F3 Bapst Library Boston College Chestnut Hill, Mass. 02167 BOSTON COLLEGE LIBRARY CHESTNUT lilLL, APASS.